IV.

La difesa della città, preparata sin dalla primavera di quell'anno 29, non potrebbe avere cominciamento più glorioso: vi è segnato il nome di Michelangelo Buonarroti. Il por mano alle operazioni di guerra, mentre pure pendono que' negoziati d'ambasciatori che continueranno anche troppo, non potrebbe avere dimostrazione più magnanima: il 29 di settembre, avvicinandosi l'esercito imperiale, per impedire che, riparato dai borghi e dalle ville suburbane, si avvicini troppo alle mura, si delibera di distruggere borghi e ville: e la deliberazione è senza indugio eseguita, guidando spesso i padroni medesimi l'abbattimento e la desolazione de' propri possessi. Così rispondeva la città “di mercanti„ ai motteggi di papa Clemente, che la si sarebbe arresa per non disertare le sue botteghe dentro e vedersi guastare fuori i suoi belli [81] “orticini„: nè a quella distruzione mancarono Careggi ed altre superbe ville de' Medici, ed altresì de' Salviati e di altri Medicei. L'ambasciatore veneziano Carlo Cappello, il quale stava per la Serenissima in Firenze consigliatore (non altro però che consigliatore) di resistenza, scriveva a' suoi Signori: “Unitamente fu deliberato, più presto che devenire alla volontà del Pontefice, non solamente sostener la ruina del contado e la iattura delle facoltà, ma eziandio ponervi la propria vita, offerendo ognuno volontariamente quella quantità di denari che comportano le forze sue.„ E nei Consigli sonavano parole di tal sorta; parole autentiche, non di romanzieri e nemmeno di storici, ma dagli atti originali di quelle adunanze: “Gustata la libertà, è da posporsi a lei ogni cosa umana.„ Alla proposta “se si ha a rimetterci nella discrezione del Papa, o vero difenderci„, i Gonfalonieri delle Compagnie sono risoluti “difendersi, e mettere la roba e figliuoli, e non si dare a discrezione di chi non ha mai avuto fede alcuna„. E ancora: “confidare in Dio, consigliarsi, aver fiducia nelle forze proprie e nella causa giusta, ma non cedere, perchè chi scende un gradino della scala la scende tutta.„ E alla Maestà di Cesare deliberavano che gli ambasciatori già mandati presso il Papa “facessero intendere, quanto la città nostra sia bene disposta verso quella, e quanto noi siamo desiderosi di essere suoi fedeli servitori e buoni figliuoli di Santa Chiesa: e perciò non dovrebbe, per satisfare alle ingiuste voglie di chi desidera ridurci sotto la sua tirannide, perseguitarci con sì crudele guerra, guastando e rovinando tutto il paese nostro, con la uccisione e vituperio di infiniti uomini e donne; cosa non solo aliena da sua Maestà Cesarea, ma ancora da ogni scellerato principe. Mostrarle la ingiustizia della causa, il disonore che ne risulta alla sua Corona, il danno che ne séguita non solo a noi, [82] ma a tutta la Cristianità, avendo sulle spalle il nemico universale de' cristiani, con sì potente esercito, e dovendosi quelle forze voltare contra lui.„ Cioè contro il Turco, le cui armi, guidate da Solimano, devastata prima e poi fattasi vassalla l'Ungheria, sovrastavano minacciose alle mura di Vienna; mentre la Santità di Clemente spingeva le armi del Sacro Impero contro le mura di Firenze e la libertà d'Italia.

Ritorno alla lettera dell'orator veneto: “Questa mattina, nel Consiglio degli Ottanta, hanno deliberato di non tardar più, e che dimani si rovinino e si abbrucino tutti li borghi di questa città, non avendo rispetto a molti bellissimi palazzi e luoghi religiosi.„ A proposito de' quali, è sempre grande e bella ricordanza, che pervenuta quella magnanima distruzione al monastero di San Salvi, e propriamente al refettorio, dinanzi al cenacolo mirabile di Andrea del Sarto, a un tratto tutti quanti erano, cittadini e contadini e soldati, “tutti quanti„, racconta il Varchi, “quasi fossero cadute loro le braccia e la lingua, si fermarono e tacquero, nè vollero andare più oltre con la rovina.„ Episodio di guerra, condegno ad una città che alle sue fortificazioni avea saputo preporre, senza uscire dal novero de' suoi cittadini, il divino Michelangiolo; e con parole degne d'essere risapute ne' secoli: “Li magnifici signori Dieci, desiderando che la munizione e fortificazione della nostra città..., giudicata non solo utile ma necessaria a resistere agli imminenti pericoli che si veggono ogni giorno, non solo a noi ma a tutta Italia, per le frequenti inondazioni de' Barbari, soprastare; e veduto tale e così importante impresa non si poter al desiderato fine e alla debita perfezione conducere senza l'ordine e indirizzo d'alcuno eccellente architettore, che e' concetti suoi alti secondo la disciplina di quella arte, come peritissimo uomo sappia, e come amorevole verso [83] questa patria voglia, mettere in opera;.... giudicarono, dove abondano e' propri e domestici tesori, esser cosa superflua delli esterni andar cercando. Pertanto, considerata la virtù e disciplina di Michelagnolo di Lodovico Buonarroti nostro cittadino, e sapendo quanto egli sia eccellente nella architettura, oltre alle altre sue singolarissime virtù et arti liberali, in modo che per universale consenso delli uomini non trova oggi superiori; et appresso, come per amore e affezione verso la patria è pari a qualunque altro buono e amorevole cittadino; ricordandosi della fatica per lui durata e diligenzia usata nella sopradetta opera sino a questo dì gratis e amorevolmente; e volendo per lo avvenire per li sopradetti effetti servirsi dell'industria e opera sua;.... detto Michelagnolo condussono in generale governatore e procuratore costituto sopra alla detta fabrica e fortificazione delle mura, e qualunque altra spezie di fortificazione e munizione della città di Firenze.„

Michelangiolo (è cosa ormai nota, e vessata d'accuse e di difese) non restò sempre fermo al suo posto: nè solamente perchè fu dalla Repubblica inviato a Pisa e in altri luoghi del dominio per sopravvedere all'afforzamento, e a Ferrara, dove quel duca, che avevano sperato di avere Capitano generale delle milizie, gli mostrasse le fortificazioni della sua città, per le quali era celebratissimo; ma proprio perchè (noi dobbiamo a tale uomo tutta intera la verità) proprio perchè Michelangiolo Buonarroti volle lasciare Firenze mentre era assediata, trafugarsi a Venezia, uscire d'Italia. E la Repubblica, che in quel decreto nobilissimo avea esaltato il genio e la fede cittadina di lui, dovè imbrancarlo, col bando di ribelle, fra i Medicei che disertavan la patria. Ma non questa sola è la verità dei fatti; sì anche quest'altra. A spingere come avrebbe voluto il lavorìo di [84] fortificazione di San Miniato al Monte, egli incontra ripugnanze ed ostacoli durante il tempo che si trascinano, fra le incertezze e le fallaci speranze tutto il gonfalonierato del Capponi, e ne' tentativi diplomatici i primi mesi di quello del Carducci. Egli diffida, forse prima d'ogni altro, di Malatesta Baglioni capitano generale: e vede l'inconsulto starsene, dinanzi a tale e tanto pericolo, del Carducci stesso e degli altri, anzi quella diffidenza gli è dal Carducci rimproverata. Allora Michelangiolo chiede più volte, sgomento, la sua licenza, e non l'ha; e vuole a ogni modo andar via, andarsene in Francia: ma l'amore della patria sua lo trattiene, ed è “resoluto„ (sia lui che vi ripeta ciò che da Venezia scriveva agli amici) “resoluto, senza paura nessuna, di vedere el fine della guerra. Ma martedì mattina, a dì ventuno di settembre, venne uno fuora della porta a San Niccolò dov'io ero a' bastioni, e nell'orecchio mi disse, che e' non era da star più, a voler campar la vita; e venne meco a casa, e quivi desinò, e condussimi cavalcature; e non mi lasciò mai che e' mi cavò di Firenze, mostrandomi che ciò fussi el mio bene. O Dio o 'l diavolo, quello che sia stato, io non lo so.„ E o Dio o il diavolo che fosse, e chiunque si fosse (che non si è potuto trovare) quel tale che lo trascinò in mal punto a commettere ciò che mai non avrebbe dovuto, non potremmo che condannarlo, s'egli avesse persistito, come in quella lettera persisteva, nel voler varcare le Alpi, e lasciar Firenze a consumare, poichè così era destino, la sua lenta e dolorosa agonia. Ma lo sconsigliato impeto che lo ha travolto, sbollisce d'un tratto: in quel fiero animo e pronto a' subitanei trasporti e alle commozioni affettive, rientra il sentimento del dovere e dell'onore; all'artista sdegnoso prevale il cittadino amorevole verso la patria: e non è passato un mese dalla sua fuga, che egli già chiede, e lo chiede (avvertite) proprio mentre [85] le masnade imperiali calano dalle colline a circondare Firenze, chiede di tornare a' bastioni; e sapendo di avere errato, domanda ai magistrati della sua patria, egli, Michelangiolo, “misericordia„, e promette che “giusta el posser suo, non mancherà alla sua città„. E alla città sua, desiderato, ritorna, ed in essa rimane, e per essa combatte sino all'ultimo giorno: e quando Firenze cade, Michelangiolo si sottrae, fra i vinti e i perseguitati, alle vendette della scellerata vittoria; finchè l'oscurità del suo rifugio non sarà traversata dalla luce, che dovunque egli stia, lo circonda e lo irraggia. Ma nell'anima del grande artista rimangono, dopo la rovina della patria, le tenebre: e ne son figura il Pensiero triste e la Notte, che egli scolpisce sulle tombe Medicee, e li fa nel verso scabro e potente rimpiangere “il danno e la vergogna„ della servitù.

Share on Twitter Share on Facebook