III.

Ve l'avevan condotta, non tanto forse gli errori dei cittadini suoi, quanto, come abbiamo visto, necessità di tempi e degli ordinamenti statuali. Ma errori avevan pure, meno forse di altri l'onesto e avvisato Capponi!, da rimproverare i Fiorentini a sè stessi: nè tutti li scusa quella difficoltà di pronti e risoluti partiti, in che li metteva la loro democrazia, per ciò appunto dispregiata dai togati Veneziani. Essi avrebber dovuto, subito dopo liberatisi dai Medici, disimpacciarsi altresì dalle pastoie e dalle ambiguità della Lega; ritirare da que' suoi pressochè disutili e ingloriosi scorazzamenti verso Roma e Napoli le gagliarde milizie che Firenze ci aveva, le Bande Nere, forti del nome e della disciplina del loro fiorentino condottiero Giovanni de' Medici; preparar subito la difesa del dominio, pur troppo malfido perchè servile da Pisa ad Arezzo e Cortona; continuare alacremente l'afforzamento strategico della città, incominciato dallo stesso Giulio de' Medici per opera del Sangallo; e in tale condizione ed assetto, fortificato dall'innato amore della libertà, ottenere che Firenze fosse un valore politico guerresco e morale, guarentito poi da' bei fiorin d'oro de' suoi mercatanti: un valore, che Venezia, gli Este, i Della Rovere, il Doria, e quanto di meglio disposto era nella penisola, potessero debitamente apprezzare, rispetto al loro stesso interesse: un valore che Spagna e Francia dovessero bilanciare ne' loro maneggi col Papa, fiorentino e Medici, e perciò nemico. A tutto questo furono incuranti o insufficienti i Fiorentini: così che di essi non rimase valor vivo e operante, se non l'amore della libertà, che li fece eroi, ma solamente per una gloriosa caduta.

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Se nella critica storica fosse lecito avventurare divinazioni di possibili conseguenze da fatti i quali si suppongano accadere diversamente da quello che in realtà sono accaduti, vorrei farvi pensare: la morte, fra il 1526 e il 27, rapiva alla gloria d'Italia una spada valente, Giovanni de' Medici; un poderoso intelletto, il Machiavelli; ambedue fiorentini: - vorrei che immaginassimo, Niccolò Machiavelli, nel luogo del probo e dotto messer Donato Giannotti, essere, in servigio di Firenze pericolante, il segretario dei Dieci di Libertà, e portare a quell'ufficio il genio dello statista, la fedeltà passiva dell'instrumento di governo, l'animo donde usciva l'invocazione al Principe liberatore d'Italia: immaginassimo Giovanni de' Medici, rampollo dei malveduti da papa Clemente, spendere alla difesa di Firenze assediata quella sua prodezza guerriera, che fece scolpire sul marmo “esser egli morto, più che per suo proprio, per fato d'Italia„: - e una superba visione mi pare sorgerebbe dinanzi ai nostri occhi: Italia nostra, che vince la seconda grande vittoria repubblicana, dopo la veneta contro i congiurati di Cambrai, la seconda vittoria repubblicana contro le forze della tirannide dinastica, che calava oscura e pesante sulla libertà delle nazioni.

Ahimè, ben diversa è la realtà dei fatti consegnati alla storia! L'avanzarsi di Filiberto d'Orange, per la Toscana, dopo fermata in Roma l'impresa col Papa (il 12 agosto 1529,) fu un agevole abbattimento di non preparate e mal ordinate resistenze. Patteggiata, dopo breve sebben vigoroso contrasto, Perugia con Malatesta Baglioni (il sinistro nome di quest'uomo, già fin dall'aprile condotto agli stipendi de' Fiorentini, ci si fa troppo presto dinanzi), il principe s'impossessa di Cortona, luogo quasi inespugnabile che i soldati difendono bravamente ma i terrazzani tradiscono; prende Castiglione Aretino e lo saccheggia; Arezzo gli è abbandonata, esultante come di liberazione [78] propria, dal Commissario fiorentino, il quale si ritira perchè si crede che Firenze voglia raccogliere intorno a sè stessa la sua difesa: e l'Orange, assicuratosi anche del Casentino, entra nel Valdarno di sopra, e dal campo di Montevarchi, il 23 settembre, scrive all'Imperatore: “Non mi rimane più dunque a prendere se non Firenze, di che prego Dio voglia darmi felice esito.„

Firenze intanto, di Consiglio in Consiglio, di Pratica in Pratica, bada pure a confidare nel suo buon diritto, e accordatasi finalmente seco stessa a mandarne, ne' suoi ambasciatori: ne manda con facoltà, prima limitate, poi più larghe, via via che l'acqua è più o meno presso alla gola; e anche allora i Consigli discutono di questo più e del meno: ne manda al Principe, fino al campo sotto Cortona, che lo seguono, di tenda in tenda, nel suo venire innanzi sino a Figline: ne manda, dopo fallita l'opera di quelli messi ai fianchi di Carlo V da Genova a Piacenza, e perchè l'Imperatore ha detto che al Papa si rivolgano, ne manda al Papa: al Papa in Roma, al Papa in Romagna, dopo ch'e' si è mosso verso Bologna incontro all'Imperatore. E il Papa, in Roma, all'oratore concittadino, un Portinari, che gli rammenta la patria comune, e i sensi d'umanità, e la condizione di Vicario di Cristo, risponde: - averci colpa Firenze; lui essere tanto buon cittadino quanto qualunque altro. Perchè non si mossero prima? Si presenta ora l'ambasciatore di Firenze con piena balìa di trattare; ma salva la libertà e il governo a popolo. Che ci può egli? Egli, dopo il trattato di Barcellona, è legato con Cesare. (E Cesare, avete sentito, li aveva rimandati che s'intendessero col Papa). Egli ora vuol salvo l'onor suo. Confidino in lui: della libertà e del modo di governo si potrà discorrere. Farà premure al D'Orange, che soprattenga le soldatesche. - E questi sensi confermava con lettera amorevole alla Signoria. Ma in Cesena, ad altra ambasciata fiorentina di [79] quattro, in sul punto d'essere egli con l'Imperatore a Bologna, - Si tratta dell'onor mio! - risponde bruscamente - voglio che i Fiorentini si rimettano in me senza patti nè condizioni. Mostrerò poi io a tutto il mondo che son fiorentino ancor io, e che amo la patria mia. - La patria! Come potevano gli ambasciatori raccogliere tal nome da quelle labbra? Si ritraevano scorati. Ma pur troppo rimaneva un di loro, e il più valente: Francesco Vettori; ingegno di statista, amicissimo e confidente del Machiavelli. Francesco Vettori, “da ambasciator fiorentino, si rimase consigliere del Papa„; così scrive il Varchi: e quando, nella pagina accanto, egli stesso accenna a Francesco Guicciardini, che la “grandissima intelligenza ne' governi degli Stati„, in quelle strette della Repubblica la quale egli aveva pure servito, distorna, malcontento di non soddisfatte ambizioni, dalle cose presenti e la rivolge al passato, e ritiratosi in villa scrive la Storia; riserbandosi a' nuovi tempi ch'e' si fa certi della ristorazione Mediceo, noi, su codesta linea del Varchi, onestissimo narratore, rimpiangiamo quella maledizione di sorti italiane, che incatenava a rancori privati, a ignobili gelosie, a cupidigie non confessabili, le virtù vive del pensiero e del braccio nostri, e ci lasciava montar sul collo la brutale furibonda forza straniera; quel furore sopravvissuto di barbarie nordica, che la grande anima latina di Francesco Petrarca aveva già da due secoli rampognato all'Italia essere “peccato nostro e cosa contro natura„, “vincesse d'intelletto„ i figliuoli di Roma.

E che Carlo V, il Cesare de' nostri statisti e de' nostri principi e de' poeti cortigiani di quella splendida età, fosse, in pieno secolo XVI, un legittimo discendente degli Unni e de' Vandali, e degnissimo d'aver collegato il suo nome al sacrilego sacco di Roma, sentite a prova parole di lui: “Strigliate bene„ scriveva appunto l'anno [80] del Sacco, al suo Vicerè di Napoli “strigliatemeli bene cotesti Italiani: chè se non sono bene strigliati e ridotti sulle cigne, non c'è da ripromettersene nulla di buono. Bisogna, del cuoio d'Italia, farsene striscio ai fianchi.... E non mi dimenticate i Fiorentini: a quelli là, ci vuole un castigo che se ne ricordino per un pezzo; e anche se se la cavano così, sarà sempre a buon mercato.„ Secondo la qual prosa imperiale, che io vi traduco fedelmente perchè il più trivialmente che posso, Firenze non avrebbe avuto il suo avere, che a sradicarla dalle fondamenta e far divenire un fatto le leggendarie rovine di Totila. Sul capo di questo Cesare consacrava il Pontefice in Bologna le corone del Regno d'Italia e dell'Impero di Roma.

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