VIII.

Ma contro i fati che incombono alla moritura Repubblica, legittimo e degno figliuolo di lei, uscito da quel popolo di lavoratori che l'han fatta grande nel mondo, soldato della patria e della libertà, si leva Francesco Ferruccio. Quando nella storia delle umane colpe e sventure, di mezzo al male fatto o sofferto, fra i dolorosi contrasti di chi piange e di chi fa piangere, s'innalzano, da questa polvere del mondo sozza e cruenta, le figure luminose dei pochi che in quel contrasto hanno eletta la parte migliore, che hanno sposata con amplesso potente e puro alcuna delle grandi idealità dell'anima immortale, la carità, la scienza, la fede, la libertà umana, la patria; e a codesta sposa del cuor generoso si sono devoti e per lei hanno combattuto, e per lei sono caduti trionfatori; allora sentiamo che quelle sante idealità, librate nell'alto, sono state qualche volta, quaggiù basso, il reale; allora racquistiamo la fiducia nel bene, e la virtù di operarlo; allora la storia non è più solamente la maestra, sì anco la poesia, della vita. È di questi il Ferruccio.

Cominciato, come mercante ch'egli era, dall'esser pagatore delle Bande Nere che Firenze aveva nella Lega alla guerra di Napoli, uomo dirotto all'operare e intinto anche nel men bello di quella tramescolata vita del Cinquecento, fatto soldato dalle contingenze di quell'ufficio, e da naturale inclinazione, e dal vagheggiar la guerra nelle antiche storie che leggeva in volgare, si era trovato in Valdichiana e a Perugia mentre si avanzava il nemico, e da Perugia era venuto con Malatesta, che ancor egli aveva in grande concetto; ma sempre, e allora e poi a Prato, in condizione subordinata e con piccola o nessuna balìa di agire, sinchè la Repubblica lo ebbe messo a Empoli, nel cuore del dominio che solo le era [100] rimasto, commissario in quella terra munitissima e chiave del Valdarno pisano e dirimpetto ai pericoli, da un lato, di Siena nemica, dall'altro di Pistoia e Prato rivoltate. Ciò nell'inverno: ed era subito stata opera sua il racquisto di San Miniato al Tedesco, sanguinoso sugli Spagnuoli che l'avean preso e sui terrazzani che avevano favoreggiato; e lo avere, in campo aperto, con strage, spazzati dal paese quelli scorridori e ribellatori delle terre della Repubblica. Ma quando di queste terre, una, troppo importante, Volterra, si dette al Papa, rimanendo ai Fiorentini la ròcca, ma nella città afforzandosi gagliardamente i ribelli, allora il Ferruccio, chiesto e avuto da Firenze un rinforzo, si spicca rapido e inaspettato da Empoli, dopo averla lasciata sicurissima; è a Volterra, penetra con le sue genti nella fortezza, da quella si getta sulla città, la riguadagna ferocemente alla Repubblica, schiaccia non che domare la cittadinanza colpevole; poi afforzatosi a sua volta, sostiene gli assalti, prima del Maramaldo venuto da Siena, poi di lui stesso e del Marchese del Vasto soprarrivato da Empoli (caduta intanto, pur troppo, per vilissimo tradimento, in mano ai Cesarei), e ributta ambedue gli assalitori con furibonda resistenza di armi, sassi, olio bollente; resistenza, che ferito e con la febbre addosso, egli séguita a comandare e spingere sino all'ultimo, facendosi portare a braccia, sopr'una seggiola, finchè il nemico è costretto, non pure a ritirarsi ma a levare per disperato l'assedio. A Fabrizio Maramaldo inasprivano la sconfitta i trattamenti usatigli siccome a venturiero fuor delle leggi di guerra (ed egli affettava dispregio di capitano pel Ferruccio mercatante); gliela inaspriva lo scherno, solito allora negli assedi, della gatta esposta sulle mura:

Su, su, su, chi vòl la gatta

Venga innanzi dal bastione;

[101]

che questa volta diceva

Chi vòle il gattuccio

Venga avanti al Ferruccio;

mentre co' miau della bestia era salutato il nome di Maramau. E il Maramaldo se ne ricordò a Gavinana.

L'esempio del Ferruccio fece contro Malatesta, che di nessuna occasione mostrava sapersi o volersi valere per aver vantaggio sul nemico, nascere prima impazienze, poi malumori e sospetti nel popolo. Cominciavano a scarseggiare le vettovaglie, e cresceva, pe' disagi e il serpeggiare del morbo, la mortalità: ma anche nel campo Cesareo la difficoltà delle paghe e la pestilenza stremavano o disordinavan le file. Con questo di diverso bensì: che fra gli assedianti s'insinuava in pari tempo la stracchezza e la malavoglia; e le forche che sorgevano accanto al quartiere del Principe in Pian di Giullari avevano occasione a influire le loro salutari efficacie: nei cittadini invece cresceva, col pericolo, la fermezza dei propositi generosa e feroce. Avea scritto il Ferruccio: “Alla guerra non ne nasce; nè bisogna per questo sbigottirsi: chè quando i tre quarti di noi morissimo per non tornare in servitù, il quarto che resterà sarà tanto glorioso, che il resto sarà bene speso„: nè il linguaggio delle cifre e della mercatura fu mai nobilitato ad altezza maggiore. E al cuore di quel magnanimo il cuore della cittadinanza aveva sin da principio risposto con questi altri sentimenti e parole, che stanno, prezioso testamento della libertà, negli atti della Repubblica o nelle lettere dell'Ambasciator Veneto: “Piuttosto tagliar a pezzi anche li padri propri, che voler consentire a condizione alcuna indegna del viver libero.... Non dubitiamo di cosa alcuna, e siam parati e disposti a difendere la nostra libertà; confidando che la Divina Giustizia, la [102] quale non ha rispetto alle grandezze umane, sia per aiutare ad ogni modo la causa nostra ragionevole.... Ci porremo le robe e la vita.... Difenderemo questa città, finchè potremo sostenere in piedi li corpi nostri.... Abbandonati dagli amici, e massime da quelli„ (dicevano all'Ambasciatore della Serenissima; nè fu quella la sola volta che gli rammentassero la libertà repubblicana e l'Italia) “da quelli ai quali più si conviene conservare il viver libero, non saremo però abbandonati dalla grazia di Nostro Signore Iddio, come quelli che giustissimamente difendiamo dalla rapina e dalla tirannide le facoltà nostre, l'onore, la vita, la libertà....: e sempre con maggior costanza ci confermiamo in volere, ovvero conseguir la libertà, ovvero portarci di sorta, che se la perdiamo, speso e consumato tutto l'aver nostro, non sopravviva qui alcuno, e solamente si dica: Qui fu Firenze.„ Così fiduciosa nel proprio diritto e nella giustizia di Dio la repubblica metteva le mani sui beni ecclesiastici in Firenze ed in Pisa, e su quelli dei ribelli, sugli ori delle chiese fino a quelli del caro antico nido di San Giovanni: e con essi, e co' gioielli d'una mitra donata al Capitolo di Santa Maria del Fiore da papa Leone, e con gli altri di che le donne si spogliavano volonterose, si batteva moneta, col Giglio di Firenze da un lato e la Passione di Cristo dall'altro. Era sospeso, in certe ore, il suono delle campane; e come già di quelle, da chiesa a chiesa, così ora quelle valenti donne riconoscevano un ben diverso scampanìo: il trarre delle artiglierie da quel bastione o da questo. Si denunziava, mediante quella che chiamavano tamburazione, papa Chimenti (nome di dileggio) e i cardinali fiorentini ch'erano con lui a Bologna, come cittadini rei di Stato. I frati di San Marco bandivano dal pulpito la difesa della patria; promovevano pubbliche preci, processioni, ostensioni di reliquie e d'imagini tradizionalmente venerate; [103] ricordavano le promesse e le profezie del Savonarola. “Non abbiate paura; perchè Dio è per noi, e sono qui molte migliaia di angeli.... Dio e la Vergine hanno deliberato di reggere e governare questa città.... Italia sarà nelle tribolazioni, e tu, Firenze, comincierai a fiorire: quando le spade voleranno per l'Italia, e tu fiorirai.„ E il popolo traeva dalla chiesa ai bastioni, sicuro che con lui era, contro il Papa e l'Imperatore, la forza di Dio, e scriveva su pe' canti, a grandi lettere, col carbone o col gesso: “Poveri e liberi!„ Eroica plebe, che affamata, ammorbata, deserta d'ogni umano soccorso, leva gli occhi in alto, e afferma col sangue la patria: a Firenze nel 1530; a Venezia nel 1849: e suggella con due difese popolari la storia delle due Repubbliche, sulle cui bandiere, per terra e per mare, il nome d'Italia fu gloria della civiltà.

E in mezzo a tutto questo fervore di guerra; piena la città di soldatesche; tanta parte di cittadinanza vigilante in armi, e accorrendo alla difesa delle mura persino i vecchi e i fanciulli; col terrore di esecuzioni capitali che su cittadini trovati in difetto scendevano rapide e inesorabili; con l'atroce pericolo, nella penuria estrema delle vettovaglie, che si dovessero da un giorno all'altro, metter fuori le bocche inutili, cioè abbandonare al vitupero de' nemici le donne, i fanciulli, i poveri vecchi; si conservavano tuttavia le forme e le consuetudini della vita cittadina: continuavano i traffici, i luoghi pubblici si frequentavano, si ufiziavano le chiese, sedevano i magistrati; le private differenze e dissensioni si rimandavano a “dopo che ci saremo levati costoro da dosso„: si contrattavano compre e vendite, anche di possessioni occupate dai nemici; e la villa dei Guicciardini in Arcetri, dove alloggiava il Principe, messa all'incanto, trovava compratore, nè più nè meno che presso i Romani il terreno dov'era accampato Annibale. Si solennizzava il [104] San Giovanni, salvochè si convertivano in dimostrazioni d'umiliazione a Dio le gazzarre e magnificenze annuali. Si faceva sulla piazza di Santa Croce il giuoco del Calcio, proprio a portata dell'artiglieria nemica, che non mancava da trarvi sopra, ma senza che però il giuoco cessasse. E a cosiffatte dimostrazioni di sicurezza e di baldanza appartiene la sfida di Lodovico Martelli a Giovanni Bandini, uno de' Fiorentini, non pure ribelli ma rinnegati, che stavano pe' Medici contro la patria nel campo nemico: nella quale sfida al ribatter l'onore offeso delle milizie cittadine si mescolavano gelosie di non degno amore; e ne seguiva un doppio duello del Martelli col Bandini, e di Dante da Castiglione con Bertino Aldobrandi, che, dato campo franco dal Principe, si combattè con solennità sfarzosa, in sua presenza, sul piazzale del Poggio, morendone il Martelli da una parte e l'Aldobrandi dall'altra. Ma l'altro duello a morte tra Medici e libertà, rimaneva sulle spade de' due eserciti, sinistramente sospeso dal mal genio d'un uomo che la Repubblica aveva ormai fatto diventare più forte di sè medesima.

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