IX.

“Mostrano quei di fuori„ scriveva l'Orator Veneto “di voler venire all'assalto: il quale non solamente da questi non si teme, ma si desidera sopra modo, insieme con la battaglia, come certissima salute di questa città.„ Ma di battaglia non concesse mai il Baglioni (e il Colonna si rimetteva) altro che le apparenze, in parziali sortite, le quali se dimostrarono il valore de' cittadini, e de' soldati, e de' capi altresì, non escluso il Capo supremo [105] che ormai, o si stesse o facesse, tradiva, lasciarono inalterata cotesta condizione di cose, senza che la città si levasse d'addosso, con l'assedio, la minacciata rovina della sua libertà. Allegava Malatesta (il quale intanto menava pratiche col Papa e con l'Orange), essere lui responsabile della salvezza della città, e non volere arrisicarla per improntitudini di giovani: quasi che Firenze gli si fosse costituita in curatela, e col bastone del comando sulle armi gli avesse altresì delegato ch'e' sentisse e pensasse e volesse per lei. E il più iniquo di tale condizione di cose si fu, che quando essa finalmente ingenerò, come troppo prima avrebbe dovuto, sospetti di tradimento, cotesti sospetti erano soffocati, il meglio si potesse, dalla Signoria, pel timore che, risapendoli il Baglione, egli e la gente sua voltassero le armi contro la città che gli giaceva ormai nelle mani. La più coraggiosa parola dei magistrati al Capitano traditore, fu di ammonirlo ch'e' non ricevesse più ambasciate dal Papa, e “voltasse l'animo alla gloria„. Ma il Petrarca aveva già ammonito che questo non era sentimento da mercenarii:

vederete come

Tien caro altrui chi tien sè così vile.

Ed invero, nessuna più dolorosa nè più vituperosa dimostrazione dettero mai di ciò che veramente esse erano, coteste venderecce milizie, le quali in quella meravigliosa canzone, che rimase come l'elegia perpetua della libertà nazionale, il Poeta aveva denunziate all'Italia:

In cor venale, amor cercate e fede:

Qual più gente possiede

Colui è più da' suoi nemici avvolto.

. . . . . . . . . . . . . . . .

Se dalle proprie mani

Questo n'avviene, or chi fia che ne scampi?

[106]

Scampo unico e supremo tutti sentivano essere il Ferruccio: i cittadini con angosciosa speranza, con bieco terrore Malatesta, con isgomento i nemici. E il Ferruccio si mosse.

Sostituitigli Commissari valenti in Volterra, egli, poichè il Valdarno da Empoli a Signa, e la Valdelsa, erano ormai terra di nemici, fece capo a Pisa (ci arrivò il 18 luglio), col disegno d'ingrossarsi colà, e poi volgersi a Pistoia, per riprenderla, se si potesse, a ogni modo, secondo le contingenze, minacciare il campo Cesareo, ovvero da' monti, per Val di Bisenzio, riuscir sotto Fiesole, donde, sforzato il passo, entrare in Firenze; le cui forze intanto avrebber secondato il disegno, spiando e cogliendo il punto di gettarsi sul nemico, distratto verso il nuovo assalto esteriore. È da taluni attribuito al Ferruccio un altro disegno: voltarsi a Roma, con quale animo verso papa Medici è agevole a pensarsi, e così svolgere dall'assedio l'Orange, ovvero chiudere al campo assediante i varchi della Valdichiana e dell'Umbria per le provvigioni; mentre altri moti diversivi si tentassero in Pistoia e in Romagna, e si colorissero le speranze che da Genova il fedele Alamanni dava di là e, con più illusione, dalla Francia. Ma il disegno che fu attuato, rapido e violento, è troppo più verosimile fosse il solo che arridesse al Ferruccio. Se non che troppa parte di questo doveva esser coadiuvata dal di dentro della tradita città; e la febbre che inchiodò in Pisa per una diecina di giorni l'eroe dell'impresa, dette malauguratamente il tempo a' nemici di prepararsi. I Commissari di Pisa, dal letto del valoroso che si consumava del suo non potere, scrivevano ai Dieci della guerra: “Dio, per sua misericordia, non ci darà tale impedimento.„ E fra l'1 e il 2 di agosto, scrive egli “dal paese di Pescia„: “Io mi trovo in sul fatto, e guarito, Dio grazia„; e che procede come per paese nemico, e che il Maramaldo lanciatogli [107] a' fianchi è sul Pistoiese, e “se li nimici faranno sperienza di noi, allora faremo vedere chi noi siamo„. Quel giorno stesso batteva, con la solita ferocia, in San Marcello la parte Panciatica, e s'incamminava a Gavinana, verso dove per parti diverse erano rivolti i nemici.

Ne' Consigli intanto, e fin da quando egli si era mosso da Volterra, prevalevano i partiti del furor disperato: si desse a Malatesta la licenza ch'egli minacciava, infintamente, di volere: e al primo opportuno avviso dal Ferruccio, serrar le botteghe, armarsi, primo e alla testa del popolo il Gonfaloniere, “mantenere il giuramento fatto a Dio quando lo eleggemmo re di Firenze„, combattere e vincere; e se così non avvenisse, “quelli che resteranno alla custodia delle porte e dei ripari, abbiano con le mani loro, subito, a uccidere le donne e i figliuoli, por fuoco alle case, o poi uscire all'istessa fortuna degli altri, acciocchè distrutta la città non ne resti se non la memoria, ed un esempio immortale a coloro che nati liberi, liberi voglion morire.„ E il 2 di agosto, mentre il Ferruccio scriveva quella che fu la sua ultima lettera, il Gonfaloniere riferiva che alle sollecitazioni rinnovate presso il Baglioni e il Colonna, di dare addosso al campo, questi avevano nuovamente rifiutato, sebbene si sapesse che la notte innanzi il principe d'Orange, guadato Arno con buon nerbo di gente scelta, era uscito a incontrare il Ferruccio, lasciando in sua vece don Ferrante Gonzaga; il quale veramente si aspettava d'ora in ora essere assalito. Il Baglione, mutata stanza, si era di su' Renai ridotto presso Boboli ne' quartieri delle sue soldatesche più strettamente fidate; mentre, doloroso a dirsi, nelle file della milizia cittadina, avvezza al maestrato del valente Colonna, s'insinuava col sentimento della deferenza a lui, la sfiducia verso la condannata causa della libertà.

Il 3 d'agosto, entravano nel villaggio di Gavinana, a [108] dieci miglia da Pistoia, quasi ad un tempo, dai lati opposti, il Ferruccio e l'Orange: il Vitelli soprarrivava ad assalire la retroguardia de' nostri: il Maramaldo, sforzata di fianco la terra, calava loro addosso nel centro della battaglia. Cadeva fra la sua cavalleria, che il Ferruccio avea sbaragliata, l'Orange per due colpi d'archibugio: ma il piccolo esercito repubblicano, preso di fianco dai Lanzi freschi del Maramaldo, era ormai disfatto e quasi distrutto. Il Ferruccio, voltosi a Giampaolo Orsini che con lui sin da Pisa partecipava valorosamente al comando, stringendosi loro intorno i nemici e confortandoli si arrendessero, disse, conservateci autentiche da uno de' suoi come se le ascoltassimo dalla propria bocca di lui, queste parole: “Vogliamci arrendere sì tristamente? Io voglio morire.„ E di nuovo (prosegue la ricordanza dell'armigero) “e di nuovo si mise innanzi il primo, com'era stato sempre„.

Fu trovato fra i cadaveri degl'imperiali con la spada in mano, lacero di ferite, ma vivo ancora. Fatti prigioni egli e l'Orsini (pure ferito, ma che sopravvisse e si riscattò), il Maramaldo, che aveva dato bando gli fosse il Ferruccio consegnato o vivo o morto, avutolo fra le mani, “Tu sei or qui, che mi volevi appiccare?„ gli disse, e gli ricordò Volterra, e tornò a rinfacciargli, sciagurato, la condizione sua di mercante, cioè di cittadino glorioso, egli vilissimo servitore armato di chi lo pagava, o saccomanno de' paesi infelici che trascorreva. “Effetti della guerra!„ rispose il Ferruccio; e disarmato da quelli scherani, “Fabrizio, tu darai a un morto!„ gettò sulla faccia al Maramaldo; e ricevè nella gola il pugnale. “Era ragione„ scrive un altro di quei mercanti fiorentini, Filippo Sassetti, “era ragione, che il maggiore uomo che nella guerra avesse la Repubblica, avesse per sepoltura il monte Appennino„. Con lui, fra quelle montagne che non esse sole dividevano la penisola, avea sepoltura la libertà italiana: e quando dopo tre secoli spirarono le [109] aure della risurrezione, la bandiera tricolore, innanzi di sventolare sui campi lombardi alla prima guerra d'indipendenza, si era inchinata in Gavinana su quella polvere sacra.

La disfatta del Ferruccio consegnava Firenze a' nemici, mani e piedi legata. La signoria stette sino all'ultimo coi più arditi e i più fermi; rinnovando altresì i quattro cittadini Commissari della milizia, e chiamandovi il Carducci e altri simili a lui, in luogo di corrotti o accecati da Malatesta. Questi allora strinse col Gonzaga e con Baccio Valori, fiorentino, Commissario del Papa nel campo Cesareo, le pratiche sempre mantenute; secondo le quali propose alla città si accordasse, promettendole, anche tornando i Medici, libertà. Rispose la Signoria, ufficio di lui e debito essere il combattere non il negoziare: uscisse in campo, o rassegnasse il comando. Allora Malatesta Baglioni, forte ormai non più solamente di soldati ma di cittadini che fra lui e la patria (di lui più infami) sceglievano lui, rifiutò di rendere il bastone del comando, ferì di pugnale uno de' due commissari che gliene avevan recata l'intimazione, con partito de' Dieci di guerra (incredibile oggi a dirsi!) onorevolissimo, e voltò le artiglierie contro la città.

Il 9 agosto si deponevano le armi; il 12 “nel felicissimo campo Cesareo„ si sottoscrivevano i Capitoli della resa: ne' quali (difesa estrema, almen dell'onore) la città si rendeva non ai Medici nè al Papa, ma a Cesare che era fatto arbitro di ordinare e stabilire entro quattro mesi la forma del governo, “intendendosi sempre che sia conservata la libertà.„ Non era finito l'anno, e Firenze aveva suo signore Alessandro de' Medici: i due ultimi gonfalonieri della Repubblica erano, il Carducci con altri decapitato, il Girolami gettato in prigione perpetua con pronto sopraggiunger di morte: altre condanne, di scure e d'esilio, assicuravano la città divenuta ducale. [110] Malatesta Baglioni, prima di partirsi a bandiere spiegate da Firenze ch'egli aveva secondo le sue promesse salvata, onorato di privilegi dai novelli Signori e dal Pontefice, mandava a questo in dono un frate, Benedetto Tiezzi di Foiano, uno de' predicatori che avevano durante l'assedio rinfocolati gli spiriti religiosi del Savonarola. E al teologo pio e dottissimo il profferirsi a Clemente, che, lasciate le cure e le passioni civili, combatterebbe con l'autorità de' Libri Santi l'eresia luterana, non impetrò grazia della atroce morte, per la quale in una segreta di Castel Sant'Angelo finì consunto di fame.

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