III.

Di su tali cantàri e di su gli anteriori poemi, dopo che Firenze ebbe ottenuto il primato della lingua e della poesia e l'ottava rima da lirica diventò narrativa, i cantastorie toscani e specialmente fiorentini ripresero la materia epica. La nuova letteratura era riuscita, proprio come Dante voleva, aristocratica (egli diceva aulica): per una gran parte di popolo la Commedia anche coi commenti rimaneva maestosamente oscura, e il Decameron era troppo artistico: del Canzoniere non è a dire. I dantisti, gli ammiratori del Petrarca e gli amici del Boccaccio disprezzavano coteste storie di paladini udite lombardamente o venezievolmente strillare da rauche voci pei trivii. I Ciompi invece, che bruciavano i palazzi dei cittadini grassi per poi far cavalieri i padroni su le macerie, ammiravano i colpi d'Orlando, forse piangevano su la gran rotta di Roncisvalle, certo applaudivano ferocemente al supplizio di Gano; mentre i mercantucci dagli ozi delle oscure botteghe proseguivano [216] l'ideale delle avventure per le plaghe d'Oriente, gli amori delle fanciulle reali per lo stalliere, e il trionfo e le vendette dello stalliere tornato re. Ma l'abbandono alla plebe di così nobil materia cristiana e cavalleresca dovè dispiacere ai popolani serii, che pur compiacendosi dell'arte nuova erano rimasti fedeli alle tradizioni romane ecclesiastiohe del medioevo. In servizio dei quali e per lettura nelle camere e nelle sale, Andrea da Barberino, notaro ed uomo di studi, ricompilò da molti testi molte prose di romanzi, tra le quali più conosciuti e diffusi i Reali di Francia, e il Guerrin Meschino: ricompilò con intenzioni critiche il riordinamento cronologico e genealogico, con intendimenti storici e religiosi, con pretensioni di stilista: ricongiunse i Franchi ai Romani, Carlomagno a Costantino, Orlando a Scipione, e al racconto disceso a saltelloni dalla lassa monoritmica francese sostituì la flessuosa dicitura della novella italiana colorata morbidamente qua e là di qualche lume ovidiano. Le compilazioni del Barberino certamente furono lette anche allora, rimasero poi lettura prediletta al popolo specialmente di campagna, che nei grossi libri in ottave non ci raccapezzava di molto, mentre in quelle prose credeva seriamente leggere la storia della Chiesa e dell'Impero; ma nulla di nuovo e d'importante conferirono al lavorìo plebeo toscano su l'epopea carolingia, alle cui prime e caratteristiche produzioni pare che seguissero anzichè precedessero.

Lo spazio a cotesto lavoro, che tanto più crebbe quanto l'uso della letteratura volgare veniva scemando negli alti ordini tutti invasati di greco e latino, può essere posto dal 1350 al 1480. Da prima erano cantàri staccati, poi storie in due o in quattro cantàri, poemi in fine di quaranta o più canti, recitati questi un per giorno o a due sessioni per giorno, con un cenno in fin di ciascuno alla contenenza del seguente. Più famosi e stampati, e [217] ristampati in edizioni di carta straccia fin quasi al nostro secolo, il Buovo d'Antona in ventidue canti, la Spagna in quaranta, la Regina Ancroia in trenta, tutti tre di autori fiorentini, tutti tre del secolo decimoquarto finiente, o al più del decimoquinto cominciante. Nel primo l'argomento è anteriore all'impero di Carlo, e si raccontano le avventure di un lontano avo d'Orlando: il secondo contiene la parte eroica e religiosa della leggenda carolingia, la più gran guerra contro i Saracini e la rotta di Roncisvalle con la morte di Orlando: il terzo i fatti di Rinaldo, che tien fronte a una regina infedele venuta ad assalire il regno di Carlo. In tutti tre il legame ciclico e cercato e proseguito nell'antagonismo tra maganzesi e chiaramontesi. Nel secondo e nel terzo, Orlando, che per isdegno con Carlo va peregrino venturoso per l'Oriente, comincia a divenir romanzesco. Nel Buovo cominciano i segni della mistura comica non senza intenzione satirica nella caricatura di gente di chiesa. L'Ancroia è il tipo già esagerato della donna guerriera. Nella Spagna c'è qualche cosa di più singolare. Carlomagno, che incognito ritornando in Parigi si presenta alla moglie ed è riconosciuto non da lei ma da un cane di lei, assomiglia all'eroe dell'Odissea in modo che non par caso. Tutto ciò in Firenze su la fine del secolo decimoquarto annunzia la fusione degli elementi e degli spiriti che in questa forma dell'epica andrà a compiersi nel decimoquinto e meglio nel decimosesto. Del resto nella Spagna le forme esteriori del genere sono già tutte fissate dalle necessità quotidiane della recitazione: nei principii de' canti le preghiere o invocazioni cristiane che il Pucci imiterà e l'Ariosto cambierà in esordii eleganti: nel fine, le licenze o congedi agli uditori: di più, la interruzione e la ripresa delle diverse fila della favola. L'autore del Buovo comincia ogni canto con ricordare ciò che fu detto o a che fu lasciato il racconto nell'anteriore; come poi [218] fece il Boiardo. Ma il fiorentino chiude una volta il canto avvertendo gli uditori ch'egli ha sete e va a bere, intanto si riposino. L'autore della Spagna su 'l fine del quinto li ammonisce che si ricordino di por mano alla tasca e far dono.

Luigi Pulci, raccogliendo e trasformando spiritosamente la costoro eredità, chiude il secondo periodo, fiorentino e plebeo, della epopea romanzesca, e introduce al terzo e ultimo, lombardo, nel quale ella diventa classica. Anche nella seconda età dell'arte italiana, dal 1480 in poi, il movimento ricomincia da Firenze intorno la materia popolare e con spiriti popolari. Dopo tanto greco e latino, dopo tanto ricercare le isole fortunate della gloriosa antichità, si sentì il bisogno di ritornare un po' in famiglia, se non altro per assettare a onesta pompa tra le dovizie paterne le ritrovate preziosità degli avi, per lavorare con l'arte nuovamente imparata le materie gregge domestiche. Come Lorenzo de' Medici e Angelo Poliziano avevan preso a rinnovare e rincivilire la ballata, lo strambotto, la lauda, il canto carnescialesco, così il Pulci volse l'orecchio e l'animo alle storie che si cantavano in piazza. Fu l'ultimo dei cantastorie; ma salì le belle scale del palazzo Medici, e lesse, non cantò, alla tavola di Lorenzo e di sua madre Lucrezia, avendo ascoltatori e consiglieri il Poliziano, il Ficini, il Landino, genio o demonio suggeritore quel suo bizzarrissimo ingegno non mai stanco di far capriole e rilevarsi giovenilmente ridendo. Però, con tutto il rispetto ch'egli serba a tutte le monotone forme organiche dell'epica popolare, manca al suo poema la proporzione massimamente tra la prima e la seconda parte; nè ciò fa male, come non stanno male le finestre fuor di squadra nei palazzi di quel tempo. Egli séguita fedele nel grosso della favola i canti dei suoi antecessori, senza darsi briga più volte di pur mutare i versi; e con tutto ciò il Morgante è fra [219] tutti i poemi italiani quello nel quale la individualità del poeta si affaccia più ostinata, più curiosa, più impertinente. Non fece nè potè fare scuola: accennò al periodo classico, mostrando coll'esempio che anche di storie cavalleresche si poteva fare un poema lungo, leggibile ai signori ed ai letterati, e sprigionando tra quella fuga di fantasmi giganteschi e grotteschi un gruppo elettrico di scintille di buon umore.

Passando dai colli toscani alle pianure del Po, dalla piazza della Signoria di Firenze al castello di Niccolò terzo e di Borso, dalla famiglia dei Pisistrati banchieri alla dinastia dei discendenti di Adalberto e Matelda e dei guelfi vincitori di Ezzelino, dalla camera d'un gentiluomo fiorentino scaduto di nome e d'averi alle stanze merlate d'un governatore e ambasciatore ducale, dal Pulci, dico, al Boiardo, l'epopea romanzesca ritrovava il luogo e l'uom suo. Nella biblioteca del duca Borso c'erano molti romanzi d'avventura del ciclo bretone e della Tavola rotonda. Matteo Maria Boiardo scriveva egloghe latine, aveva tradotto Erodoto ed Apuleio. Intanto l'elemento romanzesco erasi già compenetrato all'epopea carolingia non sì tosto ella fu migrata in Italia; ma nessuno ancora aveva avuto il coraggio di far innamorare Orlando. Anche il Pulci non scherza con l'eroe di Roncisvalle: lo fa combattere e morire con un vero sentimento epico che ricorda la canzone di gesta, lo fa miracoleggiare con una fede infantile e grossa che ricorda la cronaca di Turpino. Ma il Boiardo al ciclo guerriero carolingio che piaceva alla plebe intrecciò il ciclo galante d'Artù che piaceva alle corti; e nell'opera sua il terribile guercio che tagliava con Durandal i graniti dei Pirenei, lo sposo di Alda, della quale solo il nome occorre due volte nella Canzone di Rolando, s'innamora d'una principessa della China. Ciò non per tanto, le avventure più strane, le fantasie più bizzarre, le forme più grottesche pigliano [220] nell'opera del Boiardo proporzione e decenza classica. Circe e Medea non erano state fate e maghe? I dragoni non custodivano gli orti delle Esperidi e il vello d'oro? Vulcano fabbricò armi incantate ad Achille e ad Enea, e Achille è il primo degl'invulnerabili. Più, il Boiardo aveva tradotto l'Asino d'oro, ove la novella sensuale e la divina storia di Psiche s'incontrano fra gl'incanti e le stregonerie più sconce e paurose. Così la nuova forma dell'epopea romanzesca usciva gloriosamente composita dalle mani dello scandianese ammirato lui stesso del suo lavoro.

La calata di Carlo VIII distrasse e ruppe il cerchio degli uditori: la morte ghiacciò la mano del poeta sul principio della terza parte, che gli rimaneva a cantare la disfatta e la morte del re Agramante invasore del regno di Francia, con la fine degli amori di Orlando, di Rinaldo, di Ruggero: morendo, egli lasciava i Saracini vittoriosi intorno Parigi. Per la curiosità volgare potea bastare la continuazione affrettata dell'Agostini. Ma la miglior generazione del miglior tempo del Rinascimento, la generazione a cui il Bembo e il Sannazzaro insegnavano la lingua e la poesia, e dava precetti di cavalleria il Castiglione, di politica il Machiavelli, di filosofia il Pomponazzo, la generazione per cui il Bramante costruiva palazzi che il Primaticcio ornava e Giulio Romano affrescava, la generazione per cui Leonardo e Raffaello dipingevano, Michelangelo scolpiva, il Cellini cesellava, quella generazione voleva qualche cosa di meglio.

Ecco perchè Ludovico Ariosto continuò l'Innamorato del Boiardo componendo il Furioso.

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