IV.

L'Ariosto compose il Furioso negli anni che passò al servizio del cardinale Ippolito d'Este, come gentiluomo di fiducia adoperato negli offici solenni o nei casi ed affari di maggior momento e più rischiosi. Il cardinale credeva, o almeno affermava, avergli dato d'entrata presso a trecento scudi; ma il poeta, interponendo un suo cugino a raggiustare le partite co'l padrone, lagnavasi di non avere più che 150 lire, e queste pagategli a sbalzi ed a sgoccioli. La provvisione ordinaria da una lettera del cardinale (21 gennaio 1511) parrebbe determinata in 240 lire marchesane (1200 fr. circa) su proventi della cancelleria arcivescovile di Milano: c'erano di più i frutti di certi benefizi ecclesiastici che l'Ariosto godè per qualche tempo e avrebbe forse anche potuto accrescere e conservare se avesse portato la chierica: il pagamento gli era fatto ogni tre mesi, ritenendosi il costo dei panni e vestiarii che venivano, pare, forniti dalla guardaroba del cardinale. Il poeta aveva anche, da due o tre anni all'infuora, anni di guerra, le spese del vivere, nel 1516 vino e frumento per due bocche, paglia e fieno per due cavalli. In tali condizioni di vita fu scritto il Furioso, che del resto fu tutt'altro che l'unico pensiero e lavoro dell'Ariosto in quei tredici anni. Per feste del cardinale compose nel marzo del 1508 la Cassaria, nel febbraio dell'anno seguente I Suppositi, e tradusse e riadattò per le scene qualche commedia di Terenzio.

Veniva intanto la lega di Cambray ad avvolgere gli Estensi nella guerra contro Venezia e nelle furie di Giulio II. Due volte nel 1509 l'Ariosto fu spedito a Roma; la seconda, di decembre, in gran fretta e fra pericoli [222] grandi, a sollecitare soccorsi contro l'armata che i Veneziani spingevano su per Po. Ebbe notizie in Roma, al 25, della battaglia vinta da Ippolito su l'armata veneta alla Policella tre giorni a dietro, nella quale avean combattuto tre Ariosti; e scriveva súbito al cardinale rallegrandosi “di avere istoria da dipingere nel padiglione del mio Ruggero a laude di Vostra Signoria„. Su la fine dunque del nove era di certo tutta ordita e già bene avviata la favola del poema, poichè sol nell'ultimo canto figura il padiglione nuziale di Bradamante e Ruggero: non però che il poeta fosse allora, come talun suppose, a scrivere l'ultimo canto: anche nel terzo, quindicesimo e vigesimoquarto è menzione della vittoria di Policella. Nel 1510 il papa, voltatosi coi Veneziani contro i Francesi, bandiva scomunicato e scaduto d'ogni diritto il duca di Ferrara tenutosi fedele alla lega di Francia e intimava al cardinale fratello di ridursi tosto a Roma. Ippolito non la intendeva, e si metteva di mala gamba; e l'Ariosto nel maggio e dal giugno all'agosto fu in Roma a placargli la grand'ira di Secondo, che una volta in Castel Sant'Angelo minacciò di farlo buttare in fiume se non gli si toglieva davanti. Stretto poi il duca e Ferrara dai Veneziani e dai papali, il poeta partecipò i pericoli della patria. Egli stesso, come ne lo lodò il fratel Gabriele nell'epicedio latino, “tutto armato fu in campo, non per istudio di veder la battaglia e cantar della battaglia gli eventi, ma preparato a morire di onesta morte per la patria e aggiungere onore agli onori del nome suo„. Ciò fu sotto i comandi di Enea Pio da Carpi in una seconda battaglia della Policella, che il duca anche vinse su' Veneziani il 24 settembre del dieci, e nella quale è fama che il poeta assalisse e conquistasse egli una nave dei nemici. Subito dopo la battaglia di Ravenna (11 aprile 1512), ove il duca Alfonso fece miracoli con la sua artiglieria distruggendo la fanteria spagnuola senza molti [223] riguardi agli alleati francesi ( - Tirate, tirate, - gridava a' suoi, - son tutti barbari a un modo e nostri nemici - ), egli vide il campo.

Io venni dove le campagne rosse

Eran del sangue barbaro e latino,

Che fiera stella dianzi a furor mosse;

E vidi un morto all'altro sì vicino,

Che, senza premer lor, quasi il terreno

A molte miglia non dava il cammino.

Ma la vittoria di Ravenna fiaccò e disciolse l'esercito francese; e il duca dovè nel luglio andare a Roma, con salvacondotto, alla sottomissione. Se non che Giulio troppo incalzava con le pretese, e poco cedeva Alfonso; che finalmente, non ostante il salvacondotto, ebbe di catti di scampar dalla grand'ira di Secondo tra le armi dei Colonna, che lo tenner celato tre mesi nel loro castello di Marino, onde sotto più travestimenti, di cacciatore, di famiglio, di frate, si salvò per la Toscana a Ferrara nell'ottobre. L'Ariosto accompagnò tra quei pericoli e in quelle fughe e travestimenti il signore; e il primo d'ottobre in riparo a Firenze scriveva a un Gonzaga: “Sono uscito delle latebre e dei lustri delle fiere e passato alle conversazioni degli uomini. Dei nostri pericoli non posso ancora parlare: animus meminisse horret luctuque refugit. Da parte mia non è quieta ancora la paura, trovandomi ancora in caccia, ormato da levrieri, da' quali Domine ne scampi. Ho passato la notte in una casetta da soccorso, vicin di Firenze, col nobile mascherato, l'orecchio all'erta ed il cuore in soprassalto„. Nel marzo del 13 con la elezione di Leone X rinacquero o crebbero le speranze di meglio nel duca e più forse in Ludovico, che era stato dei famigliari del cardinal de' Medici, e che súbito mandato a Roma per faccende ducali vedeva intorno al nuovo papa i suoi vecchi amici, il Divizio, il [224] Sadoleto, il Bembo. Se non che ben presto (7 aprile) scriveva con la sua ironia bonaria a Ferrara: “È vero che ho baciato il piè al papa, e m'ha mostrato di odir volentera: veduto non credo che m'abbia, chè dopo che è papa non porta più l'occhiale. Offerta alcuna nè da Sua Santità nè da li amici miei divenuti grandi novamente mi è stata fatta: li quali mi pare che tutti imitino il papa in veder poco.„ Di Bernardo Divizi aggiungeva: “È troppo gran maestro, ed è gran fatica a potersegli accostare; sì perchè ha sempre intorno un sì grosso cerchio di gente che mal si può penetrare, sì perchè si convien combattere a dieci usci prima che si arrivi dove sia: la qual cosa è a me tanto odiosa, che non so quando lo vedessi: nè anco tento di vederlo, nè lui nè uomo che sia in quel palazzo.„ E conchiudeva: “Io intendo che a Ferrara si estima che io sia un gran maestro qui: io vi prego che voi li caviate di questo errore.„ Meglio che la fortuna gli arrise l'amore: di ritorno da Roma in Firenze, per le feste di San Giovanni, s'innamorò fermamente della fiorentina Alessandra Benucci, per la quale scrisse rime bellissime, e la cui leggiadra imagine egli vagheggiava tra le favoleggiate battaglie e dinanzi alle ferite del più gentile de' suoi cavalieri (nel c. XXIV):

Cosi talora un bel purpureo nastro

Ho veduto partir tela d'argento

Da quella bianca man più ch'alabastro

Da cui partire il cor spesso mi sento.

Sul finire del 13 si raccolse in Ferrara, dove il suo cardinale, esperimentato Leone di volontà non migliore che Giulio, s'era ridotto, e dove anche Alessandra venne, vedova com'era d'un Tito Strozzi gentiluomo ferrarese.

Per un anno e mezzo attese a fornire e limare il poema, del quale nel luglio del dodici alle dimande del marchese [225] di Mantova aveva risposto non essere limato nè fornito ancora come quello che è grande ed ha bisogno di grande opera. Amore la agevolò. Dicono che la Benucci esigesse, per aprire al poeta, compiuto un canto ogni mese. Ai 26 ottobre del quindici l'Ariosto supplicava al doge di Venezia, che, avendo egli “con lunghe vigilie e fatiche, per spasso e ricreazione de' signori e persone di animo gentile e madonne, composta un'opera in la quale si tratta di cose piacevoli e dilettabili d'armi e di amori, e desiderando ponerla in luce per sollazzo e piacere di qualunque vorrà e che si diletterà di leggerla,„ volesse il doge dar privilegio nel suo dominio alla stampa che l'autore preparava. Più di un mese innanzi (17 settembre) il Cardinal d'Este aveva scritto al suo cognato marchese di Mantova, come, essendo per far stampare un libro di messer Ludovico Ariosto suo servitore ed a questo bisognandogli estrarre da Salò mille risme di carta, lo pregava per esenzione del dazio al porgitore della lettera. Il Furioso era dunque finito nella seconda metà del quindici che l'Ariosto aveva quarantun anno, età giusta, pensa un francese del giusto mezzo, per l'epica: troppo presto il Tasso, troppo tardi il Milton. E a' 22 aprile del sedici era finito anche di stampare da Giovanni Mazzocchi dal Bondeno in Ferrara.

Nella seconda carta di codesta prima edizione si può leggere una bolla di Leon X del 26 marzo contrassegnata dal Sadoleto, con la quale il pontefice, lodando la singolare e antica osservanza dell'Ariosto a sè e alla sua casa, la egregia dottrina in lui delle lettere e arti buone, l'elegante e chiarissimo ingegno ne' più miti studi e specialmente nella poesia, risolve che tutti questi e meriti e pregi paiono quasi per diritto esigere che il pontefice conceda liberalmente e graziosamente al poeta ogni cosa che possa tornargli in vantaggio, specialmente dimandando egli cose giuste ed oneste; séguita anche lodando [226] i libri dell'Orlando Furioso scritti in volgar lingua ed in verso, scherzevolmente (ludicro more), pur con lungo studio e meditazione e con molte veglie: dopo che viene alle solite comminazioni di multe e pene, compresa la scomunica, a chi riprodurrà o venderà, senza il permesso dell'autore, il Furioso. Per un poema dove l'apostolo San Giovanni figura per dimostratore di certe cose nel mondo della luna non c'è male da parte di un papa; ma fu la sola larghezza che il patrono di Baraballo facesse al maggior poeta del secolo; se pur larghezza s'ha a dire, dando retta al poeta nella satira quarta:

Di mezza quella bolla anco cortese

Mi fu, de la quale ora il mio Bibbiena

Espedito m'ha il resto e le mie spese.

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