I.

Quando entrai la prima volta nel Panteon a visitare la tomba di Raffaello, io stetti lungamente almanaccando come mai uno scrittore così misurato (e anche un poco pedantesco) quale era il cardinale Pietro Bembo, avesse potuto scrivere per la tomba del pittore d'Urbino un epitaffio concepito d'una iperbole così sterminata.

Permettete ch'io ve lo riferisca nel testo:

“Ille hic est Raphael timuit quo sospite vinci

Rerum magna parens et moriente mori.„

La versione suona così: “Qui giace Raffaello. Lui vivo, la grande madre delle cose temette di esser vinta; Lui morente o morto, temette di essere annientata.„

Insomma, pare troppo! Se fossimo in pieno Seicento, quando era smarrito ogni senso di moderazione nello scrivere e nel discorrere, quando per la morte d'un mediocre geografo lo si paragonava subito ad Atlante; quando per la morte d'un poeta qualunque, si tirava subito in ballo Orfeo, o Zeusi per la morte d'un qualunque [303] pittore, l'epigrafe passerebbe. Ma nel classico Cinquecento essa, o signore, è un curioso enigma. Ed io mi adoprai a spiegarmelo; e anzi dopo mi convinsi che, solamente spiegando quest'enigma dell'epigrafe bembiana, ci possiamo render conto dell'immenso concetto in cui fu tenuto Raffaello da Urbino dai suoi contemporanei e del vuoto grande e doloroso che egli lasciò, andandosene da questa terra.

Raffaello da Urbino pittore, architetto e archeologo di Papa Leone X, all'apice della sua gloria, affaticato dall'ingente lavoro, fu preso a un tratto dai primi brividi di una febbre, che in pochi giorni lo condusse al sepolcro.

Notate. Egli era nato il 28 marzo 1483 nel Venerdì Santo, e morì il 6 aprile del 1520 nel Venerdì Santo. Il giorno della morte di Cristo.

Quella piccola differenza di giorni scompariva nella fantasia del popolo. Di più, aveva 37 anni, ma la opinione generale gliene attribuiva 33; gli anni in punto di Gesù Cristo. Aggiungete che poco dopo la morte di Raffaello avvenne una scossa di terremoto fortissimo in Roma, e tutta la città ne fu agitata, e il Vaticano si sentì come crollare sulle proprie basi, tanto che il Papa spaventato fuggì dal proprio appartamento e andò a rifugiarsi in un padiglione degli orti vaticani. Le Stanze e le Logge furono malconce dal terremoto, come se quelle pareti non volessero più stare in piedi dopo che era morto il grande pittore, che le aveva convertite in monumenti così insigni nell'arte e nella storia.

Tutte queste coincidenze di segni diedero naturalmente alla fantasia del popolo, e non del popolo soltanto ma anche della gente colta; tanto che un discendente di Pico della Mirandola, in una sua lettera in cui rende conto della morte del pittore d'Urbino, osa affrontare francamente il terribile paragone, e dice: - sì, il mondo si è [304] scosso e le pietre si sono spezzate per la morte del pittore d'Urbino come si spezzarono per la morte del Nostro Signore. Lapides scissi sunt. - Da tutte le parti si levò un lamento. Il popolo di Roma e i grandi della Corte traevano in folla alla stanza di Raffaello; e veggendo la sua ultima opera collocata su quel giovane capo morto, molti scoppiavano in pianto. Lettere di ambasciatori e di privati, partite da Roma in quei giorni, non tralasciano di lamentare la scomparsa del gentile pittore. Baldassare Castiglione, scrivendo a sua madre, dice: - Roma non mi par Roma; vi manca il mio poveretto Raffaello! -

Di lì a pochi giorni tutti i poeti d'Italia, da Lodovico Ariosto al Molza, intuonavano elegie di dolore per la scomparsa del grande artista.

Di quest'uomo meraviglioso, io debbo parlarvi, o signore; e ve ne parlerò come lo consentono i brevi termini d'una conferenza, cioè molto sommariamente; e Dio voglia non troppo indegnamente!

Il Vasari, che molto ammirava Raffaello, ma che molto non lo amava, ha messo una trascuratezza speciale nel narrare dei primi anni del pittore d'Urbino. Dice che studiò sotto il padre, Giovanni Santi, e che poi fanciulletto fu mandato alla scuola del Perugino in Perugia. La verità è che egli nella scuola del Perugino non entrò se non giovanetto già adulto. Le prime ispirazioni, i primi rudimenti dell'arte egli li ebbe invece in patria e dal padre, il quale era un pittore ondeggiante fra il buono e il mediocre.

Questo Giovanni Santi possedeva una singolare cultura in ordine all'arte del proprio tempo. Amando moltissimo gli artisti, egli si informava con grande premura delle cose loro e sovr'esse esprimeva giudizî non sempre trascurabili. Come documento di questa speciale cultura [305] artistica del buon Giovanni, è rimasta una cronaca rozzamente da lui composta in terza rima ove sono celebrati quasi tutti i pittori contemporanei venuti in qualche fama. Per cui il giovine Raffaello cominciò molto di buona ora ad avere un concetto assai largo e vario dell'arte; e a gittare gli sguardi oltre i confini della piccola Urbino. Egli fino da giovinetto sentiva nominare in famiglia, fra gli altri, Paolo Uccello, Pier della Francesca, il Perugino, Melozzo da Forlì, Baldassarre Peruzzi, Leonardo da Vinci, Andrea Mantegna. Sopratutto del Mantegna, il padre di Raffaello mostravasi caldo ammiratore. Negli ultimi anni della sua vita questo mediocre pittore ebbe un insperato trionfo, essendo stato per intromissione dei duchi suoi padroni, invitato a Mantova a fare il ritratto di un cardinale Gonzaga. Là conobbe il Mantegna ed ebbe campo di ammirarlo in tutta la sua potenza, per cui non rifiniva di magnificarlo; ed è probabile che agli orecchi del figlio, ancora fanciullo, pervenissero, distinti su quelli degli altri pittori, gli elogi del grande discepolo dello Squarcione. Così il latte dell'arte veniva per tempo succhiato da Raffaello; e il senso della pittura derivatogli “per li rami„ dal padre, era prontamente accresciuto e nobilitato da quei primi ricordi domestici.

Ma scarso, interrotto e quindi di piccola efficacia, dovè essere l'insegnamento del padre, in quell'epoca troppo occupato in faccende e viaggi. Il vanto d'essere stato primo e vero maestro di Raffaello spetta invece (come ha dimostrato con validi argomenti il Morelli) all'urbinate Timoteo della Vite, allievo caro e insigne (lo dico con paesana compiacenza) di Francesco Francia bolognese. La maniera di Timoteo si manifesta innegabilmente ne' primi disegni e nelle prime teste del figliuolo di Giovanni. Solo più tardi, nel Sogno del Cavaliere e nella Incoronazione della Vergine comincia veramente [306] ad esprimersi il magistero del suo secondo maestro, Pietro Perugino.

Ma per vedere un quadro che indubbiamente affermi la potenza personale di Raffaello bisogna che noi veniamo fino al 1503. Egli lo dipinse per la chiesa di San Francesco in Città di Castello e rappresenta lo Sposalizio della Vergine. Non è chi non conosca, almeno per delle stampe, questo quadro famoso, che è uno dei migliori ornamenti della Pinacoteca di Brera a Milano, ove oggi sorride nella sua grazia ingenua e nella vivezza de' suoi colori, come se fosse uscito da poco dalla mano del giovane artista.

Questo quadro è grandemente significativo per intendere Raffaello. In caso si afferma una singolarità tutta propria del suo ingegno e contiene, come in potenza, tutto lo svolgimento e le fasi dell'arte sua. Esaminando il quadro di Raffaello in una stampa e confrontandolo ad una stampa del quadro consimile che il maestro avea dipinto, a prima giunta, credete d'avere dinanzi agli occhi lo stesso quadro del Perugino, tanto la imitazione della composizione è accurata, quasi servile. Ebbene, qui l'ingegno di Raffaello manifesta quella che potremmo chiamare la sua fatalità geniale. Egli è destinato, durante tutta la sua carriera artistica, a pervenire all'eccellenza movendo sempre sulle orme di qualcheduno; salvochè egli poi trova sempre modo di svelare le qualità individuali del suo ingegno per modo, che noi siamo costretti a dire: - Questo è Raffaello! Solamente Raffaello potrebbe fare così! - Dove altri annegherebbe nel plagio, egli si salva, si innalza e trionfa.

Raffaello era anzitutto uno spirito agilissimo, un'anima ascoltante, aperta a tutte le voci che sonavano nel campo dell'arte da presso e da lontano. Questo mi dà argomento anche a ricordare due sentenze di Michelangelo intorno a Raffaello. Una volta, da vecchio e sempre [307] memore di certi dissidii fomentati da tristi, egli affermò che tutto quello che Raffaello da Urbino sapeva dell'arte, lo doveva a lui, Michelangelo; e questa affermazione, o signore, è falsa. Un'altra volta, discorrendo con Giorgio Vasari, disse che Raffaello l'eccellenza dell'arte sua non la doveva alla natura, bensì allo studio; e questo io credo che contenga una sembianza di verità, la quale va subito chiarita e precisata, per non aprire l'adito ad un grossolano errore.

Che Raffaello non avesse sortito da natura una eminente indole di artista, mi pare impossibile il pensare. Non si dipinge la Disputa del Sacramento nè la Madonna di San Sisto; non si ritrae dal vivo Leone X e Baldassare Castiglione, come li ha ritratti Raffaello, se la natura non vi ha arricchito di doti pittoriche straordinarie. Ma nel detto di Michelangelo, ripeto, vi ha una parte di vero, inquantochè lo spirito artistico del pittore di Urbino ebbe sempre a giovarsi di eccitamenti esteriori per suscitare, e rendere operose le facoltà geniali dell'artista, che stavano come aspettando nella parte più eletta dell'anima sua. Questo si avvera in tutte le fasi, e si riscontra in tutti gli aspetti della vita artistica di Raffaello.

Che cosa abbisognava a lui per prendere il campo nel regno dell'arte, per diventare quello che egli riuscì infatti, vale a dire un trionfatore e un dominatore? L'angusta cerchia della vita artistica di Perugia; il magistero del Vannucchi e del Pinturicchio, non sarebbero bastati. Rimasto in questa cerchia, Raffaello sarebbe indubbiamente riuscito il più squisito, il più delicato, il più immaginoso dei pittori umbri. Egli avrebbe, in altri termini, portato al suo grande apogeo, quella forma di bellezza così casta insieme e così viva, che partendo da Nicolò Alunno e da Gentile da Fabriano aveva già toccato invidiabili altezze. Parecchi professori d'estetica oggi [308] non dubitano di esclamare: così pur fosse accaduto! Ma che giova fantasticare davanti alla storia?... Bisognava a Raffaello di slargare il suo spirito nella vita e nella cultura italiana; bisognava che egli sentisse tutto quello che vi era di vivo, di eletto, di irrequieto e di cercatore nella sua epoca; e che si stabilisse una specie di suggestivo contatto fra l'anima sua e l'anima del suo secolo. E in ciò gli sovvenne favorevolissima la fortuna; perchè nel 1503, volgendo la stagione di autunno, ebbe occasione di restituirsi nella sua Urbino, dove regnava, benedetto e circondato di tutta l'affezione del popolo, Guidobaldo da Montefeltro, il quale, seguendo l'esempio del suo predecessero, il duca Federico, insieme alla sua graziosa e coltissima donna, Elisabetta Gonzaga di Mantova, aveva costituito una piccola corte, dove erano in fiore tutte le delicate e leggiadre discipline di quell'epoca. Raffaello, giovinetto modesto, avvenente, simpatico, fu accolto con ogni maniera di carezze, come un fanciullo portentoso, in mezzo a quegli spiriti eleganti, a quelle gentildonne piene di grazia e soavità. In questo ambiente così colto e così tutto pieno di modernità per i tempi suoi, Raffaello da Urbino sentì come slargarsi e moltiplicarsi le facoltà del suo spirito. In mezzo alla corte d'Urbino egli pervenne ad una estatica comunicazione coll'umanesimo dei suoi tempi, ascoltando i discorsi di Ottaviano Fregoso, di Bernardo da Bibbiena, non ancora cardinale, di Pietro Bembo e sopratutto di Baldassare Castiglione, un uomo che aveva tutti gli abiti intellettuali e tutte le eleganze e tutte anche le maschie virtù del suo tempo; che seppe cogliere e illustrare in una nobilissima idealità il tipo del gentiluomo del Cinquecento, con un libro che è uno dei più rappresentativi che si possono leggere, quando, ben inteso, leggendolo, si abbia occhio allo spirito dell'epoca.

In quell'ambiente eletto e fortunato, il giovine Raffaello [309] potè agevolmente arricchire e affinare la propria cultura d'artista. Egli non era il pittore isolato sopra un ponte a condurre qualche rigido affresco ascetico, ma l'artista mondano, l'artista del suo tempo, la cui anima poteva liberamente estendersi e rispecchiare le più elevate e complesse idealità della propria epoca. Mentre egli sarà rimasto incantato dalle eleganze di Emilia Pia e di donna Elisabetta, le quali dimostrarono in diverse circostanze d'avere per lui una signorile e schietta affezione, avrà certamente aperta tutta l'anima sua ai discorsi di Baldassare, che insisteva sempre (il libro del Cortegiano ne fa fede) in quella sua gran massima che la Grazia deve dominare il mondo.

E qui notate che per “Grazia„ il Castiglione non intendeva già quella piccola virtù, facilmente futile e smorfiosa, che ha poi dominato negli usi delle corti e del così detto mondo elegante. Con quella parola egli voleva invece esprimere una specie di signorile disinvoltura, destinata ad accompagnare e ornare tutte le azioni di un uomo dabbene, dalle più indifferenti alle più gravi. Non è uomo valente, non è uomo gentile, non è uomo di corte, chi non possegga la “Grazia„ in tutte le manifestazioni dell'esser suo; negli uffici pubblici e nella vita privata, nelle imprese guerresche, e nella disciplina della pace.

Ora se noi pensiamo, o signore, al carattere dominante nell'arte di Raffaello, che fu appunto una specie di grazia dignitosa, atteggiata nelle forme più magnifiche e nelle espressioni più ideali, ci persuaderemo volentieri che bisogna unire i precetti di Baldassare Castiglione a quelli di Timoteo della Vite, di Perugino e di Pinturicchio per renderci pieno conto della educazione del giovane artista.

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