II.

Chi di voi ebbe la bontà di ascoltarmi quando, in questa stessa sala, narrai la vita di Leonardo da Vinci, ricorderà anche che io notava tristamente come tutti i periodi della vita artistica del grande toscano si chiusero con un dolore e con una sconfitta. La vita invece del nostro pittore ci presenta tutto l'opposto. Raffaello procedè di successo in successo, di trionfo in trionfo. Tutti i sorrisi della fortuna furono per lui.

Lo vedo bene, o signore, questo potrebbe destare in voi un senso di scarsa benevolenza, forse di antipatia. Ma pensate che Raffaello non fece mai nulla per demeritare il benefizio della fortuna; anzi, per quanto fu da lui, cercò sempre di mostrarsene degno.

Così allargato il suo intelletto, così ingentilito l'animo nella convivenza di tutti quegli eletti spiriti della corte d'Urbino, Raffaello si trova davanti al secondo periodo della sua vita. Il giovane pittore lascia la piccola città d'Urbino e viene a Firenze. Un orizzonte ben più vasto si schiude innanzi a lui. Nel 1504 egli arriva, o signore, nella vostra città, avendo appena 22 anni; e trova questo gran focolare dell'arte in uno dei suoi momenti più fortunati. Michelangelo ha 30 anni; Leonardo ne ha 50; Fra Bartolomeo della Porta ne ha 35; Andrea del Sarto, giovinetto, comincia a fare le sue prime prove; Sandro Botticelli, ricordo glorioso del Quattrocento, volge al termine della sua vita. Raffaello d'Urbino, guidato dalla sua favorevole stella, trova in Firenze le accoglienze più gentili. Nella bottega di Baccio d'Agnolo ove si raccoglievano a veglia e a dispute feconde, e spesso anche concitate e irose, tutti i più grandi artisti della Firenze d'allora, egli è carezzato, ricercato, portato in palma di mano.

[311]

La sua giovinezza non dà ombra ad alcuno; tutti vogliono bene a questo giovane umbro che, venuto giù dalle sue montagne, si mostra tutto studio e tutta curiosità per arricchire il patrimonio delle sue cognizioni artistiche. Si offre a tutti graziosamente per discepolo e tutti volentieri gli fanno da maestro. E qui trova veramente modo di esplicarsi nel più largo senso quella peculiare qualità che ho notato più sopra nello spirito artistico di Raffaello. Egli è aperto a tutte le impressioni, egli ascolta tutte le voci. Lo si direbbe nato per imitare sempre, deliberato a imitare tutti; invece egli si accinge ad assimilare, a fondere, a trasformare tutto nella propria individualità in modo così portentoso, che ben presto si pone sopra i mediocri e sta alla pari con i grandissimi. Infatti eccolo che subito si interessa delle vecchie pitture fiorentine e va a copiare al Carmine il Masaccio, il Filippo Lippi, il Masolino da Panicale; poi gira avidamente l'occhio intorno a sè; e dovunque trova una buona fisonomia d'artista, gli si mette ai panni e, senza farsi scorgere, trova modo di rapire a lui il suo segreto. Vede la Gioconda di Leonardo da Vinci e dipinge la Maddalena Doni; vede le Sante Famiglie di Fra Bartolomeo della Porta e dipinge la Madonna del Granduca e la Madonna del Baldacchino. Richiamato per breve tempo nell'Umbria, va al chiostro di San Severo e là nella parete di un grande affresco dimostra quanto vivi fossero in lui i ricordi dei maestri fiorentini e specialmente del Frate di San Marco; ricordi che non cesseranno mai più d'accompagnarlo e di manifestarsi nelle sue opere.

Molti lavori raffaelleschi di questa epoca potrei citarvi, ma quello che rivela di più il singolarissimo istinto eclettico di Raffaello è la Deposizione della croce, che per tanto tempo ha ornato la galleria Borghese in Roma. Lo studio di questo quadro e sopratutto un esame attento dei disegni e schizzi, con cui laboriosamente il pittore [312] lo preparò (si trovano nelle collezioni di Oxford, del Louvre, della Galleria Pitti), dimostrano quante impressioni d'arte occupavano in quell'epoca l'animo di Raffaello e se ne contendevano, in qualche guisa, il dominio. Sulle prime egli mette giù dei segni coi quali par che voglia rifare il processo dello Sposalizio, riproducendo e assimilando il componimento della Deposizione del suo maestro il Perugino, che ora si conserva agli Uffizi. Ma poi si pente, non parendogli forse prudente questo bis in idem. Cominciano in vario senso le ricerche e le prove. Il Mantegna, il Ghirlandaio, Fra Bartolomeo, lo stesso Michelangelo della Madonna della Tribuna concorrono a formare questa Deposizione raffaellesca, che nelle arie dei volti, negli atteggiamenti delle figure, persino nel girar delle pieghe si richiama a questo e a quello. Eppure chi, appena visto nel suo insieme il quadro, non vede, non sente l'anima di Raffaello? Le sparse modulazioni si fondono nella dolce e grandiosa sinfonia; e non si pensa più che a lui. Però l'opera di Raffaello in Firenze, comechè coronata di successi continui, non ha nulla di clamoroso, nulla di trionfale. Quando Pietro Soderini, gonfaloniere a vita della repubblica, vuole far eseguire certi affreschi, si parla un po' di Raffaello. Questi mette anche in mezzo la protezione della Corte d'Urbino; ma è inutile; il buon momento passa e di Raffaello non si parla più. Forse gli nocque la sua giovinezza inesperta e l'essere egli nè fiorentino nè toscano.

Il gran teatro della gloria di Raffaello non poteva essere Firenze; sarà Roma. Ma di quanto non è egli debitore a Firenze! Qui egli ha tesoreggiato nei più fioriti campi dell'arte; qui ha fatto le ali al grandissimo volo; qui il suo spirito fu visitato da visioni di paradiso. A Roma potrà averne di più grandiose, non di più fresche, di più pure, di più soavi....

[313]

Giorgio Vasari, nella vita di Sebastiano del Piombo, dice che al tempo di Leone X Roma era diventata la “patria comune„ di tutti i pittori d'Italia. È una frase superba ma inesatta, anzi ingiusta. Il movimento di attrazione di Roma verso tutte le parti d'Italia, nel senso dell'arte, era cominciato da un pezzo; si era molto accresciuto sotto Alessandro VI e aveva raggiunto il suo apice luminoso, regnando quella fiera e forte tempra di papa, che fu Giulio II, il quale non contento degli allori della guerra volle circondare il proprio pontificato con tutti gli splendori dell'arte, sottomettendo al suo spirito grandioso e violento i più alti e liberi spiriti del suo tempo. Egli fu il vero mecenate di Michelangelo; egli il vero iniziatore in Roma della grandezza di Raffaello d'Urbino. Infatti quando Raffaello d'Urbino va a Roma, Giulio II ha già commesso a Michelangelo il proprio sepolcro; specie di delirio faraonico, alla esecuzione del quale la basilica di San Pietro non offre ampiezza sufficiente! Già le pareti della Sistina si aprivano dinanzi all'ingegno dantesco del grande fiorentino, il quale indarno si schermiva che la pittura “non era arte sua„. Papa Giulio volle che Michelangelo fosse pittore e a Michelangelo toccò di sottomettersi. Buono per noi, buono per la civiltà, chè da quella sottomissione uscì la pagina forse più meravigliosa dell'arte moderna!

Raffaello venne chiamato a Roma dal Papa, forse per suggerimento di un suo grande e potentissimo concittadino, il Bramante, che godeva tutto il favore di Giulio come architetto di San Pietro, che non amava Michelangelo e che forse nell'agile e moltiforme abilità di questo giovinetto vedeva un utile strumento per la sua lotta col temuto artista di Firenze.

Fatto è che un bel giorno papa Giulio II dice a questo giovine venticinquenne: “Dipingimi la vôlta di questa [314] stanza„; e Raffaello vi dipinge in quattro tondi la Teologia, la Poesia, la Giurisprudenza e l'Astronomia. Appena il Papa vede queste quattro figure che, non ostante le pareti fossero già in parte coperte da pittura insigni (e basterà ricordare i nomi del Suardi, del Perugino, del Peruzzi, del Sodoma), egli dice a Raffaello: “Leva via tutto e coprimi tu col tuo pennello questi muri!„ E Raffaello ossequente e sollecito si mette a dipingere e completa la Stanza della Segnatura!... Questa Stanza ha un'importanza davvero straordinaria. Non è solo la pagina più insigne nella vita del grande artista; è il cominciamento di tutta un'epoca nella storia dell'arte, è l'inizio di un movimento che dovrà riempire grande spazio della nostra storia artistica in questi ultimi tre secoli.

Vero fondatore della scuola romana, voi dunque capite che io pongo Raffaello; e lo direi anzi unico fondatore. Si suol citare Michelangelo ma a torto, io credo. Michelangelo era troppo colossalmente individuale per formare scuola nel senso che si usa e si deve dare a questo vocabolo. Michelangelo è un genio incomunicabile, oltre che per la sua stessa elevatezza trascendente, per quel che di scontroso e di geloso che è nel suo genio. Ma voi direte: come va dunque che abbiamo il michelangiolismo? Ebbene, io vi dico che il michelangiolesimo non è che una invasione che viene sì da Michelangelo, ma per l'intervento di Raffaello. Non potevano dei pittori mediocri avere la forza di appropriarsi in modo diretto, e quindi volgarizzare la maniera del terribile fiorentino. Questa sua maniera era come la clava d'Ercole, che nessuno poteva stringere e maneggiare. Bisognò che un altro genio, degno di stargli a fronte, si cimentasse con lui e si piegasse al suo metodo: bisognò che Raffaello dopo essere stato peruginesco, dopo essere stato vinciano, dopo essere stato imitatore di tanti altri, si atteggiasse per un momento anche ad imitatore di Michelangelo. [315] Solamente egli, con quel suo privilegio singolarissimo di selezione, seppe prendere ciò che in Michelangelo vi era di comunicabile. Infatti, soltanto dopo l'Isaia, dopo le Sibille della Cappella Chigi, dopo le figure dell'Incendio di Borgo, allora soltanto il michelangiolesimo divenne cosa possibile; e fu anzi troppo facile a tutti il mettersi dietro a quella insegna perigliosa!

Io credo adunque di avere affermato cosa prettamente conforme alla verità storica, dicendovi che il vero, l'unico fondatore della scuola romana fu Raffaello d'Urbino.

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