I.

Carneade, chi era costui? Ecco la domanda, gentili signore, egregi signori, che vi sarete fatta di certo, vedendo annunziato il mio nome nuovo ed oscuro fra tanti nomi chiari ed ammirati. Eppure, solo per un'ora, povero Carneade solitario, vorrei l'arte di resuscitare le cose morte, eppoi ripiombare nell'umile, faticosa operosità della scuola, dalla quale forse avrei fatto meglio a non uscir mai! Vorrei almeno quella che il Bourget chiama fantasia della storia, per evocare vivi e parlanti i grandi quadri della guerra, irradiati dalla luce dell'eroismo e del sacrificio, e i quadri del Beccafumi e del Sodoma sfolgoranti di quella del genio (due luci che non hanno tramonto); far rivivere qui, dinanzi a Voi, la eroica fanciulla, la quale col corsaletto e l'alabarda va a montar la guardia pel fratello impedito; farvi sentire il fremito dell'assalto; il rombo delle artiglierie; i rintocchi della Campana del Mangia, voce di quella Siena, di quella madre che adunava i figli a difenderla nel supremo cimento, e che fino all'ultimo gettava un arcano terrore nell'animo dei nemici; ma, ahimè! temo mi avvenga come all'insolente animale, che per imitare [147] e compiere gli affreschi di un insigne pittore, salito burbanzoso sul palco, ed afferrati colori e pennelli, guastava e disfaceva tutto spietatamente. Oh se il volere fosse sempre potere! Non mi resta dunque che affidarmi alla vostra cortesia, mentre vi trasporto senz'altro nella vecchia Siena, colle sue torri agili e brune, l'una presso l'altra, come guerrieri chiusi nelle armi, e pronti a battaglia.

Ecco Fontebranda colla porta in fondo ad una valle chiusa e pittoresca, e l'erto poggio sul quale torreggia San Domenico, non sai bene se convento o fortezza, coi ricordi della Santa, della quale “la mirabil vita, meglio in gloria del ciel si canterebbe„, e de' sudici bisogni spagnuoli, pieni di cupidigia e di peccati, che al cenno di un triste figuro recano lassù le armi rapite ai cittadini traditi ed oppressi. In quei memori luoghi un'alba estiva del 1487 (per carità non vi spaventate se prendo le mosse un po' troppo dall'alto) scalava le mura Pandolfo Petrucci, introducendo segretamente i suoi partigiani, mentre la città era ancora immersa nel sonno. Indi correvano alla piazza del Campo, che ha viste tante stragi, tante feste e tanti pali, e Siena, destandosi ad un'altra delle tante sue rivoluzioni, acclamava Pandolfo a signore. Apparteneva a nobile, ma povera e numerosa famiglia della fazione de' Nove; aveva sofferti i dolori dell'esilio; ma ora diveniva ricchissimo, e gustava la vendetta, il piacere degli Dei.

La sua effigie è quella dei tiranni del risorgimento; ampia la fronte; oscure, ma non arcigne la ciglia; sguardo fisso e calmo che mentre non esprime nulla, par tutto discernere, labbra voluttuose, eppure compresse con risolutezza più che virile. Quanto all'intelletto il Machiavelli lo stimò prudentissimo, ponendolo in quella classe di cervelli che intendono ciò che altri dimostra. Ora volpe ed ora leone, stimava le cose obbedire alla [148] forza, e Antonio da Venafro, dal segretario fiorentino proclamato “il caffo degli uomini„, era “il cuor suo„, o piuttosto il suo Mefistofele. Ebbe infatti del mefistofelico, ed un giorno al papa che gli chiedeva come facesse a tenere a segno i cervelli bizzarri de' Senesi, rispose franco: “colle bugie, Padre Santo.„ Il Petrucci, arbitro di una Balìa e capo degli stipendiari, soleva convenire in una bottega di piazza insieme con quelli della sua fazione, che poi lo accompagnavano, camminando dietro a lui, a rispettosa distanza. Formavano una specie di società segreta, giurando di esporre l'un per l'altro la vita e la roba, ed il suo governo fu il frutto delle improntitudini democratiche, e della politica de' Nove, dei quali Pandolfo fu il più ambizioso, il più astuto ed il più fortunato. Era in fondo un piccolo Borgia, colle attenuanti dell'ambiente e dell'indole toscana e senese; e se il Pecci lo ammirò per aver saputo (cosa invero mirabile) tener quieti i concittadini, il Tizio contemporaneo scrisse “ch'ei turbava le cose umane e divine, e lo chiamò tiranno colle mani tinte di sangue fraterno„. È vero ch'egli amò e protesse gli studi e le arti belle, e ne fa fede il suo palazzo colle campanelle ed i bracciali del Cozzarelli, un de' sorrisi più cari dell'arte senese, ma nessuno vorrà assolverlo della uccisione di Nicolò Borghesi suo suocero, e perdonargli le immani crudeltà di persone precipitate ne' trabocchetti o sepolte vive nelle razzaie od ossari, e fra gli altri il caso di un infelice spinto a tradimento nel carnaio dell'ospedale, dove se ne udirono per alcuni giorni i lamenti sempre più fiochi, che poi si spensero. Godè il favore della Francia che lo preservò dall'estrema ruina, quando il Valentino, che ambiva Siena, obbligò i Senesi ad allontanarlo; avaro, prestò ad usura al Comune, e ne ottenne terre e castella; invecchiando si tuffò nei più grossolani piaceri, e la figlia di un fabbro, la bella Caterina [149] di Salicotto, tenne ambo le chiavi del suo gelido cuore. Il popolo soleva chiamarla “spada a due mani„, e di lei si cantava: “questa spada, o giovani, cautamente stringete; per questa vivono gli uomini, per questa periscono.„

Pandolfo non riuscì a fondare la dinastia; i suoi figli ed i parenti con molti de' suoi difetti non ebbero alcuno de' suoi pregi. Si succedono, s'incalzano l'un l'altro a breve intervallo, come percossi da un'arcana maledizione.

“La man degli avi seminò l'ingiustizia,

I figli l'hanno coltivata col sangue,

E omai la terra altra messe non dà.„

Il cardinale Alfonso fu strangolato in Castel Sant'Angelo da un moro, per ordine di Leone X; Borghese era un giovinastro dissoluto, e fu cacciato dal cugino Raffaello, cui il sentimento popolare inflisse una terribile condanna. Quando il suo cadavere era portato a seppellire in San Domenico facea “uno stranissimo tempo„, talchè parea che “fusse aperta la bocca dell'Inferno„; ma più terribile era la furia de' ragazzi che urlavano che si buttasse alla Vetrice, e cioè al luogo delle carogne. “I frati tutti si fuggiro„ (scrisse un cronista), e dovè accorrere il bargello, rimanendo sola la bara in mezzo ai birri. Mentre il giovinetto Fabio sognava il dolce sogno di amore colla bionda e delicata Massaini, si ordiva una congiura, alla quale aderiva il di lei fratello, ed al grido di libertà era per sempre cacciata la rea e sventurata famiglia, mentre alcuno proponeva per ispengerne affatto la memoria d'incrudelire perfino contro i sepolcri. “Prima morir che libertà vi manchi„, scriveva allora un oscuro poeta, mentre Mario Bandini, che ha tratti che ricordano il Mirabeau e gli eroi della Gironda, facea giurare duecento compagni di essere in perpetuo nemici di chiunque [150] avesse tentato di rinnuovare la tirannide. I Petrucci più non risorsero, ma i Nove scamparono al naufragio, e riuscirono ad imporre un de' loro, Alessandro Bichi, e forse il migliore di tutti loro. Effimero trionfo! Il Bichi cadde crivellato dai pugnali degli emuli che insistentemente, quasi voluttuosamente, lacerarono le aperte sue piaghe, spirando infine, sia detto a sua gloria, col perdono sulle labbra, come aveva incominciato. Un rimpasto de' Monti a vantaggio de' Popolari coronava il nuovo, fragile edificio.

Share on Twitter Share on Facebook