Ho pronunziata la gran parola, ch'è il filo di Arianna nel fosco labirinto delle senesi discordie. I Monti sono i vari ceti, ordini e gruppi della cittadinanza, che, prevalendo una data forma di governo, avevano ottenuti o perduti via via i supremi magistrati o vi aspiravano, dai nobili ai più poveri popolari della costa di Porta Ovile. Ogni ceto formò setta, ed anzi più sette, che si dividono e suddividono all'indefinito, tentando le più svariate combinazioni, e scomponendosi e ricomponendosi senza tregua fra disaccordi sempre più gravi e molteplici. La serie delle contese, dei tumulti, delle riforme dei Monti dei Gentiluomini, dei Nove o borghesia grassa, dei Dodici, dei Riformatori e del Popolo sono come un mare sempre in burrasca, un turbine che dà il capogiro, l'insegna di Dante “che girando correva tanto ratta, che d'ogni posa mi pareva indegna„; con buona pace della gravità istorica, sono come un immenso arcolaio che gira e rigira sempre con una matassa viepiù arruffata tanto da provocare il sorriso, se non lasciasse dietro [151] a sè una traccia sempre più larga e più lunga di sangue. Alcune volte fu proposto di formare un Monte solo; ma parve un attentato alla vita della repubblica, della quale i Monti erano le membra, gli organi più vitali. Ciascuno di essi formava anzi una piccola repubblica, ma sempre ostinata, indomabile, o democratica, o aristocratica, o moderata, o radicale, talchè Siena era un aggregato, o, come scrisse il Varchi, un guazzabuglio di repubbliche. Immaginate quale dovea essere l'affetto e l'orgoglio che nutriva pel suo Monte il senese del buon tempo antico, vedendo come anche oggi la tradizione delle contrade resti viva e indistruttibile in quel popolo, e come si manifesti in occasione del palio, ne' baci al cavallo vincitore che n'è il simbolo e la gloria; l'immagini chi ha veduto, come me, un buon prete in mezzo alla piazza saltare di giubilo, e gittare in aria il tricorno, quando l'anima popolare di Siena si effonde in un immenso fremito misto d'imprecazioni e di evviva che sale assai più in alto dell'agile torre, e disturba le rondini dai rapidi voli. Si effonde su dalla piazza ove curvi sui ronzini trasformati ad un tratto, e per quell'unica circostanza, in ardenti corsieri, volano i fantini nerbandosi di santa ragione, nerbandosi e cadendo, prima uno eppoi due, tre; mentre gli altri, come se nulla fosse, continuano la corsa sfrenata, e il pubblico li segue, intento alle bestie, con un palpito sempre più accelerato, dimentico dei caduti, finchè un urlo, un applauso, un colpo di mortaletto, e tutto è finito; cioè, no, poichè anzi incomincia la scena più originale; i deliri della contrada vincitrice, i commenti fragorosi, i pugni entusiasti; ne buscano i vinti, ed anche un po' i vincitori, sopratutti l'eroe della giornata, il fantino trionfatore, malmenato da baci e carezze peggiori de' pugni, pel troppo bene. Talora un Monte ne figliava un altro; la sola democrazia senese, una delle più audaci, offre una serie, una [152] moltitudine di gradazioni e di associazioni, dai comodi bottegai ai discendenti dei facchini della compagnia del Bruco, che vollero dipinto come stemma il leone sulle nere casipole; dai Bigi ai Biribatti ed ai Bardotti. Non vi fu accozzaglia di persone che non si trasformasse subito in congrega, in fazione, o almeno in accademia. Di accademie nel secolo XVI su quarantadue che fiorivano in Toscana, ventitrè appartennero a Siena, i Rossi, gl'Intronati, la Corte de' Ferraioli, gli Sborrati, e chi più ne ha più ne metta. E con tante congreghe mai un po' di vera concordia: il che starebbe a dimostrare ch'essa è in ragione inversa del numero delle associazioni, dei comitati, dei fasci più o meno sfasciati; ma per tali dimostrazioni, c'è proprio bisogno di ricorrere alla vecchia Siena? Comunque, quivi bastava un ammasso di terra preparata per un torneo, il cader delle vetrate abbattute dal vento per far saltar fuori gli armati a combattere, e i ragazzi alla pari degli adulti, e con loro le donne, giovani, vecchie e bambine; e non erano pugni e legnate; ma colpi di punta e di taglio, e un lampeggiare terribile di stocchi, di alabarde, di partigiane, di scuri e di pugnali; urli come di fiere, e rantoli di agonizzanti.
Eppure nessun altro Comune ha dipinti nel suo palagio tanti esempi ed allegorie veramente grandiose del buon governo! Nella sala de la Pace (v'era una sala di questo nome, come di tanto in tanto fra una rivoluzione e l'altra si celebrava la messa della pace), avete un poema didascalico sul reggimento politico creato dal Lorenzetti, a tratti di pennello; un bel vecchio maestoso, ch'è appunto il buon governo; le virtù; una gran bilancia, e i cittadini a due a due che reggono un lungo cordone, ch'è quello della concordia, tutti umili e quieti “come i frati minor vanno per via„. In altra sala splendono le immagini dei Savi antichi, Camillo, Curio Dentato, Scipione, Aristotele, Cicerone. Ironiche pitture! Affidati [153] alle mute pareti quei bei propositi, il contrario i Senesi scolpivano nei cuori. Esaltavano la pace, e praticavano la guerra!
Nel secolo XVI, scossa da convulsioni sempre più frequenti ed implacabili, andava Siena incontro alla morte, eppure allora forse più che in altro tempo gl'ingegni e le arti belle vi sorridevano, come i fiori in un bel giardino di primavera. Il Pinturicchio, quell'infelice mingherlino, dall'ingegno sovrano, che solea chiamare la pittura “arte peregrina e da concorrere colla poetica„, faceva esultare di vita immortale le pareti della libreria Piccolomini nel Duomo, co' dipinti ne' quali palpita tutta la giovinezza del rinascimento, e che sono l'apoteosi dell'eleganza e del colorito. Un'onda perenne di armonia virgiliana, un'onda di sole rende perpetuamente giovani quelle figure, quell'oro, quell'azzurro, quel verde, le arie di quelle teste, gli alberi, gli orizzonti fuggevoli, paesi e città, i corteggi sfolgoranti, l'imperatore che muove incontro alla giovine sposa. Domenico Beccafumi, coi lavori di commesso, rendeva il pavimento della cattedrale degno degli angioli, tanto che il nostro piede si perita quasi di sfiorarlo. Antonio Bazzi, il Sodoma, fermava sulla tela, nello svenimento di Santa Caterina, una visione di Paradiso, che, veduta una volta, rimane in fondo al cuore, quasi melodia che “intendere non può chi non la prova„, un'eco di quei concenti che i Santi della leggenda udivano nell'eremo selvaggio, sulle cime de' monti, fra i silenzi dell'alta notte scintillante di stelle; trasformava il solitario convento di Montoliveto in una reggia dell'arte. Il Peruzzi, che nell'arguta geniale fisionomia offre, come nelle opere, l'armonia stupenda del galantuomo col valentuomo, co' suoi edifici “non murati ma veramente nati„, colle sue prospettive leggiadre, e i fregi delle facciate, e le figure che paiono luce di sorriso su di un volto onesto e gentile, cooperava a trasformare [154] la sua città in un solo monumento, ove il bello rifulge nell'altero palagio e nella casa dell'artigiano, negli stalli di un coro e negli angoli oscuri di un trivio; in una finestra solinga occulta sotto un'umida grondaia, in un fondo oscuro di bottega, sulle bare delle confraternite, sui registri e tra le cifre de' buoni trisavoli della burocrazia e della finanza, e infine nella grazia colla quale le contadine si acconciano il cappellone di paglia. Come la città, tal'è la campagna ove quelle pittoresche figure s'incontrano, e che ricorda i paesaggi della scuola umbra, e del Sodoma; le descrizioni del Poliziano e dello Ariosto; quella poesia della natura che il Risorgimento ne trasmise così fresca e salubre, e che i moderni colorirono di così intima e soave mestizia. Agostino Chigi, il gran mercante, era intanto un gran mecenate, degno di Roma e di Raffaello, che ornava per lui la Farnesina delle immortali bellezze di Galatea, dinanzi alla quale ogni fervido cuore, come Pigmalione alla statua, grida spontaneo: vivi, palpita ed ama.