Sulle condizioni della Economia Politica nel Cinquecento E LA SCOPERTA D'AMERICA

DI

ARTURO JÈHAN DE JOHANNIS.

Signore e Signori,

Un moderno scrittore, esprimendo del resto una convinzione che è molto diffusa, ha detto che la economia politica non è altro che letteratura noiosa; temo che oggi per mia colpa avrete una nuova conferma di quel giudizio. Concedetemi però di sperare che non lascierete venir meno la vostra pazienza.

Il secolo XVI è, specialmente da alcuni economisti, considerato per l'Italia come un periodo di decadenza; ed in tal giudizio, forse eccessivamente sintetico, si può concordare, quando lo si restringa dicendo: che in esso cominciano i sintomi di una decadenza. E veramente non si può ammettere che quello stato di prosperità economica e di splendore dell'arte, nella letteratura, negli studi, frutto di un lavoro intenso di quattro secoli, abbia potuto deperire in una diecina d'anni, nè per il solo fatto delle dominazioni straniere, che nel XVI secolo si allargarono in Italia, nè per le lente modificazioni che subì il commercio.

Genova, Ferrara, Urbino, Firenze, Venezia, Mantova, Roma, fra le altre molte città avevano raggiunto un grado così alto di agiatezza, che dovevano necessariamente [114] resistere a lungo contro le cause esterne che si sono rivolte a loro danno. La affermazione pertanto che le scoperte marittime dei Portoghesi, degli Spagnuoli e degli Olandesi avessero senz'altro mutata repentinamente la condizione economica della penisola, va confinata tra le leggende che hanno soltanto l'ombra della verità; come pure va rigettato l'altro concetto che la dominazione spagnuola, per la importazione di costumi, di abitudini e di tendenze molto differenti dalle italiane fosse causa unica del decadimento economico.

Non nego certamente che le novità geografiche e le mutazioni politiche non abbiano sensibilmente contribuito alla diminuzione della prosperità italiana, ma ritengo sia più facile dimostrare e provare che le stesse condizioni economiche, nelle quali si trovava l'Italia al principio del Cinquecento, avevano intrinsecamente il germe del decadimento, e che gli avvenimenti geografici e politici, a cui ho fatto cenno, non furono in gran parte se non la causa occasionale del decrescere della fortuna pubblica e privata.

Starei per dire che tutto ciò che è logico è anche fatale; e nei fatti individuali come nei fatti delle grandi collettività - gli stati e le nazioni - meno eccezioni rarissime che formano poi l'oggetto della generale meraviglia - lo svolgimento dei fatti economici segue un indirizzo che mi pare conseguenza quasi inevitabile di alcuni caratteri della natura umana. Al faticoso accumularsi delle ricchezze con una cura parsimoniosa che pare fino avarizia, segue quasi sempre in generazioni successive prima l'uso intelligente ma largo delle ricchezze stesse, poi il fasto vano e smodato, lo sperpero, e finalmente la soggezione economica. E questo quasi generale procedimento, che riscontriamo tanto spesso nelle famiglie, si incontra anche nella vita delle nazioni.

Atene e Roma ne sarebbero splendidi esempi.

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Qualche cosa di simile ci presenta l'Italia nei secoli che corrono dal mille al milleseicento. Il primo periodo è tutto di lavoro attivo ed intelligente il quale è conseguenza di due fatti principali: gli enormi guadagni che le città marittime della penisola conseguono col trasporto dei crociati e coi traffici che massimamente si svolgono coll'Oriente; l'incremento delle industrie favorito da una specie di libertà della produzione acquistata dai comuni.

Infatti dal mille al milletrecento circa quella parte dei fatti economici pur troppo ristretta, che gli storici hanno illustrata, ci mostra l'Italia invasa da una febbre salutare di lavoro, fino al punto che alla aristocrazia della spada che dagli alti castelli dominava ancora la campagna, si contrappose a poco a poco un'altra aristocrazia che a Venezia, a Genova, a Firenze, in Lombardia, in Piemonte, dapertutto, diventa potente e prepotente, l'aristocrazia sorta dai commerci e dalle industrie.

E qui per dimostrare questo solo punto della ricchezza commerciale dell'Italia nell'epoca che precede il 1400, non mancherebbe certo il soccorso della storia che del resto è a tutti nota. Chi non conosce gli 80 banchi fiorentini sparsi nell'Italia e le succursali aperte in tutto il mondo? chi non ha letto che i Pazzi, i Capponi, i Buondelmonti, i Medici, i Corsini, i Peruzzi, i Rucellai sono banchieri, fabbricanti, importatori ed esportatori di lane, di panno, di sete? Ed è per estendere questo commercio che Firenze acquista per centomila fiorini d'oro il porto di Livorno ed a spese dello Stato costruisce due flotte una che esercita il commercio coll'occidente, l'altra coll'oriente. E la lana greggia si importa dalla Spagna, dalla Francia, dall'Inghilterra, dalla Fiandra, si tramuta in tessuti che prendono la via del levante; dal levante e dalla Sicilia si importa la seta greggia per farne velluti, broccati ed ogni genere di finissimi lavori che [116] si vendono poi a tutta Europa; e dalla Francia venivano i tessuti che si tingevano a Firenze e davano vita all'arte dei Calimala.

E Venezia, prima col modesto mercato del sale poi cogli scambi di prodotti diversi tra l'Asia e l'Europa che nell'Egitto avevano lo scalo, più tardi coi grandi guadagni che il trasporto dei crociati e l'approvvigionamento di tanta gente, la quale non soltanto dall'ascetico sentimento di liberare il sepolcro di Cristo, ma, come lamenta un principe contemporaneo, è mossa dall'amor auri et argenti et pulcherrimarum fœminarum voluptas, Venezia accresce la propria fortuna. Ricordo a tale proposito un solo fatto che vale per tanti altri analoghi. Col trattato di alleanza stipulato dai Veneziani per il trasporto della quarta crociata, il doge di Venezia si obbligava di imbarcare e condurre in Oriente 4500 fanti, altrettanti cavalli, 9000 corazzieri, e 20,000 pedoni, e di mantenerli con razioni stabilite di pane, legumi, vino ed acqua per tutto il viaggio; il prezzo convenuto era di 85,000 marchi d'argento di buona lega e peso di Colonia. Ma quando arrivati a Venezia i capitani non hanno il danaro, il doge si rifiuta di trasportarli; e quando i crociati spogliandosi di ogni cosa all'infuori delle armi e dei cavalli e portando alla zecca del Doge per farne valori begli e ricchi vasellami d'oro e d'argento ne traggono 35,000 degli 85,000 marchi, i Veneziani li accettano, purchè i crociati li aiutino a prender Zara, sperando però che Iddio per mezzo di comuni conquiste dia ai crociati il modo di pagare gli altri 50,000 marchi. Nè valsero le proteste del Papa, e le resistenze degli stessi crociati che non volevano combattere il Re d'Ungheria esso pure crociato; l'interesse prevalse ad ogni considerazione, Venezia ebbe Zara prima, Costantinopoli poi, e soltanto più tardi mosse senza successo coi crociati a liberare il santo sepolcro.

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Calcolano alcuni che cinque o forse sei milioni d'uomini si recassero in Terra Santa nel tempo delle crociate; è difficile stabilire una cifra attendibile, ma è certo che il movimento delle persone, dei cavalli e dei viveri necessari a mantener tanta gente che si imbarcava a Venezia, a Genova, a Bari, a Marsiglia, deve essere stato enorme. Ed intorno a questa moltitudine di cui facevano parte imperatori, re, capitani, guerrieri, famigli, matrone, sacerdoti, avventurieri ed avventuriere, pellegrini e pellegrine, che a centinaia, a migliaia, quando a drappelli ordinati in armate, quando in turbe disordinate intraprendevano il santo viaggio, stava quello sciame di trafficanti di tutti i generi che vive e guadagna sui più urgenti bisogni altrui. Oggi si avrebbero appaltatori, impresari, aste, forniture, frodi, corruzioni, allora i nomi erano diversi, ma non diverse erano le cose.

A questi fattori notevolissimi di lusso per quasi tutte le città marittime italiane, si aggiunga per Venezia la straordinaria attività del suo governo, della sua politica e dei suoi cittadini che resero quella Repubblica il paese commercialmente più ricco del mondo. Essa tiene sul mare 3000 navi mercantili, 45 galere, 25,000 uomini. E basterebbe ricordare la relazione del doge Mocenigo al Senato nel 1421 per comprendere quale fosse la importanza del traffico di quel tempo. Per il Po e per i canali che avevano diramazioni in Lombardia e fino a Tortona ed a Novara i Veneziani mandavano 20,000 quintali di filo, 50,000 di cotone, 40,000 di lana catalana, ed altrettanti di lana francese, 250,000 ducati di stoffe di seta ed oro, 3000 carichi di pepe, 400 pacchi di cannella, 2000 quintali di zenzero, 25,000 ducati di zucchero, 30,000 di sostanze tintorie, 250,000 di sapone, e 30,000 di schiavi. Venezia comperava dagli stessi luoghi 90,000 pezze di panno e riceveva a saldo più di un milione e mezzo di zecchini. E senza riferire maggiori particolari accennerò [118] che quella relazione riassume in 10 milioni di zecchini il complesso del commercio di Venezia, corrispondenti a 110 milioni delle nostre lire, quindi, al valor odierno, a circa mezzo miliardo di traffico; tutta l'Italia oggi non arriva a due miliardi di commercio internazionale.

L'interesse del danaro era in molti punti d'Europa in quel tempo anche del 20 per cento; e se questo era il saggio del profitto che la produzione ed i commerci tanto sviluppati in Italia, ritraevano, si può spiegare agevolmente come in breve tempo le città della penisola mirassero alle grandi concezioni dell'arte, della intelligenza, degli studi. Vi spiegate subito perchè appunto in quell'epoca che chiamiamo Rinascimento si adornassero le città italiane di quei monumenti che formano oggidì la maggiore e più ammirata testimonianza della ricchezza pubblica e privata. Se si raccolgono colle date rispettive in un elenco i grandi edifizi innalzati nel XII, XIII e XIV secolo, si costituisce quasi il riassunto di una guida per tutto ciò che di più altamente artistico oggi ancora in Italia si ammiri. Nè certamente occorre che qui dinnanzi a voi ricordi la gloriosa serie che da Santa Maria del Fiore al Duomo di Monreale, dalla sala della Ragione di Padova al Duomo di Orvieto, dal Palazzo di Belfiore di Ferrara al Duomo di Milano, alla Certosa di Pavia, a San Petronio di Bologna contiene tante manifestazioni di raffinata intelligenza; nè debbo ricordare le opere grandiose quali il ponte sul Ticino, i canali del Veneto, le arginature e deviazioni dei fiumi, ecc., ecc.

Ed è la conquistata agiatezza che dà modo agli studi di svolgersi e di accrescere la coltura; sono le corti dei principi ed i governi degli stati liberi, sono le scuole delle arti e le stesse popolazioni che incoraggiano il rinascimento intellettuale ed onorano i grandi scrittori ed artisti e vanno a gara per disputarseli e vogliono godere [119] della voluttà del pensiero. Egli è che, se mi è permessa una riflessione aridamente economica, il lusso intellettuale viene dopo la diffusione della ricchezza; non si troverà l'arte, lo studio, la poesia, la scienza in quei popoli presso i quali lo scarso profitto del lavoro permette appena la soddisfazione dei materiali bisogni. Nei popoli l'apprezzamento delle più alte manifestazioni del pensiero è quasi sempre incompatibile coll'angustia economica. Nell'epoca a cui accenno le repubbliche decretavano ad esempio che si costruisse il più bel tempio del mondo in attestazione della potenza e della ricchezza della nazione; oggi si farebbe un'asta, con un capitolato d'oneri, col ribasso del vigesimo, ed il Consiglio comunale discuterebbe sulle dimensioni delle arcate e si approverebbero a maggioranza le regole d'arte. E davanti allo splendore antico, in mezzo al quale viviamo, ci lamentiamo della insufficienza contemporanea, e non notiamo abbastanza che deriva dalla scarsezza dei mezzi.

Ma se mai alcuna prova occorresse a questa sconfortante riflessione si ponga mente che il risorgimento economico dell'Italia ed il conseguente rinascimento artistico e letterario, si verifica in tutta la penisola, non ostante la grande varietà degli ordinamenti politici e sociali; tanto a Venezia dove dominava una oligarchia tirannica, quanto a Firenze dove talvolta la turba, che oggi si direbbe scamiciata, afferrò il potere. La storia con numerosi esempi, troppo spesso dimenticati, mostra la impotenza dei governi a creare o a distruggere la ricchezza; nella maggior parte dei casi sono le stesse condizioni economiche quelle che generano un inevitabile decadimento, ed i Governi, fiacchi o corruttori o corrotti, sono essi stessi il prodotto e non la causa di quelle condizioni. Perciò nel tempo di cui parlo vediamo a poco a poco manifestarsi i sintomi di due mali che saranno lenta ma determinante causa del decadimento: [120] da una parte il lusso smodato che si esplica nel godimento dei risparmi accumulati; dall'altra il timore della attività altrui il quale si manifesta colle proibizioni economiche.

Anche qui sono obbligato a brevi cenni.

Già alla fine del 1400 cominciano le leggi suntuarie: non è più il tempo nel quale i Fiorentini vendevano agli stranieri i fini panni delle loro fabbriche, mentre si vestivano di stoffe grossolane. A poco a poco Firenze divenne il centro del lusso, delle belle arti e del buon gusto; la facilità stessa con cui il danaro si guadagnava e da ogni parte affluiva, eccitava alle spese ed alla prodigalità, ed il lusso dell'abbigliamento delle donne fiorentine, già lamentato da Dante, non ebbe più limiti. L'anno scorso un simpatico e dotto conferenziere vi ricordò molte leggi contro il lusso promulgate a Firenze ed in pari tempo ve ne dimostrò la inefficacia; non altrimenti avveniva a Venezia. Trovo un decreto con cui per limitare le spese eccessive “de pasti a colazion de nozze et compagnie„ la repubblica proibisce i confetti pieni di liquori “cioè quelli che se chiamano senza corpo„ e proibisce di illuminare il banchetto con “più di sei torze del peso di lire 6 l'una„; ed alle donne proibisce “de portar al colo più de un filo de tondini d'oro schietti che non eceda el prezio de 25 ducati od una cadenela d'oro schietta la qual no ecceda el valor de ducati 100„; e proibisce pure di portare “maneghe et petorali tessuti d'arzento over d'oro„; di un valore maggiore di venti ducati in tutto; ed ordina che “le maneghe a comedo„ sieno fatte in modo da non richiedere più “de un terzo de brazo de seda„. Ed anche la coda richiama l'attenzione della Repubblica la quale proibisce che “alcuna dona over putta de questa città possino portar alcuna veste la qual habbia più de una quarta de coda, sotto pena de perder la vesta e de pagar 25 ducati per una e cadauna volta„.

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Prescrizioni severe ci paiono oggi ma altrettanto inutili. Era il lusso una conseguenza inevitabile dell'accumulazione della ricchezza, od era un prodotto di cause particolari, di ordinamenti civili, di forme di governo, di rilassatezza di costumi?

Se si riflette che gli stessi inconvenienti si lamentavano e gli stessi inutili rimedi si tentavano a Venezia, a Milano, a Mantova, a Genova, a Firenze, a Roma dove pure tanto diverse erano le condizioni politiche e dove i Governi avevano caratteri tanto differenti, è da credersi che il lusso smodato, che non si limitava al vestire delle donne, ma si manifestava nel giuoco, nelle feste pubbliche, nei funerali, nei viaggi con seguiti numerosi, non fosse che un prodotto, inferiore se si vuole, ma egualmente intrinseco di quelle stesse cause, che avevano dati i templi sontuosi, le fabbriche pubbliche ricche di marmi, i palazzi splendidi di ornamenti. Dall'arte pura si passava grado a grado a quella esuberanza di decorazione nell'ornamento che troverà più tardi nel barocchismo la sua sgraziata apoteosi.

Ma ho detto dianzi che assieme al lusso un altro germe roditore della ricchezza pubblica e privata si manifestava nelle città italiane: il timore della attività altrui. Finchè a tenere il commercio e l'industria nel maggiore splendore erano sopratutto e quasi unicamente le maggiori città italiane Firenze, Genova, Milano, Venezia, la libertà della produzione era dai comuni quasi generalmente accettata e fatta rispettare; si può anzi dire che sopratutto sulla libertà del lavoro sorgessero e si consolidassero queste nuove collettività italiane. Le diverse costituzioni o statuti, come allora si chiamavano, che ci rimangono, o che più furono dagli storici studiati, più che mirare ad un ordinamento politico, tendevano ad assicurare alla cittadinanza, dopo la giustizia, franchigie economiche, finanziarie, fiscali. Il giuramento del capitano [122] per mantenere le consuetudini di Genova è tutto un riassunto di diritto civile sulle servitù reali e personali: i Pisani avevano principalmente chiesto ed ottenuto il riconoscimento e l'osservanza delle costitutiones quas habent de mari; e Messina e Lucca e tante altre città fondano il nuovo diritto di libertà sulle esenzioni doganali, sul diritto di coniar moneta, sulla libertà di tagliare nelle foreste regie per il naviglio, sulle imposizioni fiscali, sui livelli, sulle prescrizioni, ecc., ecc.

Ma quando la attività industriale e commerciale si diffonde e si estende, allora sorgono le invidie, le rivalità, e incomincia il protezionismo con quelle forme violente che caratterizzano tutti i rapporti di quell'epoca tra città e città. È infatti poco prima del 1500 che si estendono dovunque le dogane, specie di fondaci dove dovevansi introdurre tutte le merci che venivano di fuori e che erano custodite da un Massaio di dogana, nè più nè meno dei nostri magazzini generali e dei nostri porti franchi; ed è nella stessa epoca che i decreti che applicano i dazi cominciano a parlare non soltanto di necessità dell'erario, ma della importanza di proteggere le arti e gli operai della città.

Nel monito del Sercambi ai Guinigi di Lucca trovo già che lamentando la decadenza dell'arte della seta “la quale era quella che riempiva Lucca di denari„, esprime il consiglio che non se ne permetta la importazione, colla sentenza: “almeno quello che per noi far si può per altri non si faccia.„ E poi voleva che i vini forestieri non si ammettessero in Lucca e nel contado “se non con grossa e smisurata gabella„ giustificando la sua proposta coi soliti sofismi, che i vini forestieri essendo migliori allettavano di più, mentre quelli del paese si gettavano, rovinando così l'economia dei poderi. E da questi particolari suggerimenti passando a più grandioso concetto, il Sercambi formula una completa teoria protezionista. [123] Trova triste la condizione delle arti e crede che migliorerebbero se il contado comperasse soltanto in Lucca quello di cui abbisogna; allora ogni cittadino Lucchese guadagnerebbe e si aprirebbero fondachi sperando di vendere al contado; vorrebbe a tale scopo che fosse sequestrata ogni merce che “si conduce nel contado et non sia tratta di Lucca„; fa eccezione per alcuni commestibili e per il legname contentandosi che siano tassati nella entrata e nella uscita. E conclude:

“Tutte quelle mercanzie che di Lucca si cavassero si possino portare per tutto il contado senza pagare cosa alcuna, e di questo avrà il comune due gabelle, l'una in nell'entrare, l'altra in nell'uscire, et il guadagno rimarrà in Lucca.„

Non altrimenti parlano oggi per il protezionismo rifiorente, tanti illustri uomini di Stato italiani e stranieri, ed è cosa che fa disperare del progresso economico.

E le corporazioni d'arti e mestieri, nelle città, dove erano rimaste, colla potenza che avevano acquistata in quei tempi, non ebbero piccola parte nel creare e nell'incrudire degli impedimenti verso la produzione forestiera, dappoichè estesero ai produttori delle altre città, mano a mano che si svilupparono le industrie, quelle stesse idee grette e tiranniche colle quali per gelosie interne governavano l'esercizio della industria. Anche intorno alle corporazioni un illustre scrittore vi ha intrattenuto nell'anno passato e nulla potrei aggiungere a quello che egli vi ha dottamente esposto.

Se non che, il lusso da una parte, le proibizioni ai commerci dall'altra, portarono ben presto come fatale conseguenza un considerevole aumento delle spese pubbliche e private. Anche qui i caratteri della natura umana furono in azione più che mai violenta. Col lusso dei cittadini i governi, fossero essi a libero reggimento od a monarchia, cominciarono a gareggiare; ed allora il fasto [124] non ebbe più freno. Ricordate il viaggio del duca Galeazzo Maria Sforza da Milano a Firenze? I principali feudatari del duca ed i consiglieri gli facevano corte, accompagnandolo nel viaggio con vestiti carichi d'oro e d'argento; ciascuno di essi aveva un buon numero di domestici splendidamente ornati; tutti gli stipendiati ducali erano coperti di velluto. Quaranta camerieri erano decorati con superbe collane d'oro. Altri camerieri avevano gli abiti ricamati. Gli staffieri del duca avevano la livrea di seta ornata d'argento. Cinquanta corazzieri, con selle di drappo d'oro e staffe dorate: cento uomini d'arme, ciascuno con tale magnificenza come se fosse un capitano; cinquecento soldati scelti a piedi: cento mule coperte di ricchissimi drappi d'oro ricamati: cinquanta paggi pomposamente vestiti; dodici carri coperti di superbi drappi d'oro e d'argento; duemila altri cavalli e duecento muli coperti uniformemente di damasco per l'equipaggio dei cortigiani. Cinquecento paia di cani da caccia, e sparvieri, falconi, trombettieri, musici, istrioni. Tale è il racconto di un cronista contemporaneo.

Del resto basta pensare allo splendore delle pubbliche feste che si davano a Mantova, a Venezia, a Roma per ogni circostanza e per ogni pretesto, come le caccie di Leone X, e si comprenderà facilmente quali enormi spese pubbliche fossero necessarie, anche senza por mente che col fasto e col lusso la corruzione pubblica, il peculato e lo sperpero delle entrate andavano compagni.

Perciò le città italiane, che nei secoli durante i quali avevano lottato per ottenere la libertà avevano dovuto anche sostener guerre per reggersi, per rivaleggiare nella potenza, per costituirsi e per allargare il loro dominio, nei tempi immediatamente precedenti al cinquecento, che furono se non pacifici certo meno fecondi di contese, portarono le pubbliche gravezze al di là di ogni equa misura. Siamo soliti ora di lagnarci per il peso delle molteplici [125] tasse ed imposte che ci aggravano, ed assistiamo sgomenti e meravigliati ai faticosi studi dei Governi e dei Parlamenti diretti a trovare nuova materia imponibile. Ci pare che mai l'arte della finanza abbia potuto essere tanto raffinata. Sono però costretto a far notare che la fantasia dei finanzieri del decimoquinto e decimosesto secolo aveva già mietuto tutto il campo fiscale non lasciando ai moderni, nemmeno la consolazione della spigolatura. Riassumo più brevemente che mi sia possibile:

imposta fondiaria sui terreni, che arrivava anche al 10 per cento della rendita depurata;

imposta sui fabbricati; o un tanto per casa qualunque essa fosse, o in proporzione alla lunghezza della facciata o del numero delle finestre, o in ragione del 10 per cento della pigione;

tassa di fuocatico, o di testatico, che colpiva più specialmente quelli del contado;

tassa sul sale obbligatoria; perchè si costringeva ogni cittadino a comperare ogni anno una certa quantità di sale dai magazzini dello Stato;

tassa sugli schiavi e sui contadini;

tassa sul bestiame bovino, ovino, caprino ed equino;

tassa sulle industrie (oggi si direbbe di licenza), comprese quelle turpi;

tassa sui notai, attuari e magistrati;

ritenuta sugli stipendi di tutti i pubblici ufficiali;

dazi su tutto ciò che veniva portato in città e quindi anche sul pane, sulla farina, sul vino, sull'olio;

tasse sui pesi e sulle misure;

tasse sull'imbottato, sul macinato, sul panificio;

tasse sulle alienazioni degli immobili, dei mobili; sulle contrattazioni, sulle pigioni, sui fitti, sulle successioni, sugli atti civili, sulle affrancazioni degli schiavi, sugli atti giudiziali, sulle tutele, sulle registrazioni pubbliche, tasse sul lusso, e perfine sui morti.

E poi pedaggi sulle strade e sui ponti, diritti di approdo, di ancoraggio, di scarico, di dogana.

Soltanto da Mantova a Pavia per il Po le mercanzie pagavano quindici dazi!

[126]

Auguriamoci in verità che i nostri Ministri delle finanze non istudino i documenti di quell'epoca; temo che troverebbero nuovi tormenti.

Ma il tempo ne sospinge e non mi è permesso se non di riassumere il concetto che avrei desiderato svolgere più a lungo. La prosperità delle città italiane che nei primi secoli dopo il mille aveva resistito a tante guerre, cominciò lentamente a declinare quando germogliarono e troppo rigogliosamente fruttificarono i tre fattori di ogni decadimento economico:

i dazi protettori;

il lusso smodato;

le soverchie gravezze.

················

Appunto negli albori non certo fausti del XVI secolo, che portava in sè tali germi di decadenza, si maturarono fatti i quali per la loro stessa natura accelerarono la caduta economica dei più deboli e non lasciarono ai forti se non la tenacia della conservazione e della resistenza.

Parlare ad un tempo delle conseguenze della politica dell'epoca, dello spostamento del commercio coll'India, della scoperta dell'America, della dominazione spagnuola e del suo regime proibitivo, dell'eccesso del fiscalismo generato dalla altezza dei balzelli, del sistema coloniale italiano, e delle condizioni economiche delle diverse città, sarebbe troppo arduo ufficio. Accennerò ad alcuno dei più interessanti argomenti, e tra i primi a quello che è di maggiore importanza per l'Italia, cioè la scoperta della via marittima che conduceva all'India per il Capo di Buona Speranza.

È noto che Vasco di Gama, dopo i tentativi di Enrico il Navigatore e di Bartolomeo Diaz, girando l'Africa [127] era arrivato presso lo stretto di Bab-el-Mandeb e poi nell'India, il paese, come allora lo si chiamava, delle spezierie; ed alla fine del decimoquinto secolo, nel 20 maggio 1498, dopo dieci mesi di traversata, Vasco di Gama con tre navi portoghesi gettava l'áncora dinanzi a Calicut; l'ardito navigatore che già conosceva l'Oriente e sopratutto il commercio proprio di quelle regioni, ritornando dall'India a Lisbona potè facilmente infiammare l'animo del suo re Emanuele, perchè si intraprendessero regolari spedizioni, affine di ricevere le spezierie, gli aromi e le pietre preziose che avrebbero potuto arrivare a Lisbona molto più a buon mercato che non a Venezia, la quale doveva trarle dall'Egitto di seconda e terza mano. Il navigatore ed il re maturarono il disegno politico-economico, ardito rispetto a quel tempo, di fare Lisbona l'emporio di approvvigionamenti di tutta l'Europa, specie occidentale, per i ricercati prodotti dell'India. Nè l'impresa era senza pericoli, poichè il Portogallo non aveva nè forza marittima nè ricchezza, e si trattava di disputare il mercato commerciale alla più potente repubblica del mondo di allora, a Venezia. Ma Vasco di Gama nel re Emanuele trovò un uomo capace di concepire, di sostenere e di attuare l'audace disegno, non fosse altro per la prospettiva dei vantaggi pecuniari che prometteva. La prima spedizione ufficiale, composta di tredici navi, protetta dagli auspici e dagli aiuti dello Stato, partì da Lisbona il 9 marzo 1500.

Questo avvenimento formò per lungo tempo il tema politico-economico di discussione si direbbe ora dei circoli Europei, i quali si appassionarono alla lotta che ben presto, più o meno apertamente, sorse tra Venezia ed il Portogallo, l'una per parare le conseguenze della nuova scoperta, l'altra per trarne il maggiore profitto.

Le cronache ed i documenti dell'epoca sono abbondanti di notizie in proposito, e ci mostrano che le distanze [128] allora enormi, la differente civiltà, il più lento procedere degli avvenimenti non impedivano che simili fatti suscitassero parlari, partiti, previsioni, ipotesi, diffidenze, illusioni non dissimili da quelli che sorgono oggi in analoghe questioni.

Venezia aveva di fatto il monopolio del commercio dei prodotti orientali; stretta con trattati e con tributi al Sultano d'Egitto, al quale essa pagava, oltre le gabelle, un canone annuo, e col quale aveva stipulato di comperare ogni anno un minimo di mercanzie, Venezia mandava nella stagione propizia (la Muda) la sua flotta commerciale, che si divideva in tre frazioni: la maggiore approdava ad Alessandria, un'altra a Bayrut, la terza composta di due o tre galere, costeggiava la Barbaria arrivando sino a Tunisi. Nelle città principali dell'Egitto, della Siria e della Tripolitania i Veneziani tenevano magazzini sempre provvisti di merci europee e di merci asiatiche, ed un grande vascello magazzino rimaneva quasi sempre in uno od altro dei porti egiziani; negozianti veneziani stavano tutto l'anno in Egitto, nella Siria, nella Barbaria a rappresentare le case commerciali, ed apparecchiare le contrattazioni prossime, a sorvegliare l'esecuzione di quelle convenute. Rame, olio e stoffe, specchi, vetrerie, cristalli onde Venezia andava famosa, erano i principali prodotti che si vendevano all'Egitto; pepe, indaco, incenso, gomma lacca, cannella, rabarbaro, zucchero, zafferano, pietre preziose, si comperavano dagli Egiziani che erano in diretta corrispondenza coll'India. Alcuni scrittori calcolano che il traffico dei Veneziani coll'Egitto oltrepassasse il milione di ducati per ogni anno; altri lo limitarono a seicentomila ducati, dei quali la metà erano mercanzie europee vendute agli Egiziani, e l'altra metà oro ed argento che si consegnava in cambio di mercanzie orientali.

Saputosi a Venezia della scoperta dei Portoghesi e dei [129] primi viaggi intrapresi da quegli audaci navigatori, cominciò il lavorio per impedire il decadimento del commercio coll'Egitto e la perdita di così importante monopolio. Mentre però gli agenti diplomatici e consolari che la Repubblica teneva in Portogallo od in Ispagna informavano il Governo dei successi ottenuti da Vasco di Gama e dal re Emanuele, e mentre alcuni cittadini, tra cui un esperto negoziante, Girolamo Priuli, comprendevano tutta la importanza di tali fatti, la massa dei Veneziani aveva così profonda nell'anima la tradizione della incontrastata supremazia marittima della Repubblica, che si rideva dei tentativi che si facevano a Lisbona e si compiaceva di predirne l'insuccesso; - o si diceva che il viaggio intorno all'Africa era così lungo che il trasporto delle spezierie sarebbe riuscito più costoso per quella via che per l'Egitto; - o si dipingeva la impotenza finanziaria del Portogallo di fronte alle difficoltà di un'impresa che sarebbe stata temeraria perfino per la regina dell'Adriatico; - o ancora si credeva che il sultano d'Egitto avrebbe impedito ai Portoghesi di trafficar coll'India, affine di conservare a sè il commercio asiatico-europeo. Non mancarono infine coloro che, più ridicoli, negavano la possibilità di giungere all'India girando l'Africa e giudicavano fanatici, sognatori, pessimisti coloro che prestavano fede alle notizie venute dal Portogallo.

Ma i fatti ben presto diventarono troppo evidenti; i sultani dell'India, dapprima diffidenti verso i Portoghesi, cominciarono a trattare con essi, ed il primo effetto ne fu una sensibile diminuzione del traffico tra l'India e l'Egitto e quindi tra l'Egitto e Venezia. Conseguentemente rincararono le spezierie delle quali l'Europa aveva bisogno; il pepe nel 1502 aumentò di prezzo circa del 40 per cento, e questo stesso aumento guastò maggiormente i primi esperimenti commerciali dei Portoghesi.

Datano da allora una serie di atti, ora arditi ora prudenti, [130] della Repubblica Veneta per parare i danni. Prima sono ambascierie spedite in Egitto per dipingere a quel sultano Kausouh el Ghouri tutto il danno che avrebbe potuto risentire il suo regno se il commercio colle Indie prendesse la via del Capo: e Benedetto Sanudo, Peldi Francesco, Alvise Sequendino nel 1505 e 1506 sono inviati ad Alessandria ed al Cairo ed istigano il sultano d'Egitto ad allestire flotte per combattere nell'India le navi portoghesi, e per costringere i sultani indiani a non vendere che a negozianti dell'Egitto le loro merci preziose. Dal canto suo il sultano Kausouh manda in Europa un suo legato, un monaco francescano chiamato Maurus che si reca dal Pontefice per significargli necessaria la sua intromissione contro i Portoghesi, affinchè il sultano d'Egitto, irritato pel danno che gli veniva dalle spedizioni in India, non si vendicasse distruggendo i luoghi santi di Palestina. Ma il re Emanuele seppe colla energia della sua politica sventare tutti i piani e le mene immaginati contro il Portogallo, e nello stesso tempo colla vigorosa azione seppe accrescere il traffico così felicemente iniziato.

Ma i Veneziani non ristettero dai tentativi: prima mandarono a trattare collo stesso re di Portogallo per stabilire un accordo commerciale. Per conservare la continuazione dell'approvvigionamento di tutta l'Europa dei prodotti orientali i Veneziani offrirono di comperare a Lisbona anzichè in Egitto le spezierie, domandarono in cambio l'esclusivo diritto del traffico; e non essendo riusciti, per mezzo del console veneziano a Damasco, Pietro Zeno, tentarono di accordarsi colla Persia per il trasporto delle merci indiane. Sventuratamente la guerra contro la lega di Cambrai paralizzò la attività della Repubblica e ne pose in forse per un momento la esistenza: ma appena Venezia fu informata che l'Ambasciatore del re di Francia, Andrea le Roy, era arrivato al Cairo colla [131] missione di cercare di sostituire in Egitto la influenza francese a quella veneziana, la quale era dipinta al sultano come ormai finita, la Repubblica compiè uno di quegli atti di sommo accorgimento politico che hanno resi così celebri i suoi uomini di Stato. Una flotta mercantile numerosa quanto altra mai, venne radunata nei porti delle isole del Mediterraneo occidentale, e ad un tratto approdò ai diversi porti dell'Egitto riprendendo su larga scala il traffico fino allora quasi sospeso per le gravi vicende della guerra. Il risveglio improvviso e le prove di quella meravigliosa potenza produssero l'effetto desiderato; il sultano d'Egitto, che per le pratiche iniziate dai Veneziani colla Persia, era diventato ostile, si riconciliò repentinamente e consentì di riprendere la discussione dei trattati commerciali.

Domenico Previsoni venne allora destinato a condurre a termine i negoziati per far comprendere al sultano la necessità di riportare il commercio per l'antica via ribassando le gabelle affine di vincere la concorrenza dei Portoghesi; la stessa Repubblica col decreto del 3 maggio 1514 esonerò dalle imposte i mercanti che portavano il pepe dall'Egitto e dalla Siria. Ma tutto fu inutile, la logica economica ebbe il suo corso; il pepe - giacchè i documenti di quel tempo quasi esclusivamente di questa piccante droga si occupano - costava a Lisbona il 20 per cento meno che a Venezia. E Lisbona divenne allora l'emporio del traffico indiano-europeo.

Ho ricordato lungamente - forse troppo - questi avvenimenti, perchè parmi opportuno sottoporre alla vostra riflessione una questione economica.

Fu veramente la scoperta del Capo di Buona Speranza una rovina per Venezia? - Parmi che l'economista, fondandosi anche un poco sulla statistica, debba dare un giudizio meno assoluto di quello che hanno dato gli storici.

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Che la scoperta del Capo di Buona Speranza abbia danneggiato Venezia in quanto rese commercialmente forti il Portogallo prima, l'Olanda e l'Inghilterra poi, nessun dubbio; - che danno sia venuto alla Repubblica dal fatto che le regioni orientali, dove Venezia aveva colonie, possessi, stabilimenti, traffici, sieno diminuite di importanza col diminuire del commercio indo-egiziano; questo pure è certo. Ma che la scoperta possa avere portato un effetto immediato sulla ricchezza veneziana, e che essa possa, come fa uno scrittore moderno, dirsi una catastrofe, non lo credo veramente. Già basterebbe il fatto che la Repubblica Veneta seppe sopravvivere a tale catastrofe per altri tre secoli per comprendere la inesattezza della espressione; ma se poi si riflette che proprio quando la scoperta del Capo di Buona Speranza cominciava a dare i suoi risultati, la Repubblica intraprendeva la guerra contro la lega di Cambrai, dalla quale sembrava dover rimanere schiacciata e sulla quale invece in breve volger d'anni prendeva quella meravigliosa riscossa, che fu sancita dagli stati Europei nella pace di Cambresis, non si può in verità concludere che Venezia rimanesse ad un tratto fiaccata dalla scoperta del Capo africano. Il sultano d'Egitto fin dal 1502 si lagnava che i Veneziani avessero diminuito il loro traffico, ed ho notato che, nei tempi più prosperi, si faceva salire ad un milione di ducati il costo delle spezierie che Venezia comperava in Egitto; è egli presumibile che la perdita di un commercio anche di un milione di ducati potesse sconvolgere e rovinare la ricchezza dei Veneziani, quando il loro commercio totale si valutava a 10 milioni di zecchini, cioè 80 milioni di ducati circa?

Egli è che molte volte nella storia le leggende prendono il posto della verità e vi si assidono inamovibili. Esempi di simili giudizi erronei ne abbiamo anche al tempo nostro. Chi non ricorda che fu predetta la immediata [133] catastrofe del commercio inglese per il taglio dell'Istmo di Suez? E Venezia non sognò nel 1869 il ritorno immediato dell'antico splendore per la riapertura della via dell'Oriente, per mezzo di quel canale di cui sino dal 1502 i Veneziani avevano pensato la escavazione?

Ma i popoli si muovono lenti; ed è solo la nostra fantasia che correndo sbrigliata, legge negli eventi quello che essi non dicono, e prevede quello che è soltanto desiderio.

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Se non che lo stato delle cose che ho cercato di tratteggiare - il lusso, la gravezza delle imposte, la protezione della produzione di una contro l'altra città, e per giunta la perturbazione commerciale - erano condizioni così opposte a quelle di un'epoca precedente in cui i cittadini, sebbene intesi al commercio, non cessavano di addestrarsi nell'armi per acquistare la libertà, che non può fare meraviglia se nel XVI secolo l'Italia non fosse pronta a combattere per difendere la libertà così faticosamente ottenuta.

Mentre i Veneziani lottavano senza successo per conservare il loro traffico coll'Oriente, in altre parti d'Italia la dominazione spagnuola e la rivalità tra Carlo V e Francesco I portavano nuovi elementi di decadenza economica. Nè parlo soltanto di danni e perturbazioni derivanti dalle devastazioni degli eserciti indisciplinati e talvolta feroci; nè delle esigenze degli Spagnuoli che dappertutto aumentavano le gravezze; nè dei crescenti bisogni dell'uno e dell'altro sovrano per condurre imprese guerresche; mi riporto invece ad un vero e proprio mutamento di indirizzo economico.

Le città italiane avevano nei secoli precedenti conquistati i mercati di quasi tutto il mondo, sia colle industrie manifatturiere, sia col meraviglioso ordinamento [134] bancario. Ma avevano anche trovati imitatori nell'una e nell'altra attività; specie la Francia settentrionale, le Fiandre e le città anseatiche, o per spontaneo impulso o per fortunata imitazione, avevano avuto esse pure molte industrie, delle quali prima soltanto l'Italia aveva il privilegio, ed a poco a poco arrivarono, migliorando e perfezionando, ad esercitare una vera e propria concorrenza ai prodotti italiani. Gli stessi congegni bancari, in Olanda, nella Germania, nel Portogallo e nella Spagna avevano avuto arditi e sagaci imitatori.

La dominazione spagnuola con a capo un imperatore di nascita fiammingo, non poteva che tornare dannosa all'Italia anche sotto l'aspetto economico. Non mi arrischierò certamente di affermare che il regno di Carlo V segni un ritorno al feudalismo e rappresenti per l'Italia un regresso di molti secoli; è questione molto complessa che gli storici a suo tempo vi esporranno; ma dal lato economico il giudizio è già stato manifestato. Uno scrittore della storia dell'Economia politica dice: “Il regno di Carlo V è stato contrario sopratutto al progresso della economia politica nel senso che ha distolto violentemente l'Europa dalle vie normali della produzione per precipitarla nei rischi della guerra e nel vecchio sistema di sfruttamento proprio della feudalità. Tutte le false dottrine e tutti i funesti pregiudizi economici che oggi dobbiamo combattere derivano dal suo sistema di governo continuato e peggiorato dal suo esecrabile successore.„ - Per quanto tale giudizio del Blanqui possa sembrare eccessivo nella sua concisa severità, e quindi per ciò stesso sospetto di esagerazione, pur troppo i fatti stanno, almeno in parte, a confermarlo. I produttori italiani in breve tempo videro la potenza dello Stato che si costituiva più o meno saldamente in tanta parte della penisola e dell'Europa, rivolta a danno della produzione nazionale ed a profitto di quella straniera. Già il concetto [135] della bilancia del commercio, nel senso che lo Stato dovesse regolare il movimento delle merci, fu applicato in tutta la sua violenza a danno dell'Italia; - tassata la materia prima all'entrata, i prodotti manufatti all'uscita, proibito il commercio dei grani, i monopoli imperiali per uno od altro ramo di produzione sorretti da privilegi larghissimi, schiacciavano ogni iniziativa privata; la aristocrazia dell'industria e del commercio si sentì presto sopraffatta da quella della spada che rendeva nuovi servigi al trono; la plebe, che nei secoli precedenti aveva operato in Italia tanti miracoli gloriosi di attività, di forza, di splendide manifestazioni, fu considerata dai Francesi e dagli Spagnuoli che si disputarono il predominio della penisola, come fatalmente destinata alla soggezione, ed incapace di aspirare al governo di sè stessa. - E partendo da tali erronei principî che, se non formulati nella teoria, erano però violentemente esercitati nella pratica, il regno di Carlo V trovò in alcuni punti d'Italia terreno adatto abbastanza perchè quegli errori germogliassero rigogliosamente. Un principe che aveva a propria disposizione le ricchezze, dalla fama centuplicate, dell'America la quale appena allora si cominciava a sfruttare, che, tutto infiammato dal pensiero del diritto divino o di una missione provvidenziale, aggiungeva alla smodata violenza degli atti un contegno tra il mistico ed il fatalista, un principe infine che conduceva seco o mandava innanzi uno stuolo di personaggi spagnuoli tutti ripieni di personale alterigia, resa più grave dalle pompe esterne del portamento, dalle complicazioni delle cerimonie, dal fasto sconfinato, doveva trovare nelle città italiane, dove già abbiamo visto che molti cittadini tendevano a godere nel lusso le ricchezze accumulate dagli avi, non solamente imitatori, ma esageratori. E così fu. Sunt bona mixta malis certamente nella figura e negli atti di Carlo V, ma per l'Italia e [136] per la sua economia pubblica i mali molto e molto superarono il bene. In Italia dove la potestà civile aveva per lo più saputo frenare la prevalenza delle autorità ecclesiastiche, doveva essere funesto il predominio di un monarca che intendeva di farsi campione della Chiesa contro la Riforma religiosa al fine di ottenere dalla Chiesa stessa il maggior vantaggio, specie se si pensa che la dominazione spagnuola non estese soltanto il potere dell'inquisizione, ma lasciò moltiplicare i monasteri ed accrescere le loro proprietà immobiliari, con gran danno della agricoltura e dell'ordinamento della proprietà stessa.

Voi sapete infatti che cessata sino dal trecento e quattrocento la servitù della gleba ed affievolitosi il feudalismo politico, la libera proprietà fondiaria andava sempre più determinandosi e costituendosi, e l'allodio, cioè la terra libera da vincoli feudali, che in tempi precedenti sembrava una eccezione, cominciava a divenire la regola.

L'agricoltura infatti sotto i comuni, o per miglioramenti giuridici ottenuti, o per maggiore facilità di smerciare i prodotti, era salita in onore così che occupava cospicuo posto nella pubblica economia. Ricorderò il catasto che già avevano i Veneziani, che se non era esclusivamente un registro di terreni, e se rappresentava piuttosto il censo degli ebrei e dei Romani, cioè “il libro nel quale erano descritti i beni immobili e mobili e qualsivoglia ricchezza e provento dei cittadini colla stima del loro valore e coi nomi dei possessori per metterli a gravezza„, - conteneva già la misurazione delle singole proprietà, la loro descrizione ed il loro estimo; ricorderò l'estimo dei Fiorentini riformato nel 1427 su proposta di Rinaldo degli Albizi che dall'esempio di Venezia aveva tratto le regole e l'esperienza; - ricorderò infine che dopo queste due maggiori città alcune altre o costituirono [137] o perfezionarono il loro catasto, non solo nei riguardi fiscali, ma, ciò che più importa notare, per rendere più facili le negoziazioni della proprietà immobiliare, segnatamente quella rustica. E qui vorrei che il tempo mi permettesse di annoverare soltanto le forme che la imposta fondiaria assunse in quell'epoca; mentre Venezia aveva senz'altro la decima, Firenze cominciò a stabilire prima il valsente, che era la aliquota sul censo mobiliare ed immobiliare, ma poi lo contornò di cinquine, di novine, di ventine, di settine, di aggravi, di piacente, di dispiacente, di arbitri, di accatti, di scale oneste, nomi questi molto singolari a sentirsi, ma che corrispondono a quei famosi decimi di guerra che aggravano tante nostre imposte e tasse anche in tempo di pace.

All'ordinamento, almeno tecnico se non fiscale, che si dava in Italia alla proprietà fondiaria col catasto e coll'estimo nocque senza dubbio la dominazione spagnuola che fece rivivere tanti privilegi di principi, che allargò le concessioni agli ozi non sempre onesti dei conventi, che contribuì così in una parola a diminuire la potenzialità della terra.

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Ma di un altro grave fatto è accusato il regno di Carlo V, quello della falsificazione delle monete, non perchè a quel tempo si debba attribuire la malefica invenzione, ma perchè Carlo V ha largamente usato di tale espediente, stretto dai bisogni del suo erario troppo spesso esausto per le guerre.

Si suol dire che nel medio evo i principi falsificassero le monete, ed è questa una credenza abbastanza generale; ma mi par opera di giustizia scagionare, almeno per molti casi, quel tempo da una accusa che va circondata [138] da opportune spiegazioni. I principi solevano in molti luoghi percepire una tassa che si chiamava di signoraggio sulla coniazione delle monete, e più spesso anzichè riscuoterla - come si fa oggidì - dal cittadino a cui si consegnavano le monete, si riscuoteva dirò così sulle monete stesse trattenendo nella zecca una porzione più o meno grande del metallo prezioso, di cui così le monete rimanevamo depauperate. Fino a che la tassa di signoraggio si limitò all'uno od all'uno e mezzo per cento, il mercato se ne risentiva assai poco, ma quando, crescendo i bisogni dei principi per le continue guerre e per il lusso delle corti, la tassa fu portata a grande altezza, allora le monete messe in circolazione divennero sensibilmente depauperate di metallo prezioso. Da ciò l'idea nei sovrani di allora di ritirare dalla circolazione quelle che non erano state assoggettate a tale tassa per diminuire la quantità di metallo che contenevano. Era dare ad un provvedimento fiscale un effetto retroattivo, come si fa oggidì con certe leggi di catenaccio, colle quali si colpisce anche merci già importate e già entrate nei magazzini. Il disordine che veniva recato nel commercio e nelle contrattazioni per la esistenza di queste monete più o meno depauperate di metallo fino, è facile ad immaginarsi. Molti però non sanno spiegarsi come in quel periodo non si comprendesse che diminuendo la quantità del metallo, cioè accrescendo la tassa, si diminuiva il valore della moneta. Forse la spiegazione della illusione di quei tempi potrebbero darla coloro che sostennero e sostengono ai nostri giorni che il dazio sul grano nella misura del venti per cento del valore non ne aumenta il prezzo. Egli è che pur troppo il fisco ha voluto sempre rimaner celibe per quanto tutti gli offrano due spose: la scienza e la esperienza.

Del resto nei primi tempi i principi erano in tanta buona fede nel commettere queste alterazioni delle monete, [139] che le zecche mettevano un segno a quelle che erano state adulterate; più tardi si trova qualche ordinanza che raccomanda agli ufficiali delle zecche di mettere il segno alle monete calanti in modo meno facile a vedersi; e poi si vieta assolutamente di mettere qualunque segno, ed è noto il decreto, francese che ordina al direttore della zecca: “abbiate caro come il vostro onore, che i cambisti non conoscano la lega sotto pena di essere chiamato traditore„.

Anche su questo delicatissimo argomento che forniva all'Imperatore un mezzo così facile per riparare le angustie del suo erario, Venezia e Firenze opposero al disordine monetario il solo ostacolo che la economia politica suggerisce: la lealtà; - lo zecchino ed il fiorino d'oro ebbero corso in tutto il mondo e diventarono la moneta universale, perchè se ne seppe conservare la sincerità.

E tanto più grave era nel XVI secolo la questione delle monete in quanto verso la prima metà si cominciò a sentire la influenza che la scoperta d'America portava sui prezzi. Consentitemi una breve considerazione su tale argomenti dei prezzi. Avrete tante volte udito ripetere che i traffici cresciuti molto più della quantità dei metalli preziosi durante i secoli XI al XVI avevano resa proporzionalmente scarsa e quindi cara la moneta; bastava quindi una piccola quantità di moneta per comperare molte cose, si aveva cioè uno straordinario buon mercato. E si aggiunge che nel secolo XVI avendo la scoperta d'America reso abbondanti l'oro e l'argento, essi diminuirono di valore, e quindi i prezzi di tutte le cose aumentarono, perchè occorreva maggior quantità di monete per comperare i prodotti.

Esaminiamone rapidamente i fatti.

È ben vero che l'America venne scoperta nel 1492, ma passò più di mezzo secolo prima che fosse abbastanza estesamente conosciuta. È noto che sino al 1521 il Messico - che [140] diede tanto argento - non fu conquistato; che solo nel 1521 fu scoperto lo stretto detto di Magellano; che solo nel 1535 si conobbe la California; che appena nel 1540 Giacomo Cartier fondò una colonia dove è ora Montréal, mentre il De Soto scopriva le foci del Mississipì, e che molte parti infine del nuovo continente non furono scoperte se non nel secolo XVII. Se pertanto giustamente si segna la data gloriosa del primo sbarco di Cristoforo Colombo, bisogna riportarsi ad un'età molto più tarda per trovarne gli effetti economici i quali furono naturalmente molteplici, nè mi è possibile nemmeno annoverarli. Ho detto dianzi che i prezzi per la grande scarsezza della moneta erano molto bassi e davano la illusione di un grande buon mercato; a Firenze il grano valeva 5 soldi lo staio e 10 quello di Valdichiana e di Cortona; i capponi e le oche grasse una lira l'uno; i pollastri 10 soldi il paio; il barile di vino L. 1,20, il Chianti L. 1,80 il barile; un prete - dice una cronaca - viveva decentemente con 25 lire l'anno; - con 20 lire l'anno si pagava un operaio; si intende lire di 86 centesimi dei nostri!

La scoperta d'America portò una perturbazione a questi prezzi facendoli crescere dapertutto, perchè l'oro e l'argento diventarono più abbondanti; ma l'aumento dei prezzi non fu improvviso, si svolse lentamente tanto nel tempo quanto nello spazio. Dapprima se ne risentirono il Portogallo e la Spagna, poi l'Inghilterra, perchè l'oro e l'argento portato in Europa durante la prima metà del XVI secolo non fu che quello che gli Spagnuoli portarono via agli indigeni dai loro templi, dalle loro case, e - sapete già quanta crudeltà in quel tempo gli Europei esercitassero verso gli Americani - dagli stessi ornamenti femminili. Humboldt calcola che dalla scoperta dell'America al 1545 non si importasse in Europa che un valore tra oro e argento di 15 a 16 milioni delle nostre [141] lire. Somma certamente importante per quei tempi, ma per i nostri insignificante, se si pensa che l'America dà oggidì circa 250 milioni d'oro, e circa 565 d'argento; in totale oltre 800 milioni l'anno.

È per questo che i prezzi delle cose nella prima metà del 1500 ebbero un aumento relativamente limitato; ma quando nel 1545 per mezzo del peruviano Diego Hualca vennero scoperte le famose miniere del Potosi, la ripercussione sui prezzi fu notevole. La scoperta di quelle miniere che divennero subito le più ricche del mondo e la invenzione di nuovi e meno costosi sistemi per estrarre l'argento, riversarono all'Europa una enorme quantità di metallo bianco; la produzione annua, che pagava la Gabella al re di Spagna, era di 200000 chilogrammi e si calcola che altrettanto metallo uscisse di contrabbando. Non posso trattenermi sui particolari di tale argomento molto interessante, ma ricordo soltanto il movimento dei prezzi del grano che si possono ritenere equivalenti a quelli del pane.

Un ettolitro di grano costava nel 1500 cinque lire d'argento; nel 1520 aumentava a 10 lire, il doppio; nel 1550 era arrivato circa a 35 lire, cioè sei volte di più. Ma ecco subito la influenza del Potosi; nel 1560 un ettolitro di grano vai già 60 lire, nel 1570 ne vale 75 e nel 1590 80 lire. In poco più di ottant'anni il pane costava quindi sedici volte di più. Immaginiamo se i vecchi parlando ai nepoti avevano argomento di ripetere a sazietà: a' nostri tempi, e se dovevano scrollare il capo di fronte a così colossali perturbazioni!

Considerate, ve ne prego, quale enorme sconvolgimento doveva produrre un simile aumento dei prezzi; coloro che potevano facilmente rivalersene sugli altri, evitavano bene o male le conseguenze di un disordine così grave; ma coloro che, o avevano una somma fissa di denaro, o riscuotevano una rendita od uno stipendio, [142] quale scossa non debbono aver subita se in trenta, quaranta o cinquant'anni, il denaro che riscuotevano non serviva che ad acquistare il terzo, il quarto, il quinto, il decimo delle cose che prima si acquistavano!

Ai giorni nostri non possiamo figurarci uno spostamento così grande ed intenso di valori; e già oggi che speculiamo sulle minime differenze e che abbiamo costituite le industrie più importanti non sui grandi guadagni, ma sui piccoli e molteplici, oggi, di fronte ai ribassi di prezzo che notiamo per molte merci, stiamo discutendo, senza esser riusciti ancora a risolvere definitivamente la questione, se sia il prezzo della moneta che aumenta o quello dei prodotti che scema. Nessuna meraviglia quindi se i più strani propositi uscissero dalle discussioni di quel tempo, e se dalla cattedra e dal pulpito il rialzo dei prezzi desse argomento di discorsi in favore delle depauperate fortune. Se non che questa grande perturbazione che più violentemente si fece sentire dopo la metà del secolo XVI era già stata preceduta da quella specie di adulterazione legale delle monete a cui prima ho accennato e che, creando prezzi diversi delle cose secondo che erano pagate in moneta buona, mediocre o cattiva, lasciava meno discernere il fenomeno generale dell'aumento dei prezzi. E questa doppia causa di disordine nelle ordinarie contrattazioni: la molteplicità delle monete con diverso valore intrinseco, ed il continuo deprezzamento del metallo di cui le monete erano più o meno riccamente composte, dà argomento alle più importanti discussioni scientifiche che ci abbia lasciato il 1500.

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Il tempo corre veloce e certamente la vostra benevola pazienza ormai è esaurita e non posso soffermarmi sui cultori dei vari rami della scienza economica. Ricordo [143] solo alcuni nomi: Gaspero Scaruffi, Bernardo Davanzati, Tomaso Beninsegni, G. B. Lupo Geminiano, Lodovico Carbone, il Padre Serafino Razzi, il teologo bresciano Lelio Zecchi, Filippo Sassetti fiorentino, Giovanni Dall'Olmo veneziano, e Giovanni Botero e Paolo Paruta. E in capo a tutti per tempo, per acutezza di osservazioni, per larghezza di idee vorrei mi fosse permesso di tratteggiare Machiavelli economista che, nel principio del XVI secolo, aveva nelle varie sue opere, come bene osserva il Knies, sparsi concetti importantissimi sopra le principali questioni economiche, che anche oggidì tengono perplessi gli studiosi.

Ma se il tempo non mi permette di intrattenermi su tali soggetti, che pur darebbero modo di mostrare come in Italia allora si studiassero problemi che le altre nazioni soltanto alcuni secoli più tardi osarono affrontare, mi sia concesso di chiudere questa conferenza portando un esempio dell'ordinamento civile ed amministrativo a cui erano arrivate alcune città italiane. Trattasi a dir vero di un argomento di statistica, ma questo studio era sino agli ultimi tempi così legato alla economia, che presumo di non uscir dal tema.

Riteniamo come una grande conquista dell'età moderna la istituzione dei registri di Stato civile che tengono conto ordinatamente delle nascite, dei matrimoni e delle morti; e pare ai più che questo moderno istituto sia un perfezionamento della analoga istituzione ecclesiastica ordinata sulla metà del XVI secolo dal Concilio di Trento ed applicata più o meno lentamente dal clero sulla fine del secolo stesso e nella prima metà di quello seguente.

Ora mi piace ricordare che a Mantova esisteva già un registro di Stato civile, almeno per i morti, sino dal XV secolo. Ho trovato io stesso un decreto del 1504 che nomina il Superiore delle bollette, come si chiamava il Capo di quell'ufficio e si dice nel decreto stesso “che [144] sino dall'antico ad ora fu ed è sempre pubblica istituzione di curare di descrivere e di fare descrivere per mezzo di notaio in un apposito libro il nome, il cognome ed il giorno di ciascun morto in detta nostra città, e senza della sua licenza nessun cadavere possa essere seppellito, e se alcuna questione possa sorgere intorno alla morte di alcuno, è consuetudine che detto libro prodotto in giudizio faccia fede sino a prova contraria per qualunque giudice„.

Il più antico registro che è conservato nell'Archivio Gonzaga di Mantova risale al 1498 e non è il primo; quindi più di mezzo secolo avanti che il Concilio di Trento ordinasse i registri parrocchiali e molti secoli prima che si istituissero i registri di Stato civile, essi esistevano a Mantova; erano bollati in ciascuna pagina, le annotazioni e correzioni si facevano per ministero di notaro, nell'ultima pagina si stendeva il verbale di chiusura del registro.

Ho fatto lo spoglio di quaranta circa di quei registri, che comprendono i morti di tutto un secolo. Che preziosa miniera di osservazioni statistiche ed economiche!

La distribuzione dei morti per sesso, per età, le malattie, la distribuzione delle professioni, offrirebbero argomento di studio per i costumi e le abitudini di quella città allora fiorente. E siccome gli impiegati di quel tempo abbondavano nelle notizie, quei registri rappresentano anche una parte ora triste, ora scandalosa, ora curiosa della cronaca della città. Leggendola e studiandola si trova però una strana uniformità colla vita odierna; le stesse passioni che portano alle stesse conseguenze, gli stessi accidenti ed incidenti della vita, l'omicidio, il suicidio, la morte casuale, la abnegazione di chi perisce per salvare altri, l'incuria dei genitori, la storditezza dei domestici, gli infortuni del lavoro, il cane che morde nell'estate, lo scaldino che brucia nell'inverno; i cavalli che [145] calpestano, i veicoli che investono, il ghiaccio che si rompe sotto i piedi degli imprudenti, i mariti che si vendicano, le ragazze che muoiono per amore, insomma si troverebbero in quei libri funebri i fatterelli che leggiamo nei giornali moderni.

Le cronache di Mantova di quel tempo non raccontano peraltro che quelle signore avessero l'abnegazione di assistere ad una conferenza di economia politica; tanto maggiore quindi è per le presenti la mia ammirazione e la mia riconoscenza.

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