VI.

La infelicità della vita del Tasso non consiste tanto negli sciagurati avvenimenti - e l'amore deluso, e gli scrupoli, e le malattie, e le ansie, e la povertà, e il carcere, e il manicomio, e le agitazioni, e le fughe, e le guerre dei cortigiani e dei pedanti.... ma è l'insieme di tanti mali, di tanti dolori, moltiplicati, centuplicati da una squisita sensibilità, e da una irrefrenabile immaginazione. È stato scritto che i mali del Tasso furono in parte prosaici, in parte immaginari, in parte tollerabilissimi.... Prosaico o poetico, il male à egualmente sentito da chi lo soffre. Immaginari, il carcere, il manicomio, la miseria, le malattie? E poi della tollerabilità [259] del male il solo giudice competente è colui che lo soffre - è sempre una tollerabilità relativa.

Ho conosciuto una giovinetta che iniquamente abbandonata dall'amante, disperata si gettò in Arno - ne ho conosciute di quelle che in simil caso, dopo due lacrimette, pensavan subito a trovare un successore.... Marzio l'assassino del Cenci, resistè per tre giorni alle più atroci e raffinate torture, alle prove del fuoco, della vigilia, dello stivaletto - senza mandare un grido e senza dire una parola di confessione. Il povero Savonarola ai primi tratti di fune cadde in deliquio, e disse.... quel che gli fecero dire. Anche si è fatto colpa al povero Tasso di avere pianto sempre con vacui lamenti sulle proprie miserie, di esprimere un dolore affatto privato.

Eh! il poveruomo, ne aveva, mi pare, abbastanza dei suoi, perchè si possa pretendere che si occupasse anche dei dolori degli altri; e cantasse i mali dell'umanità, come uno Schiller o come uno Shelley!

Ma prima che egli varcasse la soglia della dolorosa vecchiezza, di mezzo alle bugiarde speranze, ai miraggi delle corone d'alloro nel trionfale Campidoglio, alle torture delle memorie, agli strazi delle malattie, la pallida messaggera gli fece cenno - il cenno terribile, al quale bisogna obbedire, e subito, o che si sia autori della Gerusalemme, o guardiani di pecore. Ma per te, povero grande uomo, il cenno non fu terribile: la morte fu per te la grande Consolatrice.

Era l'aprile del 1595. Torrenti di pioggia piovevan su Roma da un cielo sinistro ed apocalittico. Una carrozza saliva l'erta di Sant'Onofrio. Arrivata al convento, ne discesero il cardinale Cinzio e Torquato Tasso. I monaci si affollavano alla porta, ossequenti al Cardinale, compassionanti al poeta. Il poeta, pallido e calmo, disse loro queste poche e significanti parole: “Son venuto a morire fra voi!„

[260]

Dalla finestra delle sua camera, dalla terrazza dell'orto, stanco e morituro, ma calmo, potè contemplare la grande malinconia di Roma e del suo solenne paesaggio. Un mondo era ai suoi piedi, fragile come la nostra creta. Le rovine di tre imperi le vedeva accumulate tra i fiori e l'erbe della immortale natura - e potè acquetare i suoi dolori di un giorno, nella infinita pace del sepolcro di Roma, - Roma immensa, dalla piazza del popolo alla piramide di Capo Cestio; e il Gianicolo, e l'Esquilino, e il Palatino, e le cupole di cento chiese, e i palazzi, e gli archi e le colonne, e i giardini e le ville, e le Terme, e il Colosseo, e il Foro, e il Campidoglio, e San Pietro, e la via Flaminia, e la via Appia, e la Campagna già verde, e i monti Albani e il Soratte - e il mare vicino.

Roma è il più grande e sicuro asilo alle stanchezze dell'anima. Nelle sue divine solitudini si sono acquietati i gridi ed i gemiti dei disastri dei popoli, e delle tragedie dei re. Stuardi e Borboni, Sobiesky e Bonaparte, tutti ha accolti e pacificati la gran madre Roma. Un sentimento profondo, invincibile, della vanità delle cose umane, s'impossessa qui degli spiriti anche i più vigorosi. Infatti i delusi, i malati, le anime devastate dalla passione, adorano Roma. Essa è stata, ed è ancora (non-ostante i dadi di gesso dei suoi quartieri nuovi, e gli echi stridenti di Montecitorio) l'asilo e il conforto supremo di ogni decaduta grandezza e di ogni speranza delusa - la consolatrix afflictorum, in tutti i tempi.

Roma, e la morte vicina, elevarono l'anima angosciata e sempre agitata del Tasso, in più spirabile aere. In quei pochi giorni, conobbe, forse per la prima volta, sè stesso e il mondo! E scrisse all'amico Antonio Costantini quella lettera calma, solenne, sublime, che non si può leggere senza viva emozione: sono le ultime parole di Torquato Tasso su questa terra.

“Che dirà il mio signor Antonio quando udirà la morte [261] del suo Tasso? E per mio avviso non tarderà molto la novella, perchè io mi sento alla fine della mia vita, non essendosi potuto trovar rimedio a questa mia fastidiosa indisposizione, sopravvenuta alle altre mie solite; quasi rapido torrente dal quale vedo chiaramente esser rapito. Non è più tempo ch'io parli della mia ostinata fortuna, per non dire della ingratitudine del mondo, la quale ha pur voluto aver la vittoria di condurmi alla sepoltura mendico; quando io pensava che quella gloria, che malgrado di chi non vuole, avrà questo secolo dai miei scritti, non fosse per lasciarmi in alcun modo senza guiderdone.

“Mi son fatto condurre in questo monastero di Sant'Onofrio, non solo perchè l'aria è lodata dai medici, più che alcuna altra parte di Roma, ma quasi per cominciare da questo luogo eminente, e con la conversazione di questi divoti padri, la mia conversazione in cielo. Pregate Iddio per me: e siate sicuro che come vi ho amato e onorato sempre nella presente vita, così farò per voi nell'altra più vera, ciò che alla non finta ma verace carità si appartiene. E alla Divina Grazia raccomando Voi e me stesso.„

Questa lettera del Tasso al Costantini e quella scritta dal Machiavelli, dalla sua villa di San Casciano, a Francesco Vettori, sono, diceva bene il Gioberti, le due lettere più significanti del Cinquecento: sono come due rivelazioni dei due uomini e del loro tempo. Il Machiavelli dice nella sua lettera che “passa molte ore del giorno all'osteria, con l'oste, un beccaio, un mugnaio e due fornaciai„ - che con questi “s'ingaglioffa tutto il giorno, giocando a cricca e a tric-trac, e il più delle volte si combatte per un quattrino, e siamo sentiti gridare da San Casciano.... Così rinvoltato tra questi pidocchi, traggo il cervello di muffa, e sfogo la malignità di questa mia sorte, sendo contento che mi calpesti per questa via, per vedere se la se ne vergognasse.

[262]

“Venuta la sera, ritorno in casa, et entro nel mio scrittoio; et in su l'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali: e rivestito condecentemente entro nelle antiche corti degli antichi uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio, e che io nacqui per lui - dove io non mi vergogno parlare con loro, e domandoli della ragione delle loro azioni, e quelli per loro umanità mi rispondono: e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia, dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro.„

Non sentite riviver qui e l'indignazione amara del Machiavelli, e l'orgoglio e la gioia dell'uomo del Rinascimento, per il quale l'antichità è culto insieme e conforto? - E non avete sentito nella lettera del Tasso l'uomo del risveglio cristiano, per il quale Dio e la vita futura son due realtà, e non più vote parole - anzi, le sole e vere realtà?...

E la notte del 25 aprile 1595 il poeta spirava a 41 anni pronunziando le sacre parole: “In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum.„ - Sì: nelle mani di Lui, di Lui solo, potè trovare riposo e pace quell'anima travagliata.... Il mondo, coi suoi delitti, le sue ingiustizie, i suoi duchi Alfonso, le sue ipocrisie, le sue compassioni spietate è per lui già sparito, svanito, come un incubo tormentoso nella luce dell'aurora.

Avete veduto la maschera in cera del Tasso nella stanza dov'egli è morto? - Quella maschera, certe stanze della Gerusalemme, e certi frammenti delle sue lettere, ci dicon più di cento documenti sull'infelice poeta.

In quella maschera è espresso il genio, la sensibilità, il dolore, e pur troppo, anche il sinistro riflesso della follia. Povera testa sotto l'appassita corona d'alloro, povere labbra così fini, già sì eloquenti, sigillate per sempre [263] dal dito della morte! Gli occhi socchiusi non vedran più “lo dolce lume„; ma finalmente non verseranno più lacrime. La morte fu per lui una divina liberatrice.

Ma egli vive immortale nella memoria dell'umanità beneficata e consolata dal suo melodico canto: e i tiranni e i pedanti che gli amareggiaron la vita, fino a fargli perdere la ragione, se rivivono nella memoria degli uomini, è solo perchè ebbero l'onore di conoscerlo, e l'infamia di torturarlo.

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