IV.

Non era quella, nè poteva essere, la poesia della vita fiorentina fra il XIV e il XVI secolo. Fantasticata sui libri, e in libri foggiata, essa non attinge nè attiene alla vita vera di quell'età; nè vera è la donna che su quel mitico fondo, tutto romano e greco, nulla medievale, campeggia. Meglio dalle descrizioni, o siano poetiche o meglio se in prosa schietta fiorentina, de' conviti nuziali, delle armeggerie, delle giostre, viva ci sorride, e onestamente baldanzosa, e di quelle cavalleresche e cortigiane onoranze seco medesima sodisfatta e superba, la donna. Non mancano anche in cotesti suntuosi apparati lo iddio Amore, gli Amorini (convertiti bensì, il che ha un po' del trovadorico, in spiritelli), le Ninfe; sibbene come ornamento esteriore, fregio posticcio, parvenza fugace; non come espressione mitologica d'un sentimento, o quasi (direi co' filosofi) espressione essoterica d'una dottrina. Ma la figurazione dominante e caratteristica è dalla cavalleria medievale, e s'atteggia e si drappeggia nelle persone e nelle foggie di castellani e di principi, d'uomini d'arme, di donzelli, d'araldi e di paggi, di dame crudeli e di servi d'amore, con seco le grandi o gentili memorie delle crociate, de' passaggi imperiali, della santa gesta de' Paladini: “le donne (ha cantato Dante), le donne, i cavalier, gli affanni e gli agi, che ne invogliava amore e cortesia„.

Siamo in piazza Santa Croce il 7 febbraio del 1468; e si fa la giostra della quale Lorenzo de' Medici scriverà ne' suoi Ricordi: “Per eseguire e far come gli altri, giostrai in sulla piazza di Santa Croce„; e ne noterà la spesa in fiorini diecimila di suggello: “e benchè e di colpi non fussi molto strenuo, mi fu giudicato il primo onore, cioè un elmetto fornito d'ariento, con un [117] “Marte per cimiero.„ Entrano in campo i giostratori: Medici, Pitti, Pucci, Vespucci, Benci, Pazzi, e altri molti; qual più qual meno riccamente forniti: con magnificenza più che regale, Lorenzo alla divisa de' gigli d'oro di Francia e in sua compagnia il fratello Giuliano, coperti d'oro, d'argento, di perle, di pietre d'ogni sorta preziose: ciascun cavaliere accompagnato da trombetti e paggi e uomini d'arme, e giovani gentiluomini a cavallo tutti vestiti sfarzosamente alla divisa di quello; brigate per ciascuno di poco meno che un centinaio di persone; e ciascun cavaliere col suo stendardo, nel quale fra emblemi e segni diversi, e per lo più tra verde di prati e fiori di verzieri, la dama del cuore. Questa, leggermente velata di bianco, con ghirlanda di quercia in mano, e a' piedi legato con catene d'oro un leopardo; quella, in abito di ninfa, che riceve nel grembo le foglie d'un faggio battuto dalla tempesta, e le dà mangiare ad un daino; quell'altra, vestita di bianco e di verde, che le saette d'Amore infocate spenge nel fonte che scorre a' suoi piedi; un'altra, vestita di paonazzo, che quelle stesse saette fa in pezzi e ne semina il prato; ma la dama di Lorenzo, irraggiata dal sole traverso ai colori dell'iride, vestita di drappo alessandrino ricamato a fiori d'oro e d'ariento, coglie d'un ramo di lauro rinverdito sull'arido tronco, e ne fa ghirlanda, e ne sparge foglie all'intorno; il suo motto, in lettere di perle grosse da gioiellare, le tems revient. E molto lontano da Firenze, in Roma, nell'austerità baronale del palagio degli Orsini, pensava a lui in quel giorno una giovane donna, che non era nè forse le rincresceva di non essere la dama del suo stendardo, perchè si apparecchiava ad essere la madre dei suoi figliuoli. “Lorenzo è molto occupato in questa giostra, chè già da tempo non ò avuto sue lettere„; ha detto ella, la Clarice, un mese innanzi, a uno de' Tornabuoni venuto a recarle le nuove di lui; ed ora, appena [118] corrono a farle sapere “come Lorenzo à fatto la giostra, e n'è uscito sano e con grandissimo onore„, e che “s'è aoperato tanto degnamente quanto sia possibile di dire„, e che “giammai fu paladino facessi quello à fatto Sua Magnificenza„, risponde soavemente, “Ora s'è fatto la giostra, non avrà più scusa da recare, che non venga a Roma questa quaresima„. E in occasione della quaresima, la madre le ha fatto “levare panno pagonazo di Londra per una gonna a la romanesca„, che crede quel fidato Francesco Tornabuoni “non istarà punto male„; e così si propongono, madre e figliuola, di “andare vicitando tutti questi perdoni, pregando Iddio per Lorenzo„; ma la madre insiste ch'e' venga, perchè “vuole che voi vegiate la vostra mercanzia, avanti l'abbiate a casa; la quale ogni giorno migliora„: della qual locuzione figurata non so se proprio si abbellisse il parlare della nobilissima matrona, o s'ella fiorisse spontanea nella lettera del mercante cliente al mercante magnifico.

Un anno e quattro mesi dipoi, il 4 giugno del 69, le nozze di Lorenzo e di Clarice si celebravano in Firenze con grande solennità, la quale incominciava con due interi giorni di offerte a casa Medici dal contado e dalle città di Toscana; offerte la cui consistenza sommò, per citar qualche cifra a un centocinquanta vitelle, paia di capponi paperi e pollastri più di duemila, vini nostrali e forestieri a botti, e simili altre gentilezze, che Lorenzo partecipava largamente alla cittadinanza, anche prima d'imbandire, dalla domenica al martedì, ben cinque conviti, che empivano le loggie e i giardini del palagio di via Larga, con le mense distribuite fra giovani donne in compagnia della sposa (“cinquanta giovani da danzare„ dice l'informazione), e le donne di più età con madonna Lucrezia; e così in tavole separate i “giovani che danzavano„, e gli uomini di più età. Dalla domenica mattina, [119] quando la sposa, partitasi dalla casa degli Alessandri “a cavallo, in sul caval grosso che donò a Lorenzo il re di Napoli„ entrava fra nobilissimo corteo nella casa maritale, mentre festeggiato di musica lieta si tirava su alla finestra il simbolico ulivo; sino alla mattina del martedì, quando “andò a udire messa a San Lorenzo„, con in mano uno de' mille doni nuziali, “uno libriccino di Nostra Donna, maraviglioso, scritto a lettere d'oro in carta d'azzurro oltramarino, coverto di cristallo e d'ariento lavorato„; Clarice Orsini, trasportata, avvolta, sollevata in quel profumo di gioventù, di bellezza, di grazia, di forza; ricevuta nelle sale che Cosimo, Piero e Lorenzo avevano impreziosite dei tesori dell'antica arte e della risorta; circondata, sovraccarica, dagli splendori d'una ricchezza che, anche non ostentata anzi voluta dissimulare, tuttavia impacciava quasi sè medesima; regina degli omaggi che il fiore delle intelligenze di tutto il mondo tributava a questa famiglia, la cui potenza era soprattutto l'ingegno; potè ben comprendere ch'ella era venuta sposa al primo cittadino, non che di Firenze, d'Italia.

E lasciamo stare se a quella gaiezza un po' sbrigliata della città popolana, allo scetticismo elegante di quei letterati già bell'e cortigiani, a quelle transazioni fra il cittadino e il cliente che corrompevano intorno al patrono tanto vecchio sangue repubblicano, se a questo e ad altro che poi dovette offendere la sua romana alterezza e i suoi sentimenti di moglie e di madre, ella ripugnò sin da principio, e ne contrasse quel malinconico cruccio che avvolse tutta la sua virtuosa esistenza domestica; lasciam pure che invece del Poliziano, il quale ella giunse perfino a cacciare di casa, preferisse di vedersi intorno ser Matteo Franco, buona pasta di cappellano e di sonettiere faceto, nelle cui fiorentinissime lettere madonna Clarice, circondata da' suoi figlioletti, è [120] viva e parlante figura; ma non saprei tuttavia credere, che giovinetta sposa, ella non abbia dovuto gustare, di quella popolana gaiezza, di quella eleganza addottrinata, di quei cortigiani ritrovi, quanto parlava così vivacemente ai sensi e alla fantasia, in feste, per esempio, simili a questa, che pochi anni avanti, nel 64, aveva empito del suo fragore gioioso un'intera notte del carneval fiorentino.

“Notizia d'una festa fatta la notte di carnasciale, per una dama la quale fu figliuola di Lorenzo di messer Palla degli Istrozi. La detta festa fu fatta da Bartolomeo Benci, come innamorato della detta dama.„ Ve la riassumo, il più che potrò con le parole stesse della Notizia contemporanea, che sono una pittura. Bartolomeo Benci ha ordinato, con altri otto giovani di principali famiglie, un'armeggeria notturna, l'ultima notte di carnevale, in onoranza, prima alla dama sua, poi, come sentirete, a ciascheduna delle otto respettive dame de' suoi compagni. Ciascuno di essi otto è a cavallo, ricchissimamente forniti; ciascuno ha trenta giovani intorno a sè, vestiti alla propria divisa, con torchi in mano, e altri otto intorno alla briglia. Il Benci poi, col bastone di “Signore e Capitano della Compagnia,„ è “in su 'n uno cavallo che la natura nollo potre' fare più bello; con fornimento e sella e briglia tutto di chermisi, ricamato di molte argenterie tanto riccamente quanto fare si potè: e lui in su detto cavallo, con uno giubone di perle ricamato e gioie, con due alle alle spalle, d'oro e più altri colori. E intorno al detto Signore era quindici gentili giovani a piè; tutti con gonnellini di raso chermisi foderati d'ermellini, con calze pagonaze: a' quali esso Signore donò a ciascuno. E oltre a questo, avea intorno detto Signore centocinquanta giovani, tutti vestiti a una sua divisa, cioè gonnellini e calze verdi, con falconi nel petto e di dietro, d'ariento, che [121] gittavano penne per tutto el gonnellino: e' quali centocinquanta giovani ciascuno aveva un torchio acceso in mano„. Portatori e pifferi circondano il Trionfo d'Amore, che è alla testa: un Trionfo “alto braccia venti, composto in modo che, guardandolo, si rimaneva abagliato: co' molti ispiritegli d'amore con archi in mano; e in alcune parti l'arme de' Benci, e in altri luoghi la divisa del padre di detta dama; co' molte campanellette a sonagli d'ariento, e varie cose. Era composto detto Trionfo d'alloro, mòrtina, arcipresso, abeto e scope, cose tutte verdi e calde, apropriate all'amore. E, per abreviare, in sulla cima di detto Trionfo era un cuore sanguinente, aceso in fiamme di fuoco, che del continovo ardevano; con certi razi„ che a suo tempo dovevano esser lanciati. Muove la brigata (tutto ben computato, oltre un cinquecento persone) dalla Piazza de' Peruzzi, dopo una lauta cena in casa di Bartolomeo, e va alle case degli Strozzi da Santa Trinita: due Benci e due Strozzi regolano a cavallo l'andata. La Signoria ha fatto bandire, che nessuno quella notte giri a cavallo per la città, fuor di cotesta armeggeria; e che in essa o a cagion d'essa, “se per disgrazia alcuno fusse morto, chi l'ammazza sia sanza pena e sanza bando„: il che è detto “un obviare a' casi cattivi che potrebbero nascere„. E così, “giunti a casa della dama, feciono la mostra. E apresso, ciascuno corse ritto in sulla sella, secondo uso d'armeggeria, con un dardo in mano, dorato. E dipoi ancora, ciascuno corse con una lancia busa, dorata, e ruppono a piè della finestra dov'era detta dama. La quale si mostrava in mezo di quattro torchi acesi, con tanta graziosa onestà che una Lucrezia basterebbe. E fatto questo, el Trionfo era fermo sulla piaza, dirimpetto alla finestra dov'era detta dama: e al Signore fu ispiccate l'alie e gittate in sul Trionfo; e in quel punto, era ordinato che a detto Trionfo s'apiccassi [122] el fuoco: e così arse, con tante grida e suoni che insino alle stelle andava el romore. E i razi che v'erano su erano artificiati in modo, che pareva che quegli ispiritegli d'amore, ch'erano in su detto Trionfo, co' l'arco che gli avevano in mano, gli saettassono. E così accesi per l'aria volavano appresso alla dama: alcuno n'andava in casa della detta dama, che si istima glien'entrassi alcuno nel cuore, per compassione del detto amante. E fatto questo, el detto Signore Amante, partendosi con tutta la compagnia, per non volgere le spalle a detta dama, fece che sempre el cavallo andava indietro, tanto che più nulla potè vedere. E partiti di quivi, andarono a rompere le lancie e armeggiare a casa le Dame di ciascuno de' suoi Compagni, cioè degli otto nominati. Dipoi tornarono tutti dalla Dama del Signore, e feciolle una mattinata co' molti suoni e gra' magnificenza: e questo si dice mattinata, perch'era presso a dì. E dipoi si partirono, e accompagnarono el Signore, cioè Bartolomeo Benci, a casa, nel modo e forma come s'erano partiti nel prencipio. E 'l detto Signore aveva ordinato molte confezioni, e e fece tutti convitare co' gra' magnificenza„. A chi poi rimanesse la curiosità (mi sia permesso, gentili ascoltatrici, supporla), se a que' nove armeggiamenti sotto le finestre delle nove case abitate dalle nove dame, corrisposero a suo tempo nove bei matrimoni, rispondo: che quanto ad alcuna delle amorose coppie, no certo, per la ragione molto stringente che il cavaliere aveva moglie, il che fa altresì lecito ammettere che anche qualcheduna delle rispettive dame avesse, per ultimo respettivo, marito: quanto a qualche altra coppia, potrebb'anch'essere; ma a chiarirlo, bisognerebbe, come de' cavalieri, avere i nomi delle otto dame; e questi la Notizia, che vi ho riassunta, non ce li dà; quanto poi alla coppia che più forse vi preme, mi rincresce dovervi notificare, [123] che la Marietta Strozzi, nonostante tutta quella bersagliatura di razzi amorosi fra la quale le finì il carnevale del 1464, sette anni dopo andava sposa (e già aveva seguita fuor di Firenze la madre) ad un Calcagnini di Ferrara; e l'anno appresso, nel 72, l'aligero, e poi spennacchiato, capitano Bartolomeo Benci sposava la Lisabetta Tornabuoni, una sorella di quel confidente a Roma tra la Clarice Orsini e Lorenzo de' Medici.

Molte dolci memorie, del resto, dovè lasciare la bella Marietta Strozzi nella città nostra, lontano dalla quale il padre suo esule (come per lungo tempo, dopo il trionfo de' Medici, furono, di generazione in generazione, gli Strozzi) era morto di ferro, e per l'esilio di lui aveva dovuto pure starsene fuori la madre, virtuosissima e austera donna, Alessandra de' Bardi: e in questa quasi orfanezza la fanciulla si trovò forse più libera che alla condizione sua non convenisse: almeno in quell'inverno del '64, nel quale, poche sere avanti l'armeggeria, sentite quest'altra sua avventura carnevalesca, e che cosa era possibile a farsi, senza scandalo, da una giovinetta fiorentina in que' tempi. Vi traduco (liberamente anche questa volta) da una lettera, elegantemente latina, di amichevoli confidenze giovanili tra Filippo Corsini e Lorenzo de' Medici: “.... E mentre ti scrivo, la neve cuopre quasi tutta la città: tedio per molti e cagion di starsene; ma per altri cagione di darsi moto e piacere. Sappi infatti che Lottieri Neroni, Priore Pandolfini e Bartolommeo Benci (daccapo il nostro allegro Capitano). Cogliamo il destro, hanno detto, di usare qualche bel tratto. E subito, a due ore circa di notte, si son presentati alla casa della Marietta Strozzi, seguiti da una gran moltitudine accorsa da ogni dove, per fare a gettarsi la neve con lei. Gliene han data la sua porzione, e hanno incominciato. Immortali Dei, che spettacolo! e come descrivertelo, Lorenzo mio, con questa [124] debole prosa? Gran pompa d'innumerevoli fiaccole; squillar di trombe, dolcezza di flauti; pubblico appassionato e plaudente. E che trionfo, quando alcuno degli assalitori riusciva a sparger di neve il viso, come neve candido, della fanciulla! Ma che dico sparger di neve? un vero e proprio trarre al bersaglio era quello, e di tiratori valentissimi! La Marietta poi, così leggiadra e destra in quel giuoco, bella come tutti sanno, ne uscì con immenso onore. Ma i gentili giovani non si partirono da lei, che prima non le donassero molto nobilmente per loro ricordo. E così, con grande contentezza di tutti, il piacevole giuoco ebbe fine„. Un epigramma del Poliziano (l'ultimo che vi citerò da quel florilegio aneddotico del Quattrocento fiorentino che sono, più assai che le volgari, le sue Poesie greche e latine) dice così: “Neve sei, o fanciulla, e giuochi con la neve. Giuoca: ma deh, prima che la nevi s'imbratti, fa' che si sgeli„. L'erudito, che oggi legge queste complimento amoroso, ricorda i molti altri, d'antichi e d'umanisti, che sul medesimo argomento si contengono nell'Antologia latina, e l'ha per un'imitazione a freddo (è proprio il caso di dir così) dall'antichità classica. L'aneddoto che vi ho narrato mostra invece, che questa almeno fra le tante imitazioni umanistiche aveva riscontro nel vero attuale; ossia, che quel bizzarro costume era spontaneamente rifiorito, come anche altre parti della vita antica, nell'allegra democrazia del Rinascimento: finchè la inamidata prammatica delle Corti, la Riforma protestante correggitrice e il conseguente reattivo disciplinamento della morale cattolica, più tardi infine la filosofia civile e la rivoluzione bandita e guerreggiata in nome di principii universali, non ebber mutata la faccia del mondo.

Ma finchè quelle gazzarre, quelle feste davvero popolari, que' fantastici apparati, que' simboli abbaglianti, ebber vita, nè corteo di spose, nè armeggiamento per dame, [125] nè giostra di amorosi cavalieri, ebbe mai tanta cittadina solennità, quanto uno sposalizio, ben diverso da tutti gli altri dall'ora e di poi: lo sposalizio dell'abbadessa di San Pier Maggiore; sposalizio che si ripetè tante volte (salve eccezioni) quanti Vescovi ebbe per secoli parecchi la Firenze e del Medioevo e del Rinascimento ed anche del Principato Mediceo, poichè lo sposo della badessa era (honni soit qui mal y pense) messere lo Vescovo.

Quella chiesa e monastero di San Pier Maggiore, che furono delle maggiori antichità sacre di Firenze, se, come pare, nella lor forma primitiva risalivano al secolo quarto; che detter nome a una porta e a un sestiere della città, abitato e maledetto da Dante, non sono più. Si restauravano nel secolo XI, e si afforzavano con addossarli alle mura del secondo cerchio: si abbelliva la chiesa, a mezzo il secolo XIV: si sconciava, come tante altre, mediante le cappelle patrizie a marmi e stucchi di tutti i colori, nei secoli del barocco. E tutto oggi è sparito. E il tempo, che “traveste l'uomo e le sue tombe„, a mala pena ha rispettato nell'Arco di San Piero (salvo i possibili attentati onomastici dei moderni edili) il nome del titolare. Quali rovine, quali ossa, calpestiamo noi, passando da quell'arco! Delle nostre conoscenze d'oggi, le due belle Albizzi si sono fatte polvere colaggiù sotto: e si addormentò in pace con esse la monacella grecista, la quale, se morendo ancor ella giovine, non ebbe tempo di maturarsi, arcigna e rugosa superiora, per quelle nozze episcopali, potè bensì esercitare la sua mondana erudizione, ahimè non più sulle immortali pagine d'Omero e di Sofocle, ma sul grosso notarile latino degli autentici privilegi di coteste mistiche nozze, che risalivano (dicono que' notari) “a tanto tempo quanto è di là da memoria d'uomini„. L'ingresso del novello sposo della Chiesa fiorentina si faceva ritualmente dalla porta di San Pier Gattolini, oggi Romana: due famiglie, [126] di grandi e tradizionali attinenze (da Dante proverbiate) con la mensa vescovile, avevano, i Tosinghi e i Visdomini, il privilegio di riceverlo e accompagnarlo sino al monastero, dove, simbolo della Chiesa fiorentina lo attendeva la badessa. Si celebravano nella chiesa le nozze, inanellando il Vescovo la sposa con un ricchissimo anello, e questa offrendogli in dono un letto suntuosamente montato nella camera stessa di lei, che per quel giorno, durante intere ventiquattr'ore, uscendone lei, diveniva la camera del Vescovo novello, sin che, la mattina appresso, i soliti Visdomini e Tosinghi gli venivano incontro col clero, e lo conducevano in Domo e lo insediavano. Tutta Firenze accorreva a quelle nozze. Oltre le due ricordate famiglie, altre ancora, e delle principalissime, Albizzi, Pazzi, Strozzi, rivestite di privilegi e diritti di questa o quella parte del cerimoniale, avevano quasi a ogni Sposalizio occasione di contestazioni, di proteste e di gare. Alla badessa rimaneva il cavallo col quale era venuto il Vescovo: agli Strozzi, con gran trionfo di tutto il parentado, la sella. La Chiesa fiorentina aveva avuto il suo pontefice, e la città una festa di più; nella quale era toccata la sua parte, e che parte essenziale!, alla donna.

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