V.

Ma traverso a tutte quelle ideali trasformazioni che l'arte le apponeva, e a questa vissuta poesia di festeggiamenti e di pompe, quale fu poi nel segreto della vita reale, fra le pareti domestiche, figliuola e sorella, moglie e madre, quale, nella Firenze di quell'età, fu la donna? Scoperchiare i tetti delle case, e sorprendere senz'essere introdotti la gente che attende tranquillamente a' fatti suoi, e peggio poi le signore, si è creduto, fino a pochi anni fa, un privilegio di quel personaggio che sapete, le [127] Diable boiteux, sollevato da Renato Le Sage alla cattedra d'uno de' più grandi e maligni professori di filosofia morale che il mondo abbia avuto. Fino a pochi anni fa, quando a me, sfogliando con paziente amore le carte dei Medici avanti il Principato, occorse di scoprire un'anticipazione del Diavolo Zoppo di Le Sage nella persona d'un cortigiano de' più cari a Lorenzo e a' figliuoli suoi, e che con uno di questi, divenuto papa Leone X, finì cardinale di Santa Chiesa: l'autore della Calandra, il Bibbiena; che in un Prologo a cotesta sua famosa commedia, rimasto inedito anzi fra le cancellature del primo getto, immagina di fare un giro da camera a camera femminili, invisibile per forza d'incanto, e mette al nudo una serie di scenette bizzarre che accadono in questa o in quella, sul punto del recarsi le donne a una veglia che si fa quella sera in Firenze. Rassicuratevi: io non voglio entrar terzo fra il giulivo Cardinale e il diavolo; se già non vi pare che sia ormai posto preso da messer Guido Biagi, quando l'altro giorno v'introdusse con sì garbata erudizione, e così intimamente, nelle segrete cose della vita privata de' nostri vecchi.

E qui cade un'avvertenza e una dichiarazione. Quel tanto che la novella e la commedia fiorentina del Quattrocento e (molto più largamente) del Cinquecento potrebber dare al ritratto della donna, io credo contenga troppa meschianza o di classico, o di boccaccevole, o di idealmente satirico: nè ebbe quell'età, come nel Sacchetti ebbero il Due e il Trecento da Giano ai Ciompi, un novelliere storico. Io non so in verità, quanto a buon dritto si possano accettare anche solo come tipi della famiglia in un dato momento della storia di Firenze i personaggi della Mandragora; ma è poi certissimo che la [128] buona Marietta Corsini moglie di Niccolò Machiavelli nulla ebbe, povera donna, di simile con quella alla quale egli, nel suo Belfagor, fa sposare il diavolo, e poi ridurlo a tale disperazione, ch'e' se ne torna a rotta di collo all'inferno.

E una leggenda di amor coniugale e materno, delle più poetiche e commoventi, parrebbe, se non fosse dramma pur troppo vero e dramma sanguinoso, il fatto di Annalena, che lo stesso grande istorico consacrò alla memoria de' posteri con parole di somma reverenza. Giunge un messo alle case di Annalena Malatesta, oltrarno, là dove il popolo memore dice ancora “da Annalena„, e le annunzia “Madonna, il marito vostro messer Baldaccio, l'hanno morto a ghiado nel Palagio de' Signori, e precipitato dalla finestra, e mozzagli la testa come a traditore e malfattore„. Ed ella, che al venturiero d'Anghiari, valoroso e brutale come condottiero ch'egli è, ha dato, sposa poco più che dodicenne, il cuore e la fede, e piegata sul suo petto di ferro l'alterezza gentilizia del sangue che le scende nelle vene da Paolo Malatesta, il cognato a cui la poesia di Dante fa eterni l'amore e la pena, il bacio colpevole e l'amplesso infernale; essa, l'Annalena, che da quel Baldaccio è già madre d'un bambinello, corre, povera donna, a' Signori, al magistrato crudele che l'ha vedovata, e per quella creatura innocente riesce a salvare, col pianto, da confisca i suoi beni. Poi quel figliuolo, il suo Guidantonio, nel quale tutta la vita della madre fanciulla si era raccolta, le muore; ed ella, ancor giovanissima, si trova sola, e già vissuta, nel mondo. E allora Annalena, fatta donna dal dolore, di quella sua casa in lutto fa chiostro, in quelle mura chiude per sempre e consacra il breve romanzo della sua giovinezza, le sue nozze e la sua maternità, le amorose imagini e le micidiali, i ricordi d'una culla e di due bare; nelle stanze stesse dove fu madre, ritorna vergine [129] a Dio, e madre di vergini invecchia soavemente. Affettuosa madre, e compassionevole agli splendori e alle lusinghe del mondo; se uno degli umanisti celebratori di Albiera, proprio a lei, ad Annalena ormai quasi cinquantenne, rivolgeva una di quelle elegie latine, e le chiedeva la preghiera sua e delle sue monacelle per la morta degli Albizzi, “per la giovinetta„, le dice “che tu hai amato come una tenera madre ama l'unico suo„: parole non so dire se pietose o crudeli, che il latinista forse scandiva senza pensarci su, ma che dal cuore della vecchia monaca avran fatte risalire agli occhi le lacrime della giovine madre. Il monastero d'Annalena, la quale morendo a sessantaquattr'anni lo raccomandava a Lorenzo de' Medici, fu sin da' suoi principii tutto cosa della potente famiglia: e nelle stanze abitate già dalla fondatrice, dalla vedova del condottiero, ebbe asilo e salvezza, ne' tempi grossi pel nome mediceo, un fanciullo che doveva essere il principe di quelli armigeri, Giovanni delle Bande Nere.

Ma se cerchiamo la donna, a cui la sventura non invidia nè rapisce la famiglia, la donna che della famiglia è ornamento e conforto, esempio e ispirazione, forza e provvidenza, la donna di casa, la moglie e la madre; alla storia di lei danno tipi ideali, però in necessaria relazione con la realtà, come pel medioevo più alto i libri di “reggimento o costume o castigamento„ femminili, così per questo secolo XV i trattati di Governo della famiglia: o con intendimento piuttosto civile e secolare, quale è nel libro che si abbellisce de' nomi di Agnolo Pandolfini e di Leon Battista Alberti, e in quella parte che è didattica delle care pagine di Vespasiano cartolaio; o con prevalenza del sentimento religioso, siccome nella Cura familiare del beato Giovanni Dominici, diretta a una valente gentildonna Bartolommea degli Alberti. Quel tipo ideale, o, diciam meglio, tradizionale [130] e derivato dalle memorie delle “buone e care„, delle “care compiute et oneste„ donne, che tanta fragranza di gentili virtù spargono nelle Cronache domestiche del Trecento, Vespasiano lo effigiò, e anche con un po' di retorica a suo modo lo colorì tra le figure illustri dell'età sua, in Alessandra de' Bardi, la moglie di Lorenzo di messer Palla Strozzi, e madre della vispa Marietta. L'Alessandra è ritratta da Vespasiano “bellissima e venustissima del corpo quanto gnuna n'avesse la città di Firenze„; vantaggiata di statura tanto, da fare a meno delle “pianelle„, supplemento prezioso, pare, per altre fanciulle men favorite di proporzioni: educata dalla madre sua “con ogni diligenzia„ (maggiore, forse è da credere, che l'esilio del marito e le altre vicende della famiglia non consentissero poi a lei nell'educazione di quella sua figliuola): dall'“amare e temere Iddio indótta a uno moralissimo vivere„: avvezza a “mai perdere tempo che ella non fosse occupata„, a “mai colle serve di casa non parlare, se non in presenza della madre„; e “la prima a levarsi la mattina in casa esser lei„: ammaestrata in “tutte le cose s'appartengono sapere a una donna, ch'abbia aver cura di famiglia; e massime a lavorare d'ogni cosa, e di seta e d'altro, come s'appartiene alle donne„, e “imparare tutto quello che, bisognando, potesse viverne„, e a “saper fare ogni cosa e sapere insegnare„, dal leggere sino a “ogni minima cosa„ attinente alle faccende domestiche. “Rarissime volte era mai veduta all'uscio o a finestra„, (ah Marietta!) “sì perchè non se ne dilettava, e perchè occupava il tempo in cose laudabili. Menavala la madre il più dei dì la mattina a una grandissima ora, a udire la messa, tutte col capo coperto, e col viso ch'appena si vedevano„. Ma questa stessa, che comincia forse quasi a parervi una monachina di casa, fatta poi sposa, e venendo a Firenze [131] un'ambasciata imperiale, sentite se sapeva, come le faccende femminili, altrettanto far bene gli onori, non pur della casa, ma della città, e d'una città che si chiamava Firenze, la quale “in questo tempo„ dice il buon Vespasiano “era abbondante e di virtù e di ricchezze, e la fama sua era per tutto il mondo„; città che “a quelli ambasciadori parve un altro mondo, rispetto alla grande quantità di uomini nobili e degni v'erano in quel tempo, e non meno donne bellissime del corpo e non meno della mente; perchè, sia detto con pace di tutte le donne e terre d'Italia, Firenze in quel tempo aveva le più belle e le più oneste donne fussino in Italia, e di loro per tutto il mondo n'era tal fama„. E descrive un ballo che a quei gentiluomini dell'Imperatore fu offerto dalla Signoria, in Piazza, sopra un palco dal lato del Palazzo verso Condotta, con grande apparato di spalliere, e pancali, e arazzi, e festoni; e i primi giovani della città, vestiti tutti a un'assisa di drappi verdi ricchissimi, e calzatura di pelle sino a' fianchi; e le fanciulle e le spose, con ricche vesti accollate fregiate di perle e di gioie. Alla onoranza di ciascun ambasciatore deputate due dame: che pel primo di essi sono l'Alessandra, maritata in quello stesso anno (era il 1482, ed ella n'aveva appena diciotto), e una Francesca Serristori. Dopo il ballo, si porta in giro la colezione; ed ecco l'Alessandra servire ella stessa gli ambasciatori, “con una tovagliuola di rensa in sulla spalla.... con una ismisurata gentilezza.... facendo riverenza con inchini in fino in terra, naturali e non isforzati, che pareva non avesse fatto mai altro„. Poi, ballo di nuovo; e, infine, accompagnamento degli ambasciatori all'albergo, ciascuno d'essi dando di braccio alle due belle fiorentine, una di qua e una di là, Alessandra alla diritta: e giunti alla porta dell'albergo, “il primo ambasciatore si cavò uno bellissimo anello di dito, e donollo all'Alessandra; [132] di poi se ne cavò un altro, e donollo alla compagna„. Dopo di che, “salutati le giovani e i giovani, gli ambasciadori accompagnarono le giovani alle case loro„.

Il biografo quattrocentista, che sul declinare del secolo scriveva di questa e d'altre donne fiorentine della generazione antecedente, non finisce mai di far paragoni tra esse e le donne fiorentine del tempo suo, deplorando lo scadimento del costume e delle consuetudini più virtuose e severe. In questi lamenti, un po' di parte va fatta certamente all'abito che fu e sarà sempre di tutti i tempi, del rimpiangere, per questo o quel rispetto, il passato; un'altra poca, inoltre, alla disposizione di Vespasiano a trovar che ridire su troppe cose (figuratevi che una volta vuole e prescrive che le donne “imparino a non parlare, massime in chiesa„, egli dice; e poi, come se fosse poco, soggiunge “e in ogni altro luogo„): pur tuttavia, fatte queste eccezioni, e lasciando lo scherzo, io credo che que' suoi lamenti, specialmente quando li formula, com'è spesso, in osservazioni positive, attengano a condizioni reali; e propriamente a quella mutazione che anche nella vita domestica, di cui la donna è custode e gli atti suoi sono specchio, avevano indotto le splendidezze, a un poco per volta sempre più cortigiane, di quei Medici, la cui potenza attraeva oramai, volere o non volere, con l'interesse e la fortuna delle famiglie, anche gli affetti, le speranze, i disegni, che più disposta e inchinevole ad accogliere, in pro della famiglia, e fomentare è la donna.

“Ricòrdati che chi sta co' Medici sempre ha fatto bene, e co' Pazzi el contradio; che sempre sono disfatti„: così scriveva (e s'era solamente al 1461, diciassette anni prima della sanguinosa congiura) un'altra Alessandra pur maritata negli Strozzi, e che essa pure come la Bardi dagli esilii di quella famiglia ebbe lunghi dolori al suo cuore di moglie e di madre, ma altresì la consolazione, [133] prima che morisse, di veder restituiti alla patria, e molto per la efficace materna opera di lei, i figliuoli, e il maggior d'essi gettare alla grandezza della sua famiglia quelle fondamenta delle quali è superbo monumento il loro meraviglioso palazzo: Alessandra Macinghi negli Strozzi, alla quale un altro monumento con la pubblicazione delle sue Lettere a' figliuoli esuli, che io vorrei avere autorità di raccomandarvi e farvi care, o Signore, componeva, ne' dì nostri, Cesare Guasti, erudito e scrittore degno d'interpretare que' dolori, quelle consolazioni, quelle grandezze.

Lo avvicinarsi ai Medici anime elette come quelle della Macinghi Strozzi, matrona del cui costume e pietà avrebber potuto compiacersi la bontà di Antonino arcivescovo o la fierezza di Girolamo Savonarola (e a qualche pratica durezza piuttosto de' tempi che sua, confido che, ripensandoci, il nostro Biagi si farà più indulgente), lo avvicinarsi, dico, di tali anime e famiglie (ne cito un'altra, i Rucellai) ai Medici, mostra che l'opera di questi era stata non tanto di corruzione, quanto di acquistare potenza fra i cittadini, prendere dello stato (è la frase del Machiavelli, e del tempo) quanto a mano a mano ne veniva ad essi concesso, cosicchè la forza loro sormontasse invincibilmente su tutte le altezze, preponderasse su tutte le resistenze, schiacciasse quasi fatalmente tutto ciò che si levasse contro di loro. “Co' Medici, e non co' Pazzi!„: a quell'affettuoso ammonimento materno risponde tragicamente, a distanza d'anni, nel maggio del 78, un'altra voce di donna, anzi lo schianto d'un cuore, d'un cuore di figliuola, ne' giorni che l'uccisione di Giuliano de' Medici e le ferite di Lorenzo erano, nel sangue de' congiurati e di chiunque paresse averli comecchessia favoriti, vendicati come delitti contro la patria. [134] La figliuola d'uno di costoro, giovane sposa di vent'anni, Ginevra di Piero Vespucci (cognata della bella Simonetta; e Piero, uomo, del resto, di poco senno, era stato un tempo deditissimo a Lorenzo, e giostratore nel 64 in Santa Croce con lui, e armeggiatore col Benci sotto le finestre della Marietta), scrive, la Ginevra a Lorenzo, queste parole spezzate dal pianto: (la lettera è inedita e sfuggita alle ricerche e curiosità erudite): “Amantissimo in luogo di buon padre. La cagione di questi dolorosi versi si è perchè ieri non vi potei parlare come desideravo, per potervi pregare e ricordare l'amore e benivoglienza avete portata in questa casa, e le parole e promesse fatte a me, e l'umanità dimostrami, quando mi chiamasti sorella: e però vi priego vogliate accettare e mie' prechi, e ogni amore e promesse rivolere in questo, e avere misericordia e compassione di noi tutti. Vorrei vi fussi di piacere considerare la condizione di mio padre, e specchiarvi in me, e non considerare quello che fa in ogni suo caso, che non è solo in questo. E priegovi quanto più posso mi facciate questa grazia; e questo si è, me lo rendiate senza altro segno, e che la penitenza di questo peccato sia quella che à avuta: chè quando penso, della età ch'egli è e poco sano, come è stato buon pezo, e ora di nuovo, colla febbre, essere dove egli è, e avere e' ferri in piè; che quando ci penso, mi scoppia el cuore. Priegovi abiate pazienza se questi versi vi danno tedio, e priegovi per l'apportatore mi mandiate qualche buona risposta; però che chi misericordia fa, misericordia aspetti: e priego Idio vi metta in cuore, me lo rimandiate istasera: e se io fussi con Voi, tanto vi pregherei me lo renderesti: e ora di nuovo ò inteso à avuta della fune. Priegovi non ci vogliate fare disperare più. Ginevra isventurata.„

Invero, la vita di quelle donne, quale la rivelano e [135] l'aureo volume del Guasti (che, potendo essere a mano di tutte, io mi son proposto di lasciare pressochè intatto alla curiosità del cuor vostro, Signore e Signorine) e lo pubblicazioni che di altri documenti femminili si sono venute facendo, non solamente si vede essere tutta per la famiglia; ma che quelle poderose famiglie, Medici, Strozzi, Salviati, Rucellai, Guicciardini, Soderini, Ridolfi, debbono a coteste donne non piccola parte della forza che ebbero, a fare quello che fecero. Il Savonarola, che sulla caduta della supremazia Medicea tentò costruire saldamente l'edificio del governo popolare, sentì quanto importasse al suo intendimento avere a ciò profonde basi nella famiglia: pensò, come la prima delle sue riforme, la riforma del costume; e si rivolse alle donne. E non tanto, intendo, alle mistiche, quali erano una Visdomini, una Gianfigliazzi, una anzi due Rucellai; com'a dire le Giacobine di quello che poc'anzi ho chiamato Terrore Piagnone; giacobine, bensì, che poi finivano monache, anzi una di esse Beata. Ma alle madri proprio di famiglia, il Savonarola si rivolgeva: alle donne e a' fanciulli, che è quanto dire alle forze dell'affetto materno, si rivolgeva, come a instrumenti politici, con la fede, con cui l'avversario suo papa Borgia si appoggiava alla spada e al pugnale del suo Valentino. “O donne e fanciulli, la vostra riforma non è ancora vinta. Dite da mia parte alla Magnifica Signoria, che questa non è cosa umana, ma di Dio; e fateli questa imbasciata: che la racconcino se vi è cosa che non stia bene, e che gli diano la sua perfezione; e che se non lo faranno, e si faranno beffe delle opere di Dio o le contradieranno, che il Re gli punirà. E ditegli che non sono Signori, ma ministri del Signore e del Re nostro Cristo.... A voi, padri e madri, dico: confermate questa cosa a' vostri figliuoli, perchè non vi è dentro se non buon vivere. Altrimenti Dio ha apparecchiata la punizione a chi [136] contradirà alle cose sue. Io ve lo dico certo, e tenetelo a mente.„ Il magnanimo frate fu arso; e il profeta, smentito dai fatti: ma molta parte di quella generazione informata da lui rimase fedele a Popolo e Libertà, l'antico grido del Comune glorioso: e que' fanciulli, che ne' carnevali de' Piagnoni avean ballato intorno al Bruciamento delle vanità (cotesto bruciamento altra cosa è approvarlo, ed altra intenderlo pel suo verso), que' fanciulli, fatti uomini sostennero e combatterono, dalle mura di Firenze assediata, contro il Papa e l'Imperatore, le ultime battaglie della libertà italiana.

Un'egual gagliardia di sentimenti e di opere; un intenso sforzo di tutte le energie morali, e un cupo raccoglierle e quasi appuntarle alla vita pratica, al riuscire; durante que' trentacinqu'anni, che intercedono fra il rivolgimento popolare nel 1494 e la caduta della Repubblica nel 1530, animano del pari l'un campo e l'altro: gli eredi e rivendicatori della libertà manomessa; e gli eredi e sostenitori delle splendide ambizioni di chi la vuole ormai sopraffatta. Anche sulle manifestazioni dell'arte, e nella elaborazione del pensiero, incombe il travaglio dell'ignoto avvenire. Il giardino Mediceo di San Marco, dove il Poliziano erudiva ne' miti ellenici i pittori e gli scultori, e nella storia carlovingia Luigi Pulci, e il Ficino cercava in Platone conciliazioni feconde tra la civiltà pagana e la fede di Cristo, quel giardino è deserto. Ora è il Machiavelli che nelle conversazioni degli Orti Oricellarii idealizza le togate figure di Roma antica, e ne entusiasma i giovani che congiureranno contro i Medici, mentr'egli da quella grande nostra storia romana dedurrà dottrina di Stato, destinata a chi, in tristi tempi con tristi mezzi, sappia far trionfare, per la salvezza d'Italia, un'idea generosa. Ma i Medici, ne' quali egli vagheggia il suo principe, muoiono giovani: e sulle loro tombe Michelangiolo scolpisce il [137] Pensiero doloroso e la Notte. Ben diverso trionfo, e non generoso, alla fortuna della loro famiglia preparano, fattone strumento le Somme Chiavi, Leone X e Clemente VII: ma per tutto cotesto periodo, di resistenza e di contrasto, durante il quale difesa, ritorni, congiure, cacciate, si alternano, per poi conchiudersi in quella caduta da eroi sulla quale irraggia la sua luce il Ferruccio, la vita civile e la domestica non sono più nè possono essere il gaio vivere, a sicura letizia intonato, nel quale, da Cosimo a Lorenzo, Firenze aveva sorbito lentamente la dissuetudine dalla libertà. I carnevali del magnifico Lorenzo vecchio de' Medici, come lo chiamano i contemporanei del nipote suo Lorenzo, che col ducato d'Urbino anticipa ai Medici il titolo ond'è per coronarsi in Firenze la loro secolare cupidigia, quei carnevali non tornano più: nè valgono a rattizzarli le Compagnie del Broncone e del Diamante, nelle quali, sotto le imprese e i motti e l'auspicio di que' passati splendori, si raccoglie a darsi piacere la gioventù pallesca. I tempi non sono più quelli, nè per Firenze, nè pur troppo, dopo la calata di Carlo VIII, per tutto il resto d'Italia.

E la donna? Fedele custode delle sue tradizioni, in cotesta vita che è divenuta tutta una guerra guerreggiata di foschi interessi, essa ha vegliato e veglia agl'interessi del focolare: specialmente la madre. Quando il magnifico Lorenzo perdette la sua, “Ho perduto„ scrisse “un unico refugio di molti mia fastidii e sollevamento di molte fatiche, uno instrumento che mi levava di molte fatiche„. “Tornate a vostra madre che con tanto desiderio vi aspetta„; scriveva la Macinghi Strozzi: e ai figliuoli esuli la voce di quella valente vecchia era come la voce cara della patria, della patria che riapriva loro le braccia, per tanti anni sì crudelmente serrate. E così la Lucrezia come l'Alessandra hanno quasi con le loro proprie mani fatto i matrimoni de' loro figliuoli; sottoponendo [138] al sindacato del loro occhio materno, nelle possibili nuore, tutto, dalla persona all'animo, ai costumi, al parentado, alla dote: e fra le passate in rivista dall'Alessandra è, con non troppo favore, la bella Marietta delle armeggerie e della neve. Ora la Maria Salviati vedova del gran capitano Giovanni delle Bande Nere, attende alla futura grandezza del suo Cosimo, che a diciott'anni improvvisamente duca di Firenze, saprà, educato da quella donna di alto animo, sottomettere o schiacciare i nemici, se anche si chiamino Filippo e Piero Strozzi, deludere o respingere le pericolose ambizioni de' partigiani, se anche si chiamino Francesco Guicciardini. Al buon avviamento, prima, poi alla salvezza del suo sciagurato figliuolo Lorenzino de' Medici, si adopera inutilmente la Maria Soderini: ed essa e le figliuole bellissime, entrate negli Strozzi, la Laudomia e la Maddalena, e dagli Strozzi entrata nei Ridolfi la Maria figliuola di Filippo, il gran gentiluomo del secolo, parteciperanno, con gli accorgimenti animosi e le ispirazioni de' loro cuori di madre, di sorella, di moglie, all'affaticarsi infruttuoso, non però ingeneroso, de' fuorusciti, contro l'afforzamento del principato Mediceo. Protesterà, contro la violenza e il tradimento che lo hanno insediato, la figliuola d'uno di quei fuorusciti, Giulia di messer Salvestro Aldobrandini; che nella corte d'Urbino, richiesta da Fabrizio Maramaldo di ballare con lui, “Levatemivi dinanzi„, gli risponde “chè ammazzaste così vigliaccamente il Ferruccio„. Ma tra le vittime del novello principe cadrà una gentile di quella schiera, Luisa Strozzi; sulla cui tragedia, e su quella che pochi anni appresso involge nel mistero la morte del padre suo Filippo, aleggiano sinistramente le parole dell'ava veggente: Chi è contro a' Medici, sarà disfatto. Parole, del resto, che nella casa degli Strozzi non ha ascoltate una Medici stessa, la madre della Luisa, la Clarice moglie di Filippo e cospiratrice [139] zelante alle fortunose ambizioni di lui; anima, piuttosto che di donna, d'uomo e dei più fieri di quel fiero Cinquecento: la quale ai giovinetti bastardi, nelle cui mani, sotto i non dissimili auspicii di papa Clemente, il moto popolare del 1527 trova le redini della signoria Medicea, ha rinfacciato la passata grandezza de' suoi antenati, fondata sul favore del popolo; e in nome di questo, nel palagio de' Medici, essa una Medici autentica, ha loro additata e quasi intimata la via dell'esilio.

Forti donne, alle quali può l'uomo di cui portano il nome commettere con fede le faccende domestiche, de' figliuoli e del patrimonio, della casa e della villa; come messer Luigi Guicciardini, mentr'è fuori Commissario pe' Medici, alla sua monna Isabella, una massaia stupenda, che io mi onoro d'aver rivelata dalle sue lettere campagnuole: commettere e raccomandare la custodia del palagio, e il decoro della casata; che alle mani della moglie di Pierfrancesco Borgherini, madonna Margherita, saranno sicuri. E quando un Della Palla, incettatore per re Francesco di Francia di tesori artistici dalle case della nostra città, si presenta con mandato (pur troppo!) dei Priori alla casa di monna Margherita a mercanteggiare una sua camera, meravigliosa pe' lavori di Iacopo da Pontormo, quella davvero nobilissima gentildonna lo riceve così: “Adunque vuoi essere ardito tu Giovambattista, vilissimo rigattiere, mercantuzzo di quattro denari, di sconficcare gli ornamenti delle camere de' gentiluomini, e questa città delle sue più ricche ed onorevoli cose spogliare, come tu hai fatto e fai tuttavia per abbellirne le contrade straniere ed i nemici nostri? Io di te non mi meraviglio, uomo plebeo e nimico della tua patria; ma dei magistrati di questa città, che ti comportano queste scelerità abominevoli. Questo letto che tu vai cercando per lo tuo particolare interesse e ingordigia di danari, come che tu vada [140] il tuo mal animo con finta pietà ricoprendo„, cioè di conciliare a Firenze assediata la benevolenza del Re “è il letto delle mie nozze, per onor delle quali Salvi mio suocero fece tutto questo magnifico e regio apparato, il quale io riverisco per memoria di lui e per amore di mio marito, ed il quale io intendo col proprio sangue e con la stessa vita difendere. Esci di questa casa con questi tuoi masnadieri, Giovambattista; e va', di' a chi qua ti ha mandato comandando che queste cose si lievino dai luoghi loro, che io son quella che di qua entro non voglio che si muova alcuna cosa: e se essi, i quali credono a te uomo dappoco e vile, vogliono il re Francesco di Francia presentare, vadano e sì gli mandino, spogliandone le proprie case, gli ornamenti e letti delle camere loro. E se tu sei più tanto ardito che tu venga per ciò a questa casa, quanto rispetto si debba da' tuoi pari avere alle case de' gentiluomini, ti farò con tuo gravissimo danno conoscere„. La conversazione o, se anche vogliamo, l'amplificazione di queste generose parole di donna in una pagina del buon Vasari, mi pare debba riconciliarci alquanto con l'oratoria dei Cinquecentisti. Ma voi, quando nel Palagio del Potestà passate innanzi ad un mirabile cammino in pietra di Benedetto da Rovezzano, che da una sala appunto delle case che furono de' Borgherini colà trasferito, è ormai assicurato al patrimonio intangibile della nazione italiana, siate superbe, o gentildonne fiorentine, della vostra concittadina; e se mai occorresse, ricordatevi dell'esempio ch'ella vi ha dato.

Che se la Margherita e l'Isabella favoreggiano, e la Maria Salviati Medici rappresenta essa stessa potentemente quella parte Medicea dalla quale, almeno in quel truce epilogo delle sue ambizioni, rifuggono le simpatie di noi tutti (compreso, senza dubbio, l'apologista dotto e sagace, per la cui eloquenza ha in questa sala rivissuto [141] una genialissima ora di vita il magnifico Lorenzo) ; se la Clarice Medici Strozzi, e le gentildonne de' fuorusciti, agitano in petto, insieme con altre passioni più nobili, gl'interessi altresì e i rancori di ambizioni men della Medicea fortunate; non mancano poi alla libertà che muore, non mancano dal popolo che per lei combatte senz'altra ambizione nè amore che non sia essa stessa la libertà, le sue eroine. Eroine anonime, come le dà la plebe, generosa de' nomi non meno che del sangue (così non ne fosse prodiga anche a chi la inganna e la sfrutta!); anonime, e nella veglia del malinconico inverno de' casolari affigurate in leggenda. Tale la Lucrezia Mazzanti figlinese, che nei gorghi del suo Arno cerca scampo alle brutali violenze della soldataglia imperiale e papale: matura sposa quarantenne, ma che il popolo vuole restituita alla poesia dell'intatta giovinezza, mentre alla novella Lucrezia romana dedicano il loro latino gli ultimi umanisti del Rinascimento, che il Bruto cesaricida esalteranno in Lorenzino de' Medici. E dalle popolari memorie, nella storia del tempo raccolte, effigiò modernamente il Guerrazzi, quando ne' duri anni della servitù d'Italia volle essere l'Omero della libertà fiorentina, quella che egli denominò monna Ghita setaiuola in Borgo San Friano: “alta della persona, magra, adusta dal sole, sicchè sembrava di colore del rame; i muscoli del collo grossi e protuberanti, le vene turgide, le labbra vermiglie, e comunque tacessero, agitate; le narici ansose, gli occhi fulgidissimi, perpetuamente volgentisi da un lato all'altro; i contorni del volto squadrati, la faccia ossuta„; una Parca di Michelangiolo: la quale, vedova e povera, dà alla difesa della patria le buccole d'oro delle dónora maritali, e il figliuolo unico: “il mio Ciapo di sedici anni e otto mesi, perchè deve entrare ne' diciassette [142] come si arriva alla festa di San Zanobi„; dopo fattogli giurare sul Crocifisso il giuramento con che la Spartana consegnava al figliuolo lo scudo: O con questo, o su questo. Ultima espansione da cuore di madre popolana, dell'amor di patria nel sacrifizio della famiglia. Succederanno i tempi ne' quali il popolo italiano dovrà dimenticare d'avere una patria, cercar nelle gride (povero Renzo!) il diritto d'avere una famiglia: e agli oppressi dalla doppia tirannide, politica e sociale, non rimarrà altra voce, se non il pianto di Lucia che dice addio a' suoi monti.

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