I. GIOTTO.

Nel 1265 nasceva Dante; a pochi anni di distanza nasceva il pastore di Bondone, Giotto. Il Guerrazzi, commentando alcuni dei lavori di Giotto, con quella sua splendida ed immaginosa facondia, dice che le nostre preghiere, le preghiere degli umani, quando salgono dalla terra al cielo vanno su faticosamente e tremanti, in [271] modo che arrivano all'empireo stanche e rovinate dal lungo cammino; là sono raccolte dagli angeli della misericordia che le presentano al Signore. Egli quando le vuole esaudite abbassa il ciglio alla terra e guarda una madre; e con quello sguardo, dice il Guerrazzi, infonde tale una virtù nell'alvo materno che cotesto felice portato ritraendo in sè parte grandissima della divinità esce a suo tempo al mondo per conforto ed onore della specie umana.

In questo modo e per questa causa nacquero Dante e Giotto. E infatti Giotto, che fu di Dante amicissimo, col quale certamente s'incontrò mentre l'uno peregrinava per le sue sventure, e l'altro peregrinava chiamato dai grandi a decorare sontuosi edifici, fu di conforto all'esule che potè rivedere l'amico pittore e parlare con lui di cose divine d'arte e di patria. Giotto, non occorre dirvelo, ha lavorato immensamente come pittore, ed ha decorato monumenti a Napoli, ha lavorato nella chiesa di Assisi, ed un gioiello ha pure lasciato nell'alta Italia, nella cappella degli Scrovegni.

Io credo che si possa dire di Giotto, che come Dante, dagli sparsi conati del volgare italiano, seppe col suo potente ingegno formulare quella cantica divina che resta come il primo, più grande e impareggiabile monumento del nostro idioma; così, tenuto conto dei tempi e delle circostanze, Giotto dalla eredità dei Bizantini, dall'eredità dei primi pittori italiani, portò l'arte a una tale perfezione che veramente si può dire ch'egli determinasse il principio del vero, del grande risorgimento italiano. Fu colto ed arguto, perchè è impossibile che un uomo di ingegno non senta il bisogno di estendere le proprie cognizioni all'infuori della tecnica del mestiere che esercita; e fino dai tempi di lui noi vediamo caratteristica principale dell'artista la universalità dell'opera sua, inquantochè se Giotto fu pittore eminente, se principalmente [272] nella pittura si esercitò il sapere suo, pur tuttavia il campanile che ammirate nella piazza del Duomo, dice quanto egli fosse un architetto valente. Ora essere un architetto valente per me vuol dire essere artista per eccellenza, imperocchè se nella fatica della specializzazione, tutte le arti hanno dovuto dividersi e suddividersi in modo che oggi si abbiano non più, come un tempo, artisti, sempre universali, i quali principalmente erano pittori, o principalmente architetti, o principalmente scultori, pur tuttavia l'arte resta sempre una cosa unica e sola, e per conseguenza ha il carattere della universalità.

Ora questo carattere di universalità sopra tutte lo ha l'architettura che è l'arte madre, l'arte che si serve dei colori dei vari materiali per ottenere i suoi effetti; e di che splendida tavolozza si giovi ce lo dice il Duomo di Firenze; essa è l'arte essenzialmente delle linee, l'arte essenzialmente delle proporzioni e del chiaroscuro. Dunque se nella pittura di Giotto si possono con poco piacere vedere gli errori che la tecnica, non ancora perfezionata, metteva nell'opera sua, nelle sue architetture perfette allora, perfette ora e perfette fino a quando resteranno in piedi, voi avete l'espressione completa, assoluta d'un ingegno che non ha rivali nel mondo. La provvisione del magistrato fiorentino che lo nomina suo architetto e lo propone alla fabbrica di Santa Maria del Fiore parla così “che in tutto l'universo, si dice, che non vi sia nessuno il quale a sufficienza sia edotto delle cose dell'arte da superare Giotto da Bondone, e per questa ragione vien creato maestro di Santa Maria del Fiore e delle fortificazioni della città....

Voi vedete che non solamente Giotto era un egregio pittore, un egregio architetto, ma era anche, per le cognizioni del tempo, un ottimo architetto di castrametazione, cioè di architettura militare. Visitando a Padova la cappella degli Scrovegni ho avuto la fortuna di vedere [273] uno dei più preziosi ricordi dell'arte sua pittorica, e in cotesto luogo, dove nella parte inferiore di questa cappella, da un lato sono dipinte a chiaroscuro le sette virtù, e dal lato opposto i sette vizi che a quelle si contrappongono, m'è parso vedere quanto, fino da quel tempo e similmente a Dante, Giotto sentisse della pura, della vera arte classica antica. La Speranza effigiata in profilo con delle ali non troppo robuste che vola verso il cielo protendendo le mani ad una corona che gli viene porta da un angioletto, ha tutto l'andamento d'un bassorilievo etrusco, di quelle figure di angioli, che pur gli Etruschi conoscevano, e che mettevano sui loro sarcofagi. La figura della Prudenza colla bocca sbarrata da una specie di lucchetto, con la mano sopra una spada che poggia con la punta in terra, vestita d'un ampio paludamento, con le pieghe mosse a modo di quelle che coprono le statue delle Vestali romane, mi ha richiamato all'idea, che come Dante aveva riconosciuto in Virgilio il maestro suo ed era risalito all'antichità classica per produrre il più classico monumento dell'età moderna, così Giotto avesse dai pochi avanzi che allora si avevano della santa antichità pagana tratto argomento a migliorare l'arte sua, per quanto cristiana, mistica e modernissima.

Giotto ebbe vita molto fortunata, imperocchè torno a ripetere quanto avvertii nell'anno passato, che le discordie intestine, laceranti in Italia le varie repubbliche, a tale che Firenze bandiva dalle proprie mura Dante Alighieri, non influivano gran cosa sull'arte. L'artista era festeggiato per tutto, e quindi, sia nell'arte della letteratura, sia nelle arti plastiche si formava quel gusto, quella parentela italiana, la quale faceva che Italia, ad onta delle sue immense e deplorabili divisioni, pur tuttavia si formasse un gusto, ed una persona propria; persona tanto grande, tanto splendida di bellezza e di gloria, che ad [274] onta dei vizî e delle sventure mai non doveva perire e ci doveva condurre come oggi siamo, a coacervare le sparse membra, e poter dire: l'Italia è una nazione ed un popolo intiero!

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