L'ARTE VENEZIANA DEL RINASCIMENTO

DI

POMPEO MOLMENTI.

Correva l'anno 1495 (perdonate, o Signori, se incomincio come usava nei vecchi romanzi storici di mezzo secolo fa), correva l'anno 1495 e Filippo de Commines, ambasciatore di Carlo VIII, entrando a Venezia, esclamava ammaliato: - la più trionfante città che io abbia mai veduta! - E, in vero, dall'aprirsi del secolo quintodecimo fino quasi alla fine del XVI, la vita di Venezia sembra un trionfo. Prorompono affetti ed entusiasmi, e tutto vive in un contrasto che pare aumenti l'energia. In questo tempo appunto, fra la metà circa del quattrocento e lo scorcio del cinquecento, nasce, cresce, matura, declina l'arte veneziana. È una vita breve, rapida, piena di agitazioni e di esultanze. La pittura, fra le lagune, sboccia a un tratto quasi senza lavoro di preparazione. Nel secolo XIV, allora che Giotto compiva le sue divine opere, in Assisi e in Padova, e fino quasi alla metà del secolo seguente, i tentativi di alcuni timidi pittori veneziani non possono chiamarsi col nome d'arte.

Ma, circa l'anno 1422, la Repubblica, volendo dipingere una sala del Palazzo Ducale, chiamava Vettor Pisanello di Verona, eminente artefice, e Gentile da Fabriano, [333] la mano del quale, al dire di Michelangelo, non facile lodatore, era gentile come il nome. Durante la loro dimora fra le lagune essi segnarono un avanzamento nell'arte, ed esercitarono una azione efficace sulle opere dei primi artefici veneziani, specie del Vivarini.

Dopo aver dipinto, in Palazzo Ducale, la battaglia navale presso Pirano, tra l'armata veneta e quella del Barbarossa, Gentile da Fabriano partiva per Roma, accompagnato da un giovane pittore veneziano, Jacopo Bellini. Della vita di Jacopo poco o nulla si sa; il Vasari si limita a dire, che, ritornato in patria, egli era nella sua professione il maggiore e più reputato.

Del resto, di quasi tutti quegli artefici, che espressero il sentire profondo della giovane arte veneziana, ci è sconosciuta la vita. Prima della gran luce di Tiziano, quei casti ingegni non viveano se non per l'arte, dimenticando ogni cosa, non d'altro desiderosi che di farsi dimenticare.

Il nome di Jacopo Bellini è menzionato più per essere stato padre di Gentile e Giovanni che per le opere sue. A torto, perchè egli veramente segna l'alba di quella pittura, che sbocciò subito dopo, tutta fiori, odori e colori. A rendere in breve tempo splendida e rigogliosa quest'arte, contribuirono l'ordinamento politico, la postura della città e l'indole degli abitanti.

L'onnipotenza dello Stato teneva unite e dirigeva le forze della nazione, e ora le spingeva a creare la libertà e ad arricchire la patria, ora, distraendole dalla politica, le rivolgeva a trasformar la città in tempio dell'arte.

E intorno a quest'arte ricorreva, come nimbo glorioso, la natura circostante, con tutto il fascino di una bellezza incomparabile. Qui pare abbia più incanti la luce del sole, più dolcezze melanconiche il tramonto. I vapori dell'aria tolgono ogni rigidezza di contorni alle cose e le immergono come in un'onda eterea; i mille strani [334] sbattimenti delle acque, i miraggi di madreperla degli orizzonti lontani, i dorsi di sabbia che s'alzano dalla laguna e rifulgono di tinte dorate, s'intrecciano in un'armonia stupenda, dove, senza eccesso e senza volgarità, l'azzurro e l'arancio si uniscono, e il violaceo si congiunge al giallo, e lo smeraldo al giacinto, e il diaspro

par che si mischi in flessuosi amori

con l'ametista.

Chi nasce in quest'aura ed abbia il senso dell'arte è naturale debba comprendere tutte le ricchezze e le gioie del colore. Venezia è veramente la reggia del colore. E per questo appunto nell'arte veneziana incontriamo pochi nomi di statuari eminenti, e anche questi architetti e decoratori, come i Delle Masegne, il Buono, il Rizzo, i Lombardo, il Vittorio, i quali tutti seppero trarre dalle due arti ornamenti svariati e leggiadri. Gli architetti violavano ogni regola, sfuggivano la simmetria, e raggiungevano l'armonia, trasportavano, negli edifizi delle lagune, la poesia fastosa dell'Oriente, emulando con le seste il pennello. E infatti le pietre, con le loro armonie di colore, servivano di tavolozza e sulle facciate dei palazzi brillavano il porfido, il serpentino, il verde antico, la breccia, il broccatello. Ecco forse perchè qui, più che altrove, tardò a comparire, sulle tavole e sulle tele, la pittura, che avea agio di manifestarsi nell'accordo dei marmi variopinti. Anche si dipingevano i prospetti. Quando il Procuratore Contarini ordinò a Giovanni Buono la facciata della casa, chiamata d'Oro, non già per aver appartenuto alla famiglia patrizia Doro, ma per le dorature di cui era adorna, fu fatto il contratto il 30 aprile 1430. Compiuta la facciata, che, nonostante le offese del tempo, ride ancora di una immortale bellezza, fu chiamato mastro Giovanni di Francia, per ornarla de pentura. Come dovea allora apparire quel gioiello della veneta [335] architettura! Maestro Giovanni s'impegnava di dorar le rose, gli stemmi, i leoni, gli archetti, il fogliame dei capitelli e i dentelli, dipingere le tresse dazuro oltremarin fin ben dopiado per muodo che i la stia benissimo. Le merlature doveano essere dipinte con biacca e venate a guisa di marmo; le fascie bizantine a tralci di vite, tinte di bianco su fondo nero, e tutte le pietre rosse e tutte le dentade rosse sia onte de oio e de vernixe con color che le para rosse.

Passando pel Canal Grande, e ammirando la Cà d'Oro e i palazzi dipinti dai migliori maestri dell'arte, poteva bene Filippo de Commynes esclamare: - C'est la plus belle rue que je croy qui soit en tout le monde. -

Dodici anni più tardi, sul Fondaco dei Tedeschi, dipingeano a fresco Tiziano e Giorgione. A Giorgione furono dati 150 ducati dell'opera sua, in cui ebbe a cooperatore, per gli ornamenti, il Morto da Feltre, il quale, secondo una leggenda, abbellita dal verso, rapì l'amante al maestro ed amico, che ne morì di dolore. Ma il Vasari attribuisce la morte di Giorgione a un male più prosaico.

Quanta forza e quanta efficacia ha sull'indole umana la qualità del luogo dove si nasce! E come le persone e le vesti dei veneziani si accordavano, in quei tempi, con la vita festante, coll'architettura fantastica, colle trasparenze opaline dell'aria, coi riflessi delle acque! Una vecchia cronaca dice che, nel 1433, a Venezia, più di seicento donne andavano fuori di casa vestite di seta, oro, joje, che è una maestà vederle. Le belle veneziane ci appaiono vestite di broccato d'oro, di velluto ricamato d'argento, di tela a fiorami dai più vaghi colori, col breve busto fregiato di gioielli e le spalle ignude, adorne di perle, di gemme, di diamanti, di monili, di oggetti d'oro e d'argento. Una Contarini, sposa a Jacopo Foscari, l'infelice figlio del Doge, avea nel corredo, tra molte vesti di seta, un abito di broccato d'oro con maniche [336] piccole: un altro in campo d'oro ricinto di cremisi con maniche aperte, foderate di vaj, con la coda di un braccio e mezzo; un terzo di panno in campo d'oro e paonazzo foderato d'ermellini: un quarto con maniche cadenti a terra, dette arlotte, d'ormesino broccato, e via via. La donna veneziana non rivive nelle pagine degli storici e dei poeti, ma palpita ancora nelle tele degli artefici come a traverso una gaia fantasmagoria di colori. La ricerca e la femminile brama di tutto ciò che splende e brilla erano portate qualche volta all'eccesso. Non bastarono alla donna le vesti a tinte audaci, ma si voleano ravvivar col belletto i pallidi colori delle guancie. E perfino, perdonate all'osservatore del passato questo strano particolare, perfino si colorivano le mammelle, che le vesti oltremodo scollacciate non lasciavano ignorar allo sguardo. Un poeta popolare del cinquecento scrive:

Fazzandose le tete rosse e bianche

E descoverte per galantaria.

E i capelli si tingevano in biondo, il colore, che, sui bei capi femminili, stacca come un'aureola dorata sul fondo dei canali oscuri, delle viuzze buie, dei bruni palazzi. Cento ricette, una più curiosa dell'altra, esistono per dare la tinta e la lucentezza dell'oro alla chioma. Vedete bizzarrie delle mode, che hanno i loro ritorni, come le civiltà di Vico! Per rasciugare i capelli tinti, le donne si esponevano al sole sopra i tetti delle case, in una specie di loggia scoperta, chiamata altana, e là sedevano vestite di tela leggera con in testa un cerchio di paglia finissima a foggia di tesa di cappello, detto solana.

Ricche e variopinte anche le vesti degli uomini. I patrizi, secondo i vari uffici e le solennità, andavan vestiti di raso, di velluto, di zendado cremesino, di broccato [337] d'oro. Nell'inverno, gli abiti, con ricami di cordoni d'oro e d'argento, si foderavano con finissime pelli di gran prezzo. Elegantissimo il costume dei Compagni della Calza, brigate di gentiluomini uniti nell'intento di dare feste, tornei, spettacoli d'ogni maniera. Si chiamavano della Calza, perchè portavano sugli stretti calzoni un'impresa a colori. I giubberelli attillati di velluto, di seta, ricamati d'oro e stretti da un cingolo, avevano le maniche tagliate per lo lungo e riunite da nastri, che lasciavano scappar fuori gli sbuffi della camicia. Le calze strette a striscie colorate longitudinali, le scarpe forate in punta, su le spalle un mantello di panno d'oro, di damasco o di velluto cremesino, con un cappuccio sulla cui fodera era ricamata l'impresa della Compagnia. Di sotto a un berretto nero o rosso, ornato in punta da un gioiello e pendente sull'orecchio, scappava la chioma, allacciata da una fettuccia di seta.

Nelle feste religiose e civili, nelle incoronazioni dei dogi e delle dogaresse, nei ricevimenti di re e di principi, nel commemorar vittorie, nelle nozze, perfino nei funerali, sempre e dovunque il trionfo del colore, un poema di magnificenze.

Nei palazzi, i ricevimenti, i banchetti, gl'inviti, i festini doveano sembrare mirabili fantasmagorie. La luce dei doppieri faceva scintillare le pareti ricoperte d'oro, d'arazzi, di specchi di Murano, i velluti e le sete d'ogni colore, le splendide gemme. La magnificenza patrizia scendeva dai palazzi alle vie, dove la città s'agitava felice, gioiosa di contemplarsi ed ammirarsi. Sulla piazza e sulle strade passavano le gentildonne colle vesti più magnifiche del mondo; i patrizi nelle loro splendide toghe come, osserva un viaggiatore tedesco del quattrocento, se fossero tanti vescovi; i levantini dalle fogge variopinte e bizzarre.

Un altro viaggiatore, il milanese Casola, che, nel 1494, [338] fu presente alla processione del Corpus Domini, sulla piazza di San Marco, non trova parole per descrivere i gentiluomini vestiti di aurei drappi e di velluti, la ricchezza degli addobbi, la profusione dei fiori, la quantità dei ceri, la varietà dei colori. Gl'ingressi dei Procuratori, dei Patriarchi, dei Cancellieri Grandi, ecc., parevano trionfi. E trionfi si chiamarono le incoronazioni dei Dogi e delle Dogaresse - affascinanti splendori di tinte.

Meglio conveniva la pompa al decoro dello Stato, quando si doveano ricevere re, principi, ambasciatori.

Cito così come mi vengono alla memoria le dorate visioni.

Nel 1521, il principe di San Severino era festeggiato in casa del patrizio Veniero dai Compagni della Calza. L'atrio, le stanze, il portico del palazzo tappezzati di quadri e d'arazzi: un prezioso panno d'oro era steso nel luogo dove il principe sedeva. Sovra una credenza erano esposte argenterie pel valore di 5000 ducati. Furono invitate quante fra le più belle patrizie erano allora in Venezia, tutte in abito d'oro listato in seta. Il principe, bello, grazioso e facile ad innamorarsi, osserva il Sanudo, ballò fino ad ora tarda. Poi le musiche e i buffoni, abbigliati nelle più strane fogge, annunciarono l'ora della cena suntuosissima.

Nel banchetto per le nozze del principe di Mantova (1581), dopo la rappresentazione di una commedia, fu aperta una bellissima sala, dove sotto un baldacchino sedettero i principi, i duchi e i cardinali. Cento gentildonne, riccamente abbigliate, erano assise intorno a una mensa, risplendente di vetri di Murano.

L'entrata di Enrico III fu celebrata da storici, da poeti e da pittori. Riccamente fantastici furono, in tale occasione, gli spettacoli: gite, baldorie, banchetti, luminarie, regate. I giovani patrizi, al servizio del monarca, erano vestiti con zimarre di seta, e di seta ranciata la guardia [339] di onore di sessanta alabardieri, armati di azze. Il re, accompagnato dal doge, fu condotto, fra salve di artiglieria, a Venezia, sopra una galera di quattrocento rematori, seguita da grandissimo numero di galee, di brigantini, di fuste, di barche, di gondole, messe ad arazzi e panni d'oro, e velluti, e specchi ed armi. Il figlio di Caterina de' Medici fu alloggiato nel palazzo Foscari, addobbato con arazzi, panni azzurri contesti d'oro, rasi e velluti, sparsi di gigli. Poi si succedettero, come in un sogno fantastico, altre feste, tornei, processioni, trionfi, conviti, cerimonie.

E tutto intorno, cornice meravigliosa, le acque della laguna, e Venezia, mobile, varia, come donna non d'altro curante che di piacere e che non domanda se non l'omaggio reso alla bellezza. Perchè la bellezza a Venezia andava a poco a poco sostituendo l'antica energia, come la pompa andava prendendo il luogo della prosperità materiale, e il fasto chiudeva i germi della decadenza. In fatti, verso la fine del secolo XV, il movimento commerciale di Venezia s'arrestò un poco, e la scoperta dell'America e il passaggio del Capo di Buona Speranza fecero prendere altra via al traffico, in modo che al mercato di Rialto, come nota un diarista contemporaneo, il Priuli, giungevano molte galere vode senza collo di spetie, che mai più da alcuno non era stato visto. Ma Venezia non se ne accorgeva, e su quelle tristi minacce di prossimo decadimento, gettava spensieratamente come un manto d'oro di pompe, di feste, di arte. Di arte specialmente, degli allettamenti il supremo.

Cresce l'artefice nella esuberanza della vita veneziana, e in quel meraviglioso movimento l'ingegno si espande, si afforza, si accende.

La pittura, dopo il vigoroso impulso dato da Jacopo Bellini e dai Vivarini, apre il suo libro d'oro a nomi d'artefici immortali. Fra i primi: i due figliuoli di Jacopo [340] Bellini, Giovanni e Gentile, Vettor Carpaccio e Cima da Conegliano. Le glorie di quella federazione di mercanti, di marinai, di operai, hanno come la consecrazione nell'arte, fresca della prima vita. Non più le rigide forme artistiche venute da Bisanzio, ma il moto e il calore, l'impronta del tempo e del luogo, l'eco dei trionfi guerreschi, delle incoronazioni di dogi, dell'arsenale fragoroso d'opere. La grandezza politica e guerresca di Venezia è recente e l'arte ne raccoglie l'immagine con vivacità. Ma la vivacità e la gioia sono come velate da un intimo senso di soave dolcezza, che accresce le attrattive. È un soffio dell'arte ingenua e pura del trecento. A noi qui importa poco saper se gli artefici trecentisti fossero più o meno religiosi o virtuosi di quelli che li seguirono, nè a noi preme indagare se le figure stecchite dei santi esprimano fervide preghiere, prelibamenti di beatitudini celesti, ma quelle opere primitive, offese da sante ignoranze, hanno i fascini, che inspira sempre l'infanzia. Hanno un'attrattiva particolare quelle ingenuità, che ci fanno rivedere i pittori dipingere col pennello sottile acuto di setole liquide e sottili, che entravano su per un bocciuolo di penna d'oca, come insegnava il buon Cennino Cennini di Colle di Val d'Elsa. E poi i secoli ammorbidiscono i contorni delle cose, li fanno vedere come a traverso una leggera nebbia di poesia. Il tempo fa acquistare a ciò che trova quel colore d'antichità veneranda, che i pittori chiamano pattina, e gli Attici negli scritti chiamavano πῖνον. Così il corso dei secoli ha involto in un'aura di misteriosa religiosità certe vecchie cattedrali gotiche, bianche e gaie, simili ad immensi oggetti d'orificeria, al tempo della loro gioventù, e che ora parlano colla melanconia delle memorie, coi marmi tinti sapientemente dal tempo, colla austera maestà delle rovine. Per tal modo, l'arte del quattrocento, non essendosi potuta impadronire di [341] tutti i mezzi tecnici, conserva ancora la soave imperizia del trecento. La timidezza in arte è sinonimo di sincerità. E quegli artefici sono timidi e sinceri: qualche volta poveri di bellezza esteriore, ma ricchi di sentimento. Nella purezza immacolata delle vergini, nella serenità cogitabonda dei santi, nella gioia calma degli angeli, in ogni espressione sempre vaga e melanconica, essi, gl'ingenui quattrocentisti, si proponevano, forse inconsapevolmente, dei problemi, che affaticano gli uomini del nostro tempo e non ancora hanno trovato una soluzione. Ecco perchè noi sentiamo fiorirci nell'animo come un vivo desiderio di quell'arte tenue e semplice, ecco perchè noi, meglio che i nostri padri, comprendiamo quei solitari ricercatori, che furono travolti nello strepito allegro dell'arte che li seguì.

E certamente ai due Bellini, al Carpaccio, al Cima dovè sembrare un libertinaggio pittorico la nuova maniera di Tiziano. Così Venezia, dinanzi alle bellezze femminili di Tiziano e di Paolo, dimenticò la maniera di Gian Bellino e degli altri pittori di quel tempo, maniera che il Vasari chiama secca, cruda, stentata. Ma la critica moderna, più imparziale e più larga, studia con amore quella maniera secca e cruda dei primitivi maestri veneziani, i quali risentirono l'influsso della scuola toscana e l'azione del casto genio nordico. Quel non so che esuberante e festivo dell'indole veneziana, fu come tenuto in freno dalla purezza dei Toscani e dalla temperanza dei maestri del settentrione.

A poco a poco questa sincerità e questa ingenuità dell'arte vanno dileguandosi. Le idee, il gusto si trasformano, i costumi si addolciscono sempre più.

Nell'arte il fiore s'è svolto in frutto. Non più impedimenti tecnici - la mano ubbidisce a tutto ciò che vuole l'intelletto, per dirla con Michelangelo. Alla morbidezza, alla grazia, all'eleganza succedono l'allegrezza, la giocondità, [342] l'esultanza. Dagli altari le vergini dolci cominciano a sorridere mondanamente, e sulle labbra, un dì socchiuse alla preghiera, freme come il desiderio di un bacio. Sulle tele, nei marmi il culto della forma; alla pittura sobria, delicata, succedono le luminose malìe della tavolozza, il fulgore impareggiabile delle tinte, lo splendore che accarezza e ammalia l'occhio, ma non penetra fino all'animo.

Sono arti grandi tutte e due, ma una ti parla al senso, l'altra all'animo, l'una t'innamora della forma, l'altra ti investiga lo spirito.

Giorgio Barbarella, detto il Giorgione, stacca, per dirla con un critico straniero, la pittura dell'ancoraggio del Medio Evo per slanciarla sulle onde del Rinascimento, di quel Rinascimento che la critica dell'avvenire, sgombra dai pregiudizi di cattedra e di accademia, mostrerà quanto di originalità abbia tolto all'arte e alla letteratura italiana. Egli esce dall'antica timidezza e lascia spaziare il genio a sua voglia, moderando però gli arbitrii della fantasia con severe cognizioni. Ei modella, tra mille blandimenti, i corpi femminili, cui infonde una specie di tôno aureo diffuso, e le carni del color dell'ambra, staccano, fra armoniose trasparenze, sul fondo del paesaggio dipinto con un senso della natura, tutto moderno. I declivi corrono ricchi di messi alla pianura, velata da vapori lievi; nulla d'arido nel suolo, nulla di triste nel cielo. Egli tramuta in realtà l'ideale della madre di Dio, ma sulla fronte delle sue madonne, mondanamente formose, sfuma ancora l'ombra di una santa dolcezza. Giorgione segna il punto di transazione fra la leggenda cristiana e i miti dell'antichità. Prima di Giorgione prevale il sentimento cristiano, congiunto allo studio della natura, dopo di lui predomina l'imitazione dell'antico. I quattrocentisti s'erano assimilato lo spirito classico, pur rimanendo cristiani nel fondo dell'anima; i cinquecentisti non mirarono [343] se non a dar forme nuove ai miti pagani: il passato ringiovanisce in nuovi spiriti.

Tiziano, Paolo Veronese e il Tintoretto, compiono il veneto rinascimento. Tiziano è grande come un genio, splendido come un re. Non mai la pittura fu come in lui forte e ricca. Ma bandite le sottigliezze del pensiero e del sentimento, le intime emozioni, in lui non vibra se non l'appassionato amore della bellezza. Tutto ciò che si move nel cuore, tutto ciò che si agita nella mente, come un problema doloroso, non lo arresta, pago di rappresentare la vita del senso, dominatrice di quella dell'anima.

Egli ha la tranquillità della forza; spirito che non si ascolta e non s'interroga, e accetta la vita com'è, senza indagarne i misteri. I suoi ritratti meravigliosi, riproducono in modo inarrivabile l'indole del modello, non già perchè l'artefice studiasse il pensiero che passava sulla fronte o lampeggiava nell'occhio, ma perchè il pittore riproduceva, con una abilità non raggiunta più mai, ogni accidente del reale, senza cercare più in là.

I biografi del Tiziano narrano che l'imperatore Carlo V, in uno dei suoi giorni di suprema tristezza, volle consultare Tiziano per la composizione di un dipinto, nel quale fossero rappresentate e la lotta religiosa di quel tempo e il suo stesso desiderio di riposo. Alla sua richiesta, il maestro rispose, proponendo di rappresentare la radiante corte del cielo, presieduta dalle tre persone della Trinità, con tutto il seguito di patriarchi, profeti, evangelisti, e la Vergine Maria in atto d'intercedere presso il figlio, inginocchiata fra le nubi ed attorniata da angeli, per i peccati della reale famiglia. Ma il quadro non fu mai eseguito, e il pittore tradì la sua libera natura solo con la parola.

E, nel regno della passione e del sentimento, neppure il Veronese esercita alcun impero. Egli è il lirico della [344] pompa lussuriosa, l'interprete della bellezza irriflessiva, il glorificatore del colore e della luce, il mago di un'arte che esprimeva la ricchezza, la gloria, la potenza: la ricchezza con tutte le sue magnificenze e tutte le sue pompe, la potenza con tutte le sue energie e i suoi ardimenti, la gloria con tutte le sue effervescenze e i suoi entusiasmi. Sulle sue tele i colori ardono, divampano, guizzano, sfavillano, abbagliando il riguardante,

sì come il sol che si cela egli stesso

per troppa luce....

Solo a traverso la fantasia del Tintoretto passa qualche concetto profondamente triste, ma anch'egli è poi attratto dalle fulve bellezze veneziane, anche per lui il pensiero, il sentimento, la commozione si trasformano in una grazia plastica, in una eleganza materiale. E dietro a Paolo, a Tiziano, al Tintoretto, altri artefici giocondi: i Palma, Lorenzo Lotto, Bonifazio, Paris Bordone, lo Schiavone, il Pordenone, il Bassano e molti ancora, che creano una folla di figure ridenti, fra le gaiezze del cinquecento.

Nella donna essi non comprendevano che la venustà corporea. Un intenso profumo di sanità e di piacere spira dalle rosee carni femminili. Nè meno affascinanti le bellissime donne imprigionate le membra opulenti dai vestiti d'oro e di broccato.

Paolo Veronese ha dipinto nel Palazzo Ducale il trionfo di Venezia, coronata dalla Gloria, celebrata dalla Fama, circondata dalla Virtù, da Cerere e da Giunone, ammirata da donne ignude e discinte. Ebbene, o Signori, quando io guardo quella fiorente bellezza, che rappresenta Venezia, il pensiero corre pei sentieri fioriti di quel secolo, e rievoca (non vi paia irriverente il raffronto) rievoca la immagine di Veronica Franco, l'Aspasia [345] veneziana, adulata dai potenti, riverita dagli uomini più illustri, amata da Enrico III, che portò con sè in Francia il ritratto della bella cortigiana, dipinto dal Tintoretto. E in vero la cortigiana diventa di questo tempo la musa dell'arte, ed ha i suoi storici, i suoi poeti, i suoi novellatori, i suoi pittori. Di tai donne a Venezia ce n'è un infinito numero, scrive il Bandello, e le chiamano con onesto vocabolo cortigiane. - Cesare Vecellio ce le descrive coi capelli arricciati, e la veste aperta sul seno, con monili d'oro e d'argento, catene d'oro, seriche vesti, cappe di velo di seta, pianelle bianche e calze ricamate. Sono molto simili alle nobili venetiane appresso coloro che non hanno la pratica della loro conditione, osserva Cesare Vecellio. Nelle loro case, splendenti di serici parati, di cuoi dorati, di arazzi, convenivano gli artisti. E, fra le congreghe liete, s'alzava molte volte acuta e squillante la risata maligna di Pietro Aretino.

Era una serenità imperturbabile, la vita non aveva per quegli uomini giocondi inquietudini e amarezze, tutto per essi era limpido e calmo. Le passioni umane, le ire, la curiosità non turbavano quelle fronti serene. Parecchi fra gli artefici, Tiziano e Paolo, ad esempio, pieni di speranze e di fantasie, venivano dal luogo natio alle lagune, ricambiando l'ospitalità cortese di Venezia, allietando la città dei più bei fiori dell'arte. Aveano amicizie di re, protezioni d'imperatori, ma non servirono mai ad altro che agli occhi delle belle donne. In amore non erano dell'avviso di Michelangelo, che cioè l'amore fosse un concetto di bellezza immaginata, ma cercavano il dolce oblìo d'ogni cura nella bellezza delle veneziane, che vivono nelle loro tele d'una vita immortale.

I problemi del mondo psichico non li tormentavano, non cercavano l'espressione intensa, ma l'atteggiamento elegante. Lasciavano libero il volo alla fantasia e si piacevano delle più strane licenze. Paolo poneva a canto il [346] Redentore figure nude e licenziose, alla Santa Cena faceva intervenire uomini d'arme tedeschi, servitori che gettavano sangue dal naso, apostoli che si stuzzicavano i denti colla forchetta. Ciò parve irriverente al Sant'Uffizio, che diede una buona ramanzina al Veronese, il quale sorridendo rispose che egli dipingeva figure e non caratteri, che i pittori possono pigliarsi quella licentia che si pigliano i poeti e i matti, e che faceva i suoi quadri senza prendere tante cose in consideration.

- Fare i quadri senza prendere tante cose in consideration - ecco tutte le loro teoriche ed ecco tutta la loro forza. La lotta artistica non deve essere di parole, non di teorie, ma di opere e di esempio, se vuole il trionfo. Comparate la fecondità di quegli artefici alla stentata opera moderna, quei quadri immensi, compiuti con inarrivabile prestezza di concetto e di eseguimento, senza sforzo (la Gloria del paradiso del Tintoretto è una tela alta metri 7,50, larga 24,60), coi nostri quadretti di pochi palmi fatti, rifatti, torturati nell'ansia della ricerca. Noi nulla soddisfa oggi, essi di tutto si appagavano allora - noi raffinati e anemici, essi pieni di vigoria e di salute - noi dissolvitori, essi creatori - noi critici, essi artisti.

Ma in tutta l'arte veneziana del Rinascimento, dai primi maestri agli ultimi lieti cinquecentisti, eccezion fatta per qualche isolata espressione religiosa, come in Giovanni Bellini, o per qualche meraviglioso ritratto di Tiziano e di Paolo, una cosa sopra le altre ci arresta, ed è l'evidenza con cui è ritratta la folla. Persino nei pittori amabilmente timidi del primo periodo dell'arte v'è un senso della decorazione, un gusto dei colori, che è come il riflesso della vita festosa. Il protagonista dei loro quadri non è mai un uomo, ma il popolo, nessuna figura attira particolarmente la nostra attenzione e l'occhio vaga soddisfatto sulla folla composta, tranquilla nei suoi movimenti, ma gaia e variopinta. Così nei quadri [347] del Carpaccio e di Gentile Bellini, protagonista è Venezia con le sue feste pubbliche, che chiede all'Oriente l'opulenza e i colori, lieta di strepiti guerreschi e di fervore operoso. Poi viene la folla romorosa e festante dei pittori successivi, nelle opere dei quali si sente ancora oggi come un'eco dell'allegria veneta, delle luminarie, delle fiere, delle giostre, delle serenate, delle regate.

A differenza degli artefici toscani, che s'arrestano particolarmente al singolo individuo, all'espressione del volto, i Veneti ritraggono con amabile e vivace superficialità la vita reale agitata e romorosa. Tale l'arte, tale la vita. Che cosa è l'uomo a Firenze? Figure energiche austere dominano la folla. Farinata, Dante, Giano della Bella, Michele di Lando. A Venezia invece l'uomo è assorbito dallo Stato. Lo Stato non permette all'iniziativa individuale di esercitarsi in tentativi isolati, lasciando a ciascuno la responsabilità della propria sorte, e quindi ogni uomo coordina la sua azione a quella degli altri. Le virtù militari e civili non fanno che accrescere la gloria dello Stato, il quale veglia geloso perchè l'uomo non acquisti troppa autorevolezza, perchè la libertà non s'infoschi intorno a un trono. Qui non avrebbero potuto fiorire le ambizioni medicee. Questa cura di tutto eguagliare, perchè nessuna autorità potesse innalzarsi, perchè nessuna potenza individuale potesse sorgere minacciosa di fronte alla repubblica, la vedete in ogni atto dello Stato veneto.

Tale la vita, tale l'arte. Gli artefici toscani, o sulla tela o nel marmo, ritraevano, ben distinti, gli uomini celebri del loro tempo, gli amici più cari, gli avversari più odiati. E con tanta diligenza ne studiavano le sembianze, da esserci tramandati perfino i nomi di taluni personaggi riprodotti sulle tele o nei marmi. Donatello dovea scolpire sul campanile del Duomo una statua di Geremia o di Salomone, e vi pose invece il ritratto di [348] Francesco Soderini. Negli affreschi della cappella Brancacci possiamo notare Masolino, Masaccio, Filippino, Botticelli e Pollaiuolo. E Luca Signorelli ritrae nei freschi del Duomo d'Orvieto sè stesso e molti amici suoi: Nicolò, Paulo e Vitellozzo Vitelli, Giovan Paolo ed Orazio Baglioni. I pittori veneti invece badavano unicamente a ciò che stava bene nel quadro, e nel quadro ritraevano coloro che avevano pittoresco il tipo e non altri. Se qualcuno volea la sua effigie tramandata ai posteri in qualche tavola di artefice insigne, bisognava ne desse commissione, come la famiglia Pesaro nella pala di Tiziano ai Frari, e i Pisani nel quadro del Veronese, rappresentante la famiglia di Dario ai piedi di Alessandro. Nelle scene dipinte dai Veneziani, l'uomo si confonde fra l'agitazione elegante della folla. Questo principio di predominio della casta sull'individuo, che formò la grandezza civile e artistica di Venezia, fu poi anche causa della sua decadenza, giacchè l'iniziativa privata, la libera spontaneità individuale e la personale responsabilità non vennero in aiuto dello Stato decadente.

E in fatti, dal chiudersi del cinquecento in poi, ruinano le sorti di Venezia, la quale scema ogni anno di tesoro e di dominio. Anche la sua arte splendida infiacchisce per ripigliare nuova forza nell'ultimo secolo della repubblica, quasi a confortare l'agonia della singolare città. L'arte del seicento offerse il passaggio dallo splendido naturalismo del cinquecento all'elegante raffinatezza del settecento. Ma già alla fine del secolo sedicesimo, nelle botteghe dei pittori, l'arte decade precipitosamente.

Il corteo mesto e rado, che, fra la desolazione della città atterrita dalla peste, segue, nel 1576, la bara di Tiziano, sembra il funerale della grande arte veneziana. L'ultimo de' suoi forti campioni, che vide spegnersi a poco a poco la gloria pittorica di Venezia fu Jacopo Tintoretto, [349] dilungato dal mondo, ridotto a perpetui ragionari con le sue idee.

Morì nel 1597. Sette anni prima gli era morta la figlia Marietta, bella, buona, giovane, celebre ormai nella pittura e nella musica. Il misero padre si vide gittato dalla corrente della sventura sulla riva, come un avanzo di naufragio. Anche i suoi maestri, i suoi compagni, i suoi amici - Tiziano, Paolo - tutti se ne erano andati alla pace, che non ha turbamenti. La sua vita s'era ridotta a un trepido silenzio; conforto unico - l'arte. E negli ultimi istanti della sua vita, certo, alla dolce immagine della sua Marietta si sarà unita la luminosa visione dell'arte, nel desiderio supremo che a quest'arte e alla patria non fossero per mancare degli altri ingegni da riempire di fantasie, degli altri cuori da movere alla passione.

FINE.

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