V.

Ma intanto le Stelle Medicee, proprio esse, lo riconducevano, non con propizio influsso, in Toscana. Non trattenuto dalla conferma a vita fattagli con abbondante stipendio dal Senato Veneto; non dalla affettuosa venerazione che in quella sua miglior patria lo circondava; non dall'amicizia di alti e liberi intelletti, il Sarpi; di nobilissime anime, Gianfrancesco Sagredo; non dall'avere Venezia e Padova dato a lui le ebbrezze dell'amore e le cure soavi della paternità; Galileo, che alienatosi dallo Studio di Pisa aveva bensì conservate co' propri Principi, e alimentate d'anno in anno nel suo recarsi a Firenze, relazioni non pur di suddito ma di scienziato, in quello stesso anno 1610 rinunziava alla cattedra padovana, e accettava da Cosimo II, recente successore di Ferdinando I, l'ufficio e il titolo di “Primario Matematico dello studio di Pisa e Primario Matematico e Filosofo del Granduca di Toscana.„ Tale era da qualche tempo (come il cuore degli uomini è a' loro danni irrequieto!) [255] la segreta ambizione del sommo filosofo: aveva preso a stancarlo la cattedra, lo allettava la Corte; e in capo a questo precoce riposo dalle fatiche dell'insegnamento, negli agi d'una condizione indipendente dal servigio pubblico, travedeva egli la comodità di attendere alle grandi opere il cui disegno gli occupava la mente, e i modi più efficaci di assicurare al suo pensiero la combattuta via della conoscenza e del consentimento fra gli uomini. Non era certamente (e come avrebbe potuto essere?) una volgare ambizione la sua: il che non toglie però che la Corte, questo barbaglio adescatore di cuori e d'ingegni, delle cui illusioni la grande e tragica vittima era stata pochi anni innanzi Torquato Tasso, la Corte, prima quella di Mantova (ed erano state pratiche vuote d'effetto), poi quella della sua Firenze, attirasse anche questa grande anima di pensatore, vincolasse a sè l'opera di questo spezzator di catene. A tali disposizioni dell'animo suo non fu certamente estraneo il pensiero di denominare dai Medici quelle stelle, che meglio avrebber portato il nome stesso del loro rivelatore: e fu certamente questo omaggio, graditissimo al giovane principe già suo alunno, che affrettò la conchiusione alla pratica del suo rimpatriare. Tornava Galileo a Firenze, lieto (sono queste le sue parole) “di non più servire al pubblico„ [256] dalla cattedra, di non dover più nel privato insegnamento “esporre le sue fatiche al prezzo arbitrario d'ogni avventore„: lieto della comodità a' propri studi, che “solo un principe assoluto poteva dargli„, e di aver così “messo il chiodo allo stato futuro della vita che gli avanzava„. “Condurrò a fine tre opere grandi che ho alle mani„ (due di queste erano certamente i Massimi Sistemi e le Nuove Scienze): “darò forma ai segreti particolari, de' quali ho tanta copia, che la sola troppa abbondanza mi nuoce ed ha sempre nociuto: conferirò a Sua Altezza tante e tali invenzioni, che forse niun altro principe ne ha delle maggiori; delle quali io non solo ne ho molte in effetto, ma posso assicurarmi di esser per trovarne molte ancora alla giornata, secondo le occasioni che si presentassero: magna longeque admirabilia apud me habeo; grandi e altamente ammirabili cose ho io presso di me....„ Ahimè, non pensava il povero grand'uomo, che diciotto anni innanzi, tanto meno glorioso, la Repubblica Veneta lo aveva ricevuto onorevolmente, senza infliggergli l'affanno di tante profferte; non gli si affacciava alla mente che quella libertà filosofica, per la quale il Keplero, facendosi incontro a' suoi timori, gli si era esibito, avrebbe all'occorrenza trovato tanto più valida e già da altri sperimentata [257] protezione nell'invisibile e paventato braccio di San Marco, che dallo scettro gemmato d'un principe. Il suo Sagredo rimpiangeva l'immensa perdita che esso e gli amici avean fatta; gli augurava felicità con parole piene, verso il nuovo padrone dell'amico, di veneta ossequente magnificenza; ma, con l'occhio proprio altresì di que clarissimi, gli rammentava “la libertà e monarchia di sè stesso„, le miserie cortigiane, e per ultimo i pericoli, diciamo con una sola parola, teologici, disegnandogli come in lontana prospettiva la sinistra figura, dal veneto orizzonte sbandita, dei Gesuiti.

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