I.

Signori! Signore!

In una calda giornata del giugno 1624, il cavalier Giambattista Marino tornava a Napoli, dove era nato nel 1569, e donde era stato lontano molti anni, dimorando molto a Roma e moltissimo in Francia. Ritornava, come suol dirsi, carico di lauri e alla guisa di un trionfatore antico. Ma la forma del suo trionfo era oltre ogni dire spettacolosa e bizzarra.

Fra tanto popolo, egli, sgraziato cavaliere, solo a cavallo. Dintorno a lui, dai lazzaroni ai gentiluomini, tutti facevano calca gridando evviva e tenendo il capo scoperto sotto quel sole cocentissimo. Avanti al corteggio era spiegata una gran bandiera su cui si leggevano in caratteri d'oro queste parole a foggia di epigrafe: Al nome del cavaliere Giovan Battista Marino, mare di incomparabile dottrina, di feconda eloquenza, di faconda erudizione, anima della poesia, spirito delle cetere, norma dei poeti, scopo delle penne, [288] materia degli inchiostri, facondissimo, fecondissimo, tesoro dei preziosi concetti, delle peregrine invenzioni, felice fenice dei letterati, miracolo degli ingegni, splendor delle Muse, decoro della letteratura, gloria di Napoli, degli oziosi cigni principe meritissimo, dell'italica musa Apollo non favoloso, dalla cui gloriosa penna il poema ritrova i proprî pregi, l'orazione i naturali colori, il vero la vera armonia, la poesia il perfetto artifizio, ammirato dai dotti, onorato dai regi, acclamato dal mondo, celebrato dalle cose. In questi pochi inchiostri, picciol tributo di povero rivolo, Donato Facciuti, meritamente dona e consacra.

L'epigrafe è un po' lunga, ma mi pare che serva a metterci, come suol dirsi, nell'ambiente. In sostanza il Marino era il più celebre poeta che vivesse allora nel mondo.

Ricordiamoci che allora viveva anche in Inghilterra un certo Guglielmo Shakespeare. Ma chi l'aveva mai sentito solamente nominare dalle nostre parti? Bisognava che trascorressero molti e molti anni perchè Shakespeare avesse almeno una sinistra reputazione, quando il signor di Voltaire lo ebbe chiamato un barbaro ubriaco.

Il Marino, ho detto, era unanimemente riconosciuto per il primo poeta del mondo. Claudio Achillini, bolognese, uno dei suoi più celebri imitatori, gli scriveva, quando era in Francia: “Nella [289] più pura parte dell'anima, mi sta viva questa opinione che voi siete il maggiore poeta tra quanti ne nascessero o fra i latini, o fra i greci, o fra i caldei, o fra gli ebrei. Questa affermazione difendo e professo colla lingua qualora ne parlo, e colla penna quando ne scrivo. Le api pandee non sanno stillare favi più dolci di quelli che si fabbricano nella vostra bocca, e la vostra fama poetica non sa volare con altre penne che colle vostre.„ E un degno collega dell'Achillini, anch'esso di Bologna, anch'esso scrittore celebratissimo, Girolamo Preti, gli scriveva: “Col vostro ingegno voi avete sorpassato tutti gli scrittori non solamente di questa, ma anche dell'età antica, i quali scrittori dell'età antica (così soglio dire sempre) se vedere potessero gli scritti del signor Marino, io mi fo a credere che gli scritti loro tanto meno piacerebbero a loro stessi, quanto più piacevano al loro secolo....„ E di questo gran concetto del Marino erano partecipi e facevano ad esso eco fedele i letterati più insigni delle altre nazioni. E mi basterà citarne uno solo, il Lopez De-Vega, il più gran poeta spagnuolo di quel secolo, il quale in frequenti passi ha del Marino lodi sperticate, che possono riassumersi in questo suo distico:

Joan Battista Marino es sol del Tasso,

Si bien che el Tasso lo servio de aurora.

[290]

E di questa fama ora dal tempo molto sfrondata, riman pure qualche cosa, o signore! Rimane non solamente nei libri delle storie letterarie, ma anche là dove il sopravvivere dell'opera sembra che sia un infallibile segno di grandezza. Girando per la vostra Toscana, forse non troverete più dei contadini che ricordino le terzine della Divina Commedia; e per la Laguna veneta i gondolieri hanno ormai dimenticate le ottave che celebrano i dolori di Erminia e gli amori di Clorinda; ma in qualunque regione d'Italia, penetrando nelle umili classi popolari e massime delle campagne, voi facilmente troverete ancora un poemetto di Giovanni Battista Marini, La strage degli Innocenti. Per tutte queste ragioni, il trattare di Giovanni Battista Marini parve conveniente a voi quando decideste i temi delle conferenze di quest'anno; ed io, onorato dell'incarico di parlarvene, cercherò di corrispondere come meglio potrò alla fiducia dimostratami, non tralasciando di ricordarvi che è un grande ausiliare di chi parla l'essere animato d'entusiasmo per il proprio argomento. Entusiasmo, ve lo confesso avanti, per il mio soggetto io proprio non ne ho! Mi sta dinanzi un clamoroso e complicato fenomeno letterario; ed io mi propongo di descriverlo in brevi tratti nelle sue origini e nelle sue fasi, lasciando naturalmente a voi il giudizio del come io l'avrò trattato.

[291]

Credo bene premettere che bisogna evitare delle confusioni molto dannose in questo argomento. Da alcuni si adoperano con molta facilità, alla rinfusa, i vocaboli seicento, seicentismo, marinismo. Il confondere i significati di questi vocaboli, è di grande ingiuria alla realtà dei fatti.

Il Seicento è ben altra cosa del seicentismo; o, se volete, il seicentismo non è che degenerazione del seicento, il quale ha lasciato le sue pagine gloriose nella storia d'Italia. Il Cinquecento instaurò nel mondo latino l'intuito, il sentimento del reale, sgombrandolo dalle nebbie del Medio Evo. Ora a questo sentimento, vivo ma sempre un po' vago e indeterminato, il Seicento fece seguire la dimostrazione sperimentale; e questo basterebbe per la gloria di un secolo. A rappresentare poi questa gloria basterà ricordare Galileo Galilei e l'Accademia del Cimento.

Anche nell'arte figurativa il Seicento ha glorie insigni. Fu esso un secolo di generosi contrasti, di sforzi erculei per rattenere nella china fatale le arti che precipitavano. E in questo contrasto le arti erano rappresentate da uomini di grande ingegno e di fortissimo sentire, come il Bernini, il Domenichino, Guido Reni ed altri. Da questo contrasto uscì fuori una nuova forma d'arte italica che intimamente corrisponde al periodo tragico; una conquista importantissima, che, nella [292] loro artistica serenità, i secoli anteriori non si erano curati di afferrare.

Rimane dunque a parlare del seicentismo letterario; e anche qui, per avere un'idea esatta, bisogna allargare i confini geografici. Non è vero che il seicentismo fosse fenomeno prettamente italiano. Tutte le nazioni ebbero in quel tempo il loro Seicento. Lo ebbero gli Spagnuoli, col nome di gongorismo; lo ebbero gl'inglesi col nome di eufuismo; lo ebbero i Francesi col nome di preziosismo. E quando, per esempio, Filarete Chasles ci dice che il cavalier Marino andò a fare scuola a Parigi chiamatovi dal maresciallo D'Ancre e protettovi da Maria de' Medici, dice una cosa grandemente inesatta. Bisognerebbe anzi invertire i termini del fatto. Fu la gran consonanza fra il gusto del Marino e i gusti prevalenti già da tempo in Francia, che determinò la chiamata del poeta e causò il suo incredibile trionfo. L'Hôtel Rambouillet era già pieno da un pezzo dei suoi preziosi e delle sue preziose; ed essi pendevano dalle labbra dell'autore dell'Adone appunto perchè nelle sue metafore e ne' suoi “concetti„ sentivano quello che era accetto al gusto loro e lusingava le loro più vive predilezioni. Potremo anzi dire di più; e cioè che il Marino stesso (e questo lo si rileva leggendo con ordine cronologico parecchi dei suoi componimenti più importanti) che il Marino [293] stesso attinse dalle preziosità francesi degli elementi nuovi che al focoso napoletano prima erano sfuggiti. È vero che il Cottin e il Voiture e il De Portes e Balzac e gli altri presero da lui senza dubbio; ma se presero dal Marino, qualche cosa anche a lui dettero; e tanto dettero che il Marino, ci ritornò di Francia non solamente come autore delle sperticate metafore e delle smisurate fantasie, ma anche come il poeta di certi vezzi e di certe raffinatezze, che hanno la loro origine nella mente e nel gusto della Francia di quel tempo; tutto un edificio letterario di pessimo gusto, che doveva poi esser assalito dall'umorismo potente di Molière e dagli anatemi del Boileau.

Questo dunque bisogna mettere in chiaro. Il seicentismo non fu un malanno esclusivo di noi altri Italiani; fu invece una specie di lebbra universale, che invase le letterature europee di quel tempo.

Quale l'origine di questo male comune? Io credo che esso debba considerarsi come una mala conseguenza dell'umanismo, pigliato, ben inteso, non nella sua pura e gagliarda essenza, ma nella sua parte caduca e facilmente degenerativa. Orazio ha detto una sentenza feconda di grandissimi significati: facile est inventis addere. Ora il dare ad un popolo una letteratura che non nasca tutta intera dalle sue viscere, che non sia tutta inspirata dalle condizioni vive e presenti [294] dell'epoca, ma che sia formata per la più parte di splendidi e seducenti ricordi, lascia nell'organismo di questo popolo delle facoltà latenti ed inerti, che poi pel vizio stesso dell'inerzia sono tratte o ad intorpidirsi o a sovvraeccitarsi. Da questo doppio difetto nacquero e la rinuncia ad ogni bella e vigorosa iniziativa e un fatuo e sregolato amore di novità. Condotti da questi due istinti viziosi, i poeti si dettero con predilezione a lavorare le materie già loro somministrate dall'antico; poi, come non si può sempre ripetere quello che è stato detto, ma bisogna qualche cosa aggiungere, divenne inevitabile che essi, aggiungendo, guastassero. Per cui a poco a poco si formò un fenomeno semplicissimo e naturalissimo; che cioè l'artista si venne a mano a mano obliando nell'opera sua, facendo a sè stesso spettacolo dilettoso del proprio artifizio. Ed una volta messo su questa strada, si lasciò andare a una specie di degenerazione inavvertita e istintiva. Aggiungete che a questa degenerazione si aggiunse lo stimolo potentissimo dell'emulazione, perchè se uno passava di una linea il giusto segno, l'altro doveva passarlo di due. Pur troppo è con l'aumento e con l'incremento materiale delle proporzioni e dei colori che l'opera d'arte riesce a richiamare l'attenzione del grosso pubblico!

Però non è da meravigliarsi se tutte le nazioni [295] moderne, le quali, per l'esempio e per l'impulso dell'Italia, hanno ricominciato a rivivere nel culto e nell'imitazione di letterature morte, hanno tutte preso la medesima china e se il seicentismo fu un guaio comune.

Credete poi che frugando un po' attentamente entro la letteratura del Medio Evo, non ritrovereste nei residui della bassa latinità, degli eccessivi e puerili artifici ricorrenti ad ogni piè sospinto? Massime gli scritti puramente mistici sono pieni di ogni fatta di manierismi; e a tradurli in italiano ci parrebbe di essere già da un pezzo in pieno Seicento. Lasciamo da parte le preziosità latine eredità dei provenzali, e certe ricercatezze a cui non seppe sfuggire nemmeno il genio austero di Dante Alighieri. Lasciamo da parte i giochetti a cui si lasciò tanto volentieri andare il Petrarca sul nome di Laura, e certi contrasti che fanno parer lui, piuttosto che il principe dei poeti amorosi italiani, l'ultimo arrivato dei trovatori provenzali. Ma fermiamoci a contemplare un aspetto solo dell'arte del dire, quello che più si presta ai ragguagli ed ai confronti istruttivi: il sentimento della natura. Voi vedete come il sentimento della natura nei nostri poeti del Trecento è, in generale, schietto ed efficace. Dante con una terzina ha la potenza di rendervi un paesaggio in termini così sobrii e insieme così rilevati che [296] la fantasia e il gusto non domandano di più. Ma come venite al quattrocento, ecco che già il manierismo comincia a far capolino. Il Poliziano, per esempio, l'adorabile nostro Poliziano, non vorremo noi dire che qualche volta si lascia andare alle vaghezze d'un artificio troppo palese?

Trema la mammoletta verginella

Con occhi bassi, onesta e vergognosa,

Ma vie più lieta, più ridente e bella

Ardisce aprire il seno al sol la rosa.

Questo di verde gemme s'incappella;

Quella si mostra allo sportel vezzosa,

L'altra che in dolce fuoco ardea pur ora,

Languida cade e il bel pratello infiora.

... L'alba nutrica d'amoroso nembo

Gialle, sanguigne e candide viole;

Descritto ha il suo dolor Giacinto in grembo;

Narciso al rio si specchia come suole;

In bianca vesta con purpureo lembo

Si gira Clizia pallidetta al sole;

Adon rinfresca a Venere il suo pianto;

Tre lingue mostra Croco, e ride Acanto.

Adorabili ottave! ma un principio artifizioso, qua e là, sarebbe impossibile dissimularlo. E quella tanto decantata ottava dell'Ariosto intorno alla rosa, chi negherà che non abbia qualche cosa di eccessivo, quando dice che a questo fiore la terra e il cielo e il sole s'inchinano? Troppo grande atteggiamento dell'Universo intorno a così piccolo oggetto!

Ebbene, a questi accenni e a questi spunti si [297] attaccarono con una specie di furia tutti gl'ingegni minori. E noi in pieno Quattrocento abbiamo un vero e proprio seicentismo, tanto che il mio maestro e amico, vanto non bugiardo dell'erudizione e della critica italiana, Alessandro d'Ancona, descrivendoci le rime del Cariteo, del Tribaldeo, dell'Alunno, di Serafino Aquilano, del Sessa, del Notturno, dell'Altissimo ed altri poeti minori di quell'epoca, non fa altro che venire su bel bello passando dai loro sonetti a quelli dell'Achillini e del Marini. Questa esposizione ci mostra che il trapasso riuscì nella storia agevolissimo; anzi parecchie volte si rimane in forse se, nel confronto, i meno seicentisti non debbono considerarsi il Marini e l'Achillini. Naturalmente poi nel suo ascendere questa artificiosità arriva ad un punto che sa di mostruoso e di grottesco. E per darvi un'idea di questa specie di vertice sciagurato a cui si potè arrivare, non faccio che prendere alcune ottave del nostro Marino attorno alla rosa e vi consiglio di ascoltarle avendo presente l'ottava dell'Ariosto.

Rosa, riso d'amor del ciel fattura,

Rosa dal sangue mio fatta vermiglia

Pregio del mondo e fregio di natura,

De la terra e del sol vergine figlia,

D'ogni ninfa e pastor delizia e cura

Onor de l'odorifera famiglia,

Tu tien d'ogni beltà le palme prime,

Sopra il volgo de' fior donna sublime.

. . . . . . . . . . . . . . . . .

[298]

Porpora dei giardin, pompa dei prati,

Gemma di primavera, occhio d'aprile.

Di te le Grazie e gli Amoretti alati

Son ghirlanda alle chiome, al sen monile.

Tu, qualor torna agli alimenti usati

Ape leggiadra o zeffiro gentile,

Dai lor da bere in tazze di rubini

Rugiadosi licori e cristallini.

. . . . . . . . . . . . . . . . .

Non superbisca ambizïoso il Sole

Di trionfar fra le minori stelle,

Che ancor tu fra i ligustri e le vïole

Scopri le pompe tue superbe e belle.

Tu sei con tue bellezze uniche e sole

Splendor di queste piagge, egli di quelle;

Egli nel cerchio suo, tu nel tuo stelo,

Tu sole in terra, egli rosa in cielo!

Vedete a che punto, salendo di grado in grado, può arrivare l'artificiosità. Un altro esempio, perchè io credo che valga meglio valersi degli esempi anzichè procedere per elaborate dimostrazioni teoriche, lo abbiamo in un altro argomento anche più attraente, molto trattato dalla letteratura italiana: il bacio.

Dante Alighieri scolpì e condensò tutta la poesia del bacio con un verso solo:

La bocca mi baciò tutto tremante.

Quante perifrasi, quanti allungamenti e aggiunte dal manierismo poetico a quel tocco rapido e potente in cui sentiamo tutte le suggestioni del dramma d'amore! Ora andate a leggere [299] (preferisco, o signore, che leggiate voi) come sottilmente teorizzi e pindarizzi sul bacio uno dei poeti più cari alla propria generazione e che mantenne fino a noi una meritata fama, voglio dire G. B. Guarini, Fautore del Pastor Fido, l'emulo di Torquato Tasso nella poesia nell'idillio campestre:

Quello è morto bacio a cui

La baciata beltà bacio non rende......

E tutta quella melliflua onda di baci si chiude col distico di cadenza:

E son come d'amor baci baciati,

Gl'incontri di due cori innamorati.

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