II.

Contro tutto questo esagerare e sconfinare dell'artificio in Italia, non esisteva un argine sicuro. L'umanismo per sè stesso era stato un forte coefficente di vita italiana, anzi l'aveva eretta e rialzata a più nobili ideali; ma questo accadde soltanto fino che perdurarono in Italia certe date condizioni. Ma pur troppo la vita italiana, voi lo sapete, decadde miseramente per tante cause che sarebbe fuori di luogo qui l'enumerare. La vita italiana si venne rapidamente fatturando e artificiando [300] oltre ogni dire in tutti i suoi elementi. Se voi esaminate tutti gli strati di questa vita, voi vedrete perchè la cultura dovesse diventare inevitabilmente un futile fine a sè stessa. L'Italia mancò al proprio destino, mentre altre Nazioni lo raggiungevano; e avvenne che tutte le forze residuali di questo grande organismo, invece di esercitarsi ed effondersi nel bene, si ripiegarono sopra loro stesse, e in qualche guisa scambievolmente si macerarono e si corruppero. In tutti gli strati della vita italiana, voi vedete l'artificio e la falsità. Mancò il gran tentativo del rifacimento religioso, o riuscì solamente in parte. Mancò in tutto e per tutto il nobile sforzo balenato a qualche mente generosa della ricostituzione politica; e noi rimanemmo un paese che non poteva più bastare a sè stesso, perchè non aveva più un avvenire. Ed è doloroso insieme e curioso il vedere come, più noi penetriamo nella essenza della vita italiana d'allora, più risaltano l'artificio e la corruttela che prende il posto del suo sano e spontaneo svolgimento. Bisogna rifarsi da gli usi della casa, principiando dalla cucina, dove la droga e il pigmento portano una specie di guerra micidiale agli stomachi. Certe morti celebri e poeticamente immaginate (o miseria!) non sono altro che delle morti di indigestioni. Chi oserà più scrivere romanzi e tragedie pietose sul [301] fato di Bianca Capello e di Ferdinanda de' Medici? Poi andate su su per tutte le forme esteriori della vita e sempre e da per tutto si affaccia il medesimo fenomeno sconsolante. Un povero principe di Casa d'Este voleva che i suoi figliuoli intraprendessero un viaggio per l'Italia; dovette rinunziarvi perchè non si riuscì mai a combinar bene le precedenze nel passo degli usi fra lui e i Principi delle altre Case d'Italia!

A questa vita affatturata, ammanierata e finta, doveva corrispondere una falsa poesia, perchè la poesia, non bisogna mai dimenticarlo, è il riflesso ingenuo, spontaneo delle condizioni morali di un popolo. Questa poesia che non aveva più grandi ideali da cantare, dovette profondere i suoi tesori di melodia e di immagini intorno alle frivolezze; e più l'argomento era frivolo e più bisognava che il tono si alzasse, e le immagini si gonfiassero, e i sentimenti fossero manifestati con goffa ostentazione. Mancato lo scopo civile e lo scopo religioso; ossia tenuti in basso luogo l'uno e l'altro; subordinati i grandi e serî uffici della vita alle pompose esteriorità, anche l'arte, anche la poesia dovevano risentirne; e a tutti gli altri ideali doveva essere preferito quello della sorpresa; e a preferenza di tutti gli altri effetti, doveva esserne ricercato uno solo, lo stupore.

La poesia del Seicento non è che una continua [302] ricerca di questo unico intento: lo stupore. Il Marino, a buon dritto, fu salutato il grande poeta dell'epoca, appunto perchè egli diede insieme la poesia e la poetica del suo tempo.

È del poeta il fin la meraviglia.

Chi non sa far stupir, vada alla striglia.

E fedele a questa sua massima, voi lo vedrete sempre tormentare ed agitare il suo ingegno di poeta nato (perchè sarebbe ingiustizia grande il negare che il Marino fosse poeta nato), lo vedrete arrovellarsi a pungere e a sovreccitare tutte le sue facoltà preziose per non raggiungere che questa esteriorità: lo stupore; per contentare sempre e solo questa facoltà di secondo ordine: lo stupore. Perchè, bisogna riconoscerlo, o signore, la meraviglia, lo stupore se non s'accompagnano ad un grande e nobile sentimento, per sè stesse hanno qualche cosa di puerile e di frivolo, e si confondono facilmente colla curiosità prevalente nelle donnicciuole e nei bambini. Si tratta insomma di una facoltà umana di second'ordine; e ben a ragione Dante ebbe a dire che lo stupore “negli alti cor tosto s'attuta.„

E per raggiungere lo stupore, quali i mezzi? I mezzi furono molti e furono molto ingegnosamente usati; ma prevalsero i così detti concetti. Che cos'è il concetto, poeticamente parlando? Ecco: una delle grandi magie della tavolozza [303] poetica è il traslato. Ma il traslato ha in sè stesso una vivacità esauriente, come quello che rampolla nella nostra fantasia momentaneamente eccitata per l'effetto di qualche oggetto esteriore o interiore che ci colpisca. Bisogna dunque che il traslato abbia come una limitazione e una ragion d'essere fuori di sè stesso. Se per il contrario noi prendiamo il traslato come punto di partenza e come fine; se moviamo da esso per procedere alla conquista d'un traslato ulteriore, si forma un soverchio, che ingombra la nostra fantasia e offende il nostro gusto. La immagine invocata opportunamente dall'artista per abbellire e dar rilievo all'oggetto si converte in una specie di miraggio perturbatore, il quale, frapponendosi fra la mente e l'oggetto, induce effetto contrario.

Permettetemi un esempio usuale. Se io di un bel praticello di aprile dico che esso è “ridente„ adopro un traslato che corrisponde perfettamente al caso mio, perchè appunto si collega con quella vivacità di emozione che la cosa ha risvegliato in me. Ma se, attaccandomi a questo traslato, ne adopro un altro e dico che i fiorellini bianchi del prato sono i denti e i fiorellini rossi sono le labbra manifestanti quel sorriso, ecco che do in una goffaggine che abbuia e distrugge l'effetto per cui ho adoprato la prima metafora.

Orbene di queste goffaggini fecero la loro delizia [304] e il loro vanto continuo i poeti seicentisti; ed a tutti loro andò di sopra per ardimento, per audacia, per maliziosa abilità tecnica Giovan Battista Marini.

Alle volte si tratta di semplici allitterazioni, di puerili giuochi di parole:

La vite, onde la vita è sostenuta,

D'ogni calamità fia calamita.

Oppure:

Se il crine è un Tago e son due soli i lumi,

Non vide mai più bel prodigio il cielo,

Bagnar coi soli ed asciugar coi fiumi.

E qui non c'è solo giuoco di parole, ma c'è appunto quella sovrapposizione e quell'amalgama di più traslati a cui accennavo più sopra, che distrugge tutta la vaghezza della prima immagine.

Ma il Marino non effuse tutta quanta la sua potenza di poeta nel giuoco lirico dei concetti. Egli ambì di trattare i diversi soggetti poetici cogli espedienti dell'arte sua, in modo da potersi cimentare coi poeti più insigni che lo avevano preceduto. E qui egli manifestò, ottenendo un infelice primato sovra i suoi contemporanei, la mancanza di ogni misura, dandoci nel modo più rilevato il secondo carattere del Seicento; voglio dire, oltre l'artificiosità, l'intemperanza.

Confuse lo sfarzo colla forza; confuse l'abbondanza tumultuaria colla ricchezza vera. Il dire [305] una cosa venti, trenta volte, parve a lui vanto migliore che il dirla una volta sola sobriamente ed efficacemente.

Non si stanca mai di amplificare, di gonfiare, di esagerare. E quando è arrivato al vertice della sua infelice piramide, come quel re Salmonèo che voleva imitare Giove, lampeggia e tuona a tutto andare. Ma se guardate bene per entro al bagliore e al fumo, troverete un concettino che mette il burlesco accanto all'elefantesco, accanto al mostruoso il puerile.

Questo il Marinismo ne' suoi punti più decisivi e più caratteristici. Riprendiamo gli esempi. A dare un'idea del grandioso i veri poeti dell'antichità ci avevano avvezzato con tocchi rapidi ed efficacissimi.

Ricordatevi Dante che ci mette davanti vivo e scolpito un gigante smisurato:

E com'albero di nave si levò;

oppure ci fa vedere la statura orrenda e gigantesca di Lucifero con due versi:

E più che ad un gigante io mi convegno

Che un gigante non fan colle sue braccia.

Il Marino si accinge ad emulare questa potenza di rappresentazione e si illude di riuscirvi, profondendo a piene mani gli epiteti più significativi pigliati alla rinfusa da tutto ciò che può associarsi [306] all'idea di grandezza smisurata. Ecco una sua descrizione a proposito d'Apollo che prostra il serpente Pitone:

Già l'ingordo Piton, che avea pur dianzi

Co' fiati ardenti e con gli acuti fischi

Secche le selve, impoveriti i prati,

Decisi i fiori e consumate l'erbe,

E con la bocca e con la lingua immonda

Distrutti i fonti ed asciugati i fiumi,

Infetta l'acqua ed infamati i lidi,

Con un bosco di strali in su la scorza

Per man del biondo Dio giacea trafitto.

E il superbo Cadavere che, ancora

l'ali e la fronte orribilmente adorno

D'aurate conche di purpuree creste

E l'aspra coda e lo scoglioso tergo

Tinta di nera e squallida verdura,

La foresta cuopria di fiera pompa,

Svolte le immense e smisurate spire

Distesi gli orbi e rallentati i nodi,

Sotto il suo vasto sen lo spaziò intero

Occupato tenea di cento campi.

Il verso di Dante ci ha dato una pittura viva; i diciannove versi del Marino ci danno una farraggine di particolari sconfinata ed inverosimile, che lascia la nostra fantasia fredda e vuota.

E questa sua emulazione nei temi ove meglio prevalsero i grandi poeti che lo avevano preceduto, è realmente un suo infelice proposito. Infatti egli non tralascia nelle lettere che scrive agli amici di vantarsi d'aver messo il piede dove [307] l'avevano messo i poeti grandi suoi predecessori, e di essersela cavata con molto onore! Per esempio, egli scrive all'Achillini che è molto contento del suo idillio L'Orfeo, e che gli pare di averlo trattato in guisa che egli non abbia a scapitare, per quanti poeti, e sono tanti e così insigni, si possano ricordare che hanno trattato il medesimo soggetto.

Alla mente qui subito si affaccia, come una ironica condanna, quel gioiello d'ispirazione e di freschezza poetica che è l'Orfeo del Poliziano. Voi ricordate certo la semplicità melodica, l'effusione passionata e schietta del lamento di Aristeo:

Udite selve mie dolci parole

Poichè la bella Ninfa udir non vuole!

La bella Ninfa sorda al mio lamento

Il suon di nostra fistola non cura;

Però si lagna il mio cornuto armento

Nè vuol bagnare il ceffo in acqua pura

Nè toccar la tenera verdura,

Tanto del suo pastor gl'incresce e duole.

Udite selve mie dolci parole

Poichè la bella Ninfa udir non vuole!

Ebbene, al Marino pareva di aver fatto qualche cosa di meglio dell'Orfeo del Poliziano! Ed io vi darò per tutto saggio dello stile alcuni versi nei quali descrive la fuga di Euridice. Euridice fugge davanti al pastore Aristeo, che ha cercato invano di espugnare il suo cuore con un interminabile e [308] stucchevolissimo lamento. La bella Ninfa per tutta risposta, si mette a fuggire e incontra la morte, perchè, come sapete, trovò per istrada il serpente che la punse e la mandò al di là delle acque di Lete dove lo sposo doveva poi andare a riconquistarla. Ecco ora come il Marino descrive la fuga di Euridice:

Facean le bionde trecce

(Amorosi trofei de' bianchi ordegni)

Lacerate, grondanti ai negri busti

De le ruvide querce aurei monili;

E volando d'intorno

A quelle belle e lucide catene

Vi restò prigionier più d'un augello....

Che ne dite, o signore, di questi capelli della Ninfa convertiti in un paretaio?

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