I CARRACCI E LA LORO SCUOLA

CONFERENZA

DI

Adolfo Venturi .

[351]

Nel secolo decimoquinto, l'arte rispecchiava la varietà dei caratteri dei comuni, delle regioni, della vita d'Italia: la gentilezza toscana e la gravità lombarda, l'umiltà umbra e la magnificenza veneziana. Ogni provincia allora tesseva ghirlande per la madre Italia; e la terra, nell'arte che la ritrasse, sembra tutta fiorita, lieta di giovani, di danze, di suoni, di amori. A questa terra il nuovo secolo, il secolo decimosesto, apparve come il sole folgoreggiante ch'esca dalle onde del mare, e salga su nel cielo senza nubi. Salutarono la novella aurora i genii, ultimi figli del secolo precedente: la salutarono Leonardo, il profeta; Michelangelo, il gigante; Giorgione, il cavaliere dei tempi nuovi. Giovinetti ancora la videro Raffaello con occhi di vita fulgidi, e Tiziano, colorandosi del suo fuoco; e le sorrise infine Correggio fanciullo. Quell'aurora prometteva [352] l'azzurro eterno; ma poi che sparvero i genii, eredi del secolo precedente, la cappa di cielo plumbea rinchiuse la terra brulla. E col disparire dei genii, venne meno la varietà dell'arte delle regioni italiche: ai caratteri si sostituirono i tipi, alla sincerità dell'ispirazione le formule. Sembra che Raffaello trionfasse in ogni luogo, nelle imitazioni di un popolo d'artisti; ma il suo spirito non era più, la soavità sua non alitava disotto la scorza di stucco degli imitatori. Sembra che Michelangelo dominasse il mondo, che al suo verbo s'inchinassero le turbe; ma non ebbero il forte respiro de' suoi atleti e la terribilità del suo pensiero le statue degli acrobati seguaci. Sembra pure che l'antichità classica donasse i suoi esemplari dissepolti dai fori e dalle terme a tutta l'arte; ma non le gittò che gli elmi, i palii, i paludamenti, le tuniche per mascherare i nuovi armigeri, i nuovi filosofanti, i colendissimi signori. E così l'arte, verso la metà del secolo decimosesto, ci appare quasi senz'anima più: cerca la grandiosità delle masse, affine di stordire con gli effetti, non avendo più forza di attrarre gli animi; sente il freddo rabbrividire le sue opere grandiose, e tenta di avvivarle col forte chiaroscuro, incamminandosi irrequieta a stravolgere, contorcere, martoriare ogni forma. Invoca il sorriso della grazia, e trova [353] la smorfia; vuole pararsi con gran magnificenza, e cade per pesantezza; si sforza a copiare l'antico, e ne fa la parodia: nelle convenzioni si offusca il vero, non brilla l'anima più, non arride l'ideale: tutta quell'arte, che non segue la natura, che sta oppressa sotto il peso delle memorie, si raggomitola, si raggrinza e raffredda, quasi le venissero meno i battiti della vita.

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Il colore non cantava più! Io penso che il sentimento del colore si modifichi secondo i differenti momenti della vita di un popolo. Quando fiorisce la primavera dell'arte, i colori si equilibrano, si baciano, si fondono nella luce, e sembrano spirare raccoglimento nei chiostri, echeggiare salmodie nelle chiese, sciogliere inni all'aria e al sole nei palazzi. In seguito, alla semplicità e alla sincerità di quelle tinte, si sostituisce di mano in mano una ricerca di impercettibili differenze di colore: violetti, azzurri smorzati e opachi, colori inusitati, cangianti; e intanto l'arte perde la vivezza de' suoi smalti, e si copre di cenere. Come in ogni stagione svolazzano farfalle di tinte speciali, così gli artisti di tempi diversi, diversamente si colorano. Gli scolari del [354] Francia bolognese, del Costa di Ferrara, di Leonardo a Milano, di Raffaello in Roma, del Perugino, già vecchio, nell'Umbria, soffiano nelle carni il fuoco di un tizzone ardente. Arrivano quindi i pittori iridati; poi sopraggiungono i pittori rosei, che stillano carmino da tutte parti. Quando i Carracci sorsero, il Barrocci ritenuto per il pittore più compito del tempo, dipingeva i piani delle figure di rosso cinabro e i mezzi piani di cobalto, in modo che le sue figure sembrano illuminate da fiamme al chiaro di luna. Proprio l'arte che si allontanava dal vero, perdeva il senso del colore, aveva ogni di più lo sguardo appannato e triste.

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Alle cause naturali di decadenza, si aggiunse una causa nuova, la Contro-riforma, che spinse indietro l'arte nel suo cammino, lontano, nel medioevo barbaro, coll'amore del simbolo, con la ripugnanza al nudo, con l'espressione viva del martirio della carne. Una pittura o una scultura non doveva essere che una pagina della bibbia, del catechismo o del panegirico d'un Santo figurata; e il nudo doveva essere soffocato sotto gli ampli drappi. Eppure, benchè si mettessero le brache alle figure del Giudizio Universale di Michelangelo, [355] benchè si coprissero di veli i Cupidi e le Veneri, l'arte non divenne pudica; anzi creò le Susanne coi Vecchioni, le figlie di Lot nel delirio bacchico, Giuseppe con la moglie di Putifarre: composizioni ripugnanti per la naturalistica brutalità. Il tormento della carne, voluto dalla Contro-riforma nelle rappresentazioni delle immagini sacre, fu sfuggito dai primitivi Cristiani, che, in vece di tristi soggetti, si compiacquero di contemplare scene di pace e di gioia, i fratelli nella fede in un'eterna oasi, ove le acque zampillavano tra i gigli, ove i pavoni, simbolo dell'immortalità, spiegavano la coda gemmata tra i frutteti. Nell'età barbariche invece, l'arte pretese di ispirare più la pietà che la fede, e si spinse addentro nella rappresentazione dei patimenti fisici del Cristo e dei Martiri. Il Rinascimento rigettò tutte quelle forme spettrali; il dramma della Passione divenne una scena di tenerezza e di amore; l'arte, rivolta alla ricerca del bello, rifuggì dall'espressione degli effetti violenti che alterano, contorcono, contraggono le linee dei volti e dei corpi. Ecco la Contro-riforma a turbare la serenità delle figure, la tranquillità del Dio martire e degli eroi del Cristianesimo! E si rivedono i Cristi lividi, insanguinati del Medioevo, i Santi martoriati crudelmente, coi ventri squarciati, boccheggianti nel sangue. Sante Peranda, [356] per dipingere un San Giovanni decollato, pregò il duca della Mirandola di lasciare troncare innanzi a lui il capo d'un condannato al patibolo; e un padre gesuita raccomandava calorosamente al Pomarance di rappresentare bene al vivo la scorticatura di San Bartolomeo, perchè attirasse a divozione i cuori. Ecco quindi rappresentati dall'arte i santi anacoreti scarni, quasi fossili; ecco le Sante nell'esaurimento nervoso e nella catalessi; ed ecco la morte arrancata sui monumenti o rattrappita sotto lo stemma dei Chigi nel pavimento della cappella di Santa Maria del Popolo in Roma, ove già Raffaello, sotto il pretesto dei segni dello Zodiaco, aveva raffigurato Giove sogguardante, dall'alto della cupola, Mercurio, Marte e la stessa Venere.

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Tali erano le condizioni generali, allorchè Ludovico Carracci e i suoi due cugini Annibale ed Agostino entrarono nel campo dell'arte a Bologna. Quivi l'arte non aveva avuto mai, neppure nei giorni felici del Rinascimento, un rigoglio conforme ad altre città italiane. Fino alla seconda metà del quattrocento, una pleiade di pittori bolognesi seguiva materialmente, come per forza d'inerzia, le forme trecentistiche; e solo il Francia, [357] alla fine del quattrocento, surse a rappresentare degnamente l'arte bolognese, come il Borgognone in Lombardia, come Lorenzo di Credi in Toscana e il Perugino nell'Umbria; ma i suoi dugento e più scolari furono quasi tutti poveri di spirito, che strapparono dalle sue forme la mitezza, il raccoglimento monacale, l'umile atteggiamento, la carità umana. Quanto il Francia era stato diligente, tanto i discepoli furono spregiatori d'ogni cura, o convenzionali come Innocenzo da Imola, o squilibrati come Amico Aspertini, che il Vasari descrive in atto di tenere con una mano il pennello del chiaro e nell'altra quello dello scuro, e con una cinta intorno intorno a cui erano attaccati “pignatti pieni di colori temperati, di modo che pareva il diavolo di San Macario con quelle sue tante ampolle.„

Bologna, come Roma, aveva ricevuto i tributi dell'arte, pochi ne aveva recati di proprii alla bellezza; Bologna nel Rinascimento può considerarsi quale un bacino, entro cui affluissero e stagnassero i rivi dell'arte di altri luoghi, di Ferrara e Firenze, di Venezia e Milano. Per la morte del Francia, agli artisti bolognesi venne meno l'esperto nocchiero, così che furono balzati qua e là come naufraghi. Alcuni si diedero a tradurre in una prosa scorretta le immagini del maestro; altri si foggiarono all'ingrosso una maniera [358] raffaellesca, specialmente sulle incisioni di Marcantonio, ed altri si misero a gonfiare i muscoli delle figure come vesciche, credendo di imitare Michelangelo. Il Manierismo produsse le cose più bislacche, corpi per aria sgambettanti, figure lunghe lunghe tagliate nel legno o coperte di piombo, drappeggiamenti che sembrano carta scompisciata, colori cangianti di camaleonti. A Bologna quindi aveva potuto metter piede il Calvaert fiammingo, presentare al pubblico que' suoi quadri con grande stridore di rosso e con lo sguaiato giallo canarino; avevano potuto salire in fama i Samacchini, i Procaccini, Bartolomeo Passerotti ed altri, che molto peccarono, molto oltraggiarono la maestà dell'arte. I Carracci si proposero di rivendicarla, di ridare all'arte derelitta la corona regale.

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Ludovico Carracci aveva visitata Venezia, e là aveva veduto, innanzi alle opere di Tiziano e del Tintoretto, il tramonto di fuoco dell'arte veneziana; a Firenze poi aveva ammirato il crepuscolo dell'arte nelle penombre di Andrea del Sarto; a Parma l'aurora boreale fiammeggiante nelle opere del Correggio e del Parmigianino; a Mantova [359] i fuochi della sera riflessi negli affreschi di Giulio Romano. Sprovvisto di naturale facilità al disegno, così che il Fontana bolognese e il Tintoretto lo dissuasero a dedicarvisi, si volse all'imitazione, vagheggiò la fusione della maniera romana con la lombarda e la veneta, di Raffaello col Correggio e con Tiziano. I suoi due cugini gli vennero in aiuto, Annibale col suo ardore, Agostino co' suoi calcoli. Ludovico però fu il più proteiforme nell'artistico triumvirato bolognese, e si studiò di far sue le forme più diverse, come si vede d'un tratto nella pinacoteca di Bologna, ove nel Cristo tra i Farisei s'ispira finanche ai tipi degli avari del fiammingo Quentin Matsys, e nel San Giovanni che predica alle turbe imita l'arte di Paolo Veronese. Mentre però la scuola di Paolo in un quadro dello stesso soggetto, similmente condotto, fa pispigliare la luce tra le fronde degli alberi, diffondersi nell'aria con onde argentine, scintillare sui manti orientali delle figure, Ludovico Carracci avvolge quasi ogni figura nell'ombra, che spegne i colori, e rende sordo quel rosso carraccesco di cinabro. La tendenza a cercare gli effetti col chiaroscuro, più che coi gradi delle tinte, rende le sue figure nerastre, con gli occhi cerchiati e talvolta cavernosi: non più raggi di sole avvolgono le Vergini del Cielo, ma chiarori di tra la nebbia o luce di luna tra i vapori acquei. [360] Quelle Vergini, ora grossolane e schematiche, ora espressive e gentili, non rendono tuttavia sì nell'uno che nell'altro modo, il tipo dell'ideale femminino idoleggiato nell'anima dell'artista, ma ricordano molto le donne degli altri. Tutta l'arte di Ludovico era presa a prestito dell'arte altrui, e dimostra come la forza creatrice della pittura italiana fosse esaurita sullo scorcio del secolo decimosesto; l'arte del passato non penetrava dagli occhi al cuore, non si mesceva nel sangue; le immagini antiche rimanevano separate, senza fondersi insieme, senza comporne di nuove: rimanevano quali saggi od esemplari, non davano vita a nuove creazioni; erano pollini di fiori non mutati dalle api industri in favi di miele. Parve comprendere Agostino Carracci, il filosofo della compagnia, che quell'accattar motivi dagli antichi pittori non fosse buon partito: “se il Correggio„ disse agli altri due, “se il Tiziano, se il Tibaldi, se Paolo Veronese sono andati contro il gusto comune, era il lor naturale, era un proprio, che in essi quanto riusciva bene, tanto in altri si dirà sempre posticcio ed imprestito.„ Eppure, crollando il capo rispondeva Annibale, “se piace tanto il Correggio, se tanto Tiziano, il nome de' quali fa contrasto a quello di Raffaello, perchè piacer non dovrem noi, che di tutti e tre la strada battiamo?„ Agostino fu vinto, e mise in [361] versi le teoriche eclettiche dei colleghi con questo sonetto in lode di Niccolò dell'Abbate:

“Chi farsi un buon pittor cerca e desia

Il disegno di Roma habbia alla mano,

La mossa, coll'ombrar veneziano,

E il degno colorir di Lombardia.

“Di Michel Angiol la terribil via,

Il vero natural di Tizïano,

Del Correggio lo stil puro e sovrano

E di un Rafel la giusta simmetria.

“Del Tibaldi il decoro, e il fondamento,

Del dotto Primaticcio l'inventare,

E un po' di gratia del Parmigianino.

“Ma senza tanti studi e tanto stento

Si ponga solo l'opre ad imitare

Che qui lasciocci il nostro Nicolino.„

Cioè Nicola dell'Abate, un altro camaleonte, che s'ispirò ai Dossi e a Giulio Romano, che andò brancicando in cerca delle forme degli altri. La ricetta era scritta; e i Carracci ne fecero uso, al dire del Bernini, come un cuoco che metta in una pentola un po' di ogni sostanza contenuta in altre pentole poste sui fornelli. Ma come la mescolanza di varii colori dà un brutto grigio, così in quell'unione delle differenti maniere artistiche; si spense la forza individuale, il carattere. Ad ogni modo, poi chè il carattere non si rilevava più nella forma, poichè la forza individuale [362] era impotente a determinarsi, i Carracci mettendo insieme cose belle, raccogliendo le reminiscenze della grand'arte fuggita, disegnando molto e con diligenza, meglio fecero che molti loro predecessori e contemporanei, che, sotto la pompa delle composizioni, nascondevano la incertezza della forma.

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Fu un nobile proposito quello dei Carracci di rinnovare l'arte, riportandola se non alle fonti, innanzi a forme assolute del bello. E Annibale, che più degli altri fu bene dotato dalla natura, si sforzò di stringere alle tradizioni antiche l'arte del suo tempo, o almeno di nasconderne l'aspetto raggrinzato ed ebete sotto una maschera lusingatrice. Annibale aveva sentito l'angelica beltà del Correggio, di quei putti della cupola di Parma che, com'egli stesso scriveva, “spirano, vivono e ridono con una gratia e verità, che bisogna con essi ridere e rallegrarsi„; a Venezia, aveva conosciuto Paolo Veronese, di cui vantò la facilità e la copia delle invenzioni; era entrato nella casa di Giacomo Bassano, ove stese, tratto in inganno, la mano ad un libro ch'era dipinto; aveva ammirato il Tintoretto, che a lui parve “ora eguale a Tiziano e ora minore... del Tintoretto.„ Tanto [363] a Parma, come a Venezia, lo raggiunse Agostino suo fratello, più intento all'incisione che alla pittura, facile a' contrasti, a sofisticare intorno a tutto, a ciarlare di politica, a dissertare di filosofia, a sciorinare le sue ricche cognizioni di letteratura, di astrologia, di medicina. “Ma venga a Parma,„ gli aveva fatto dire Annibale, “che staremo in pace, nè vi sarà che dire fra noi, che lo lascierò dire tutto quello che vole, attenderò a dipingere, e non ho paura che anch'esso non faccia il medesimo.„ Tornati a Bologna, dopo quel bagno nell'arte del Rinascimento fiorente, dopo quel bagno di sole, Agostino promosse la creazione di un'Accademia del disegno, quella dei Desiderosi, che fu il primo tipo delle Accademie delle arti belle. Si cominciarono a disegnare nasi e bocche e orecchie staccate dai volti, disgregando così, a furia di analisi, l'insieme del vero; si studiarono i canoni della bellezza sui busti e sui bassorilievi antichi, senza por mente che il fiore della bellezza spunta nel fondo dei cuori, non si ottiene soltanto coi compassi e le squadre. Non si vedeva più fiorire spontanea l'arte nelle zolle d'Italia, e si volle ottenerla artificialmente; ma nelle serre, di tra i lambicchi e i prismi, l'arte perdette la vita propria: dalle serre uscì il fiore senza profumo; dalle storte uscì l'acido carbonioso, non il cristallo di diamante; [364] nei prismi si scompose la luce dell'arte antica, invece di ricomporsi in una forma nuova, armonica, potente.

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Annibale Carracci, più degli altri due triumviri, senti il colorito e l'equilibrio delle sue figure. Nella “Visione della Vergine„ della pinacoteca di Bologna (n. 36), un fulgore argentino circonda il capo della Madonna, le cui carni sono del colore di madreperla; i paludamenti e i manti delle figure dei Santi sono a lacche rosse e verdi segnate con pennello libero e franco: le luci giallo-dorate delle vesti degli angioli ricordano subito Paolo Veronese, il prototipo di Annibale Carracci a Venezia; mentre il San Giovanni, che addita la Vergine, ricorda il Correggio, il suo prototipo a Parma. Quanto superò in questo quadro il fratello Agostino, tutto schematico e calcolatore, così che tagliava come in una palla le tonde teste delle figure della sua “Comunione di San Girolamo!„ e quanto il cugino Ludovico, che caricava troppo gli scuri, e mutava di forme ad ogni mutar di vento! Lavorarono tutti e tre nelle sale dei Signori Favi a Bologna, per colorirvi le imprese di Giasone, e nel palazzo dei Magnani, per frescarvi le istorie di Romolo. Ma [365] Annibale, sempre meno impacciato degli altri due, trovava accenti naturalistici. Mentre Ludovico era grave nel portamento, bramoso di onori e dei titoli, e Agostino trattava con poeti, novellieri e cortigiani, Annibale vestiva selvaticamente, “col collar torto„ dice un suo contemporaneo, “col cappello a quattr'acque, mantello mal rassettato, barba rabuffata.„ Annibale, noncurante di sè, perchè più assorto degli altri nelle opere, lasciò più degli altri memoria dell'arte sua, specialmente nella galleria di palazzo Farnese in Roma, il più splendido saggio decorativo del Seicento in Italia.

A Roma, quando vi giunse Annibale Carracci, si disputavano il campo della pittura Michelangelo da Caravaggio, lanzichenecco dell'arte, che si godeva tra giuocatori, bari e zingare, e il cav. Giuseppe d'Arpino, il Marino della pittura, corrotto e corruttore, falso nel disegno, nel colorito, nell'anima. Annibale Carracci gettò tra i due contendenti la formula che le meraviglie della Roma dei Cesari e della Roma di Leone X gli suggerirono: tornare all'antico! Non all'antico vagheggiato a Bologna, ma ad una sua forma più scultoria e monumentale. I resti dell'antichità classica avevano colpita la fantasia dell'artista, tanto che, avendogli Agostino vantato con gran calore il Laocoonte, e fatte le meraviglie [366] di vederlo taciturno, egli prese un carbone, e disegnò sul muro il gruppo sì giustamente, come se l'avesse avuto dinanzi per imitarlo; e rivoltosi al fratello, disse ridendo: “Noi altri dipintori habbiamo da parlar con le mani.„ Osservando l'antico, parve ad Annibale che, tra gli avi dell'arte sua, Raffaello sopra tutti avesse sentita la bellezza classica, nel dare forma monumentale alle sue composizioni pittoriche, nel disporre le sue figure sur uno stesso piano, come bassorilievi policromi. Ne seguì l'esempio nella galleria Farnese, ispirandosi principalmente alla sala della Psiche della Farnesina, a quel risaltare delle figure tra loro, a quell'artificio con cui si riempiono gli spazi dell'affresco, a quelle classiche forme. Non ha tuttavia la disposizione della vôlta della galleria Farnese la semplicità, la gaiezza della sala della Psiche, ove Raffaello immaginò uno scomparto formato di festoni di fiori e frutta a frondi; fece volare, negli spazi vuoti, sui lembi di cielo azzurro, le divinità dell'Olimpo; e stese nella vôlta, per mettere come al coperto la sala del banchetto, due finti arazzi attaccati ad anella. Leon X, i Cardinali, i prelati, la diva Imperia entravano così dal giardino della Farnesina nella loggia, come sotto a un pergolato, e si sedevano alla mensa scintillante di piatti d'oro e d'argento, fatta ammannire da Agostino [367] Chigi, il mercante magnifico, mentre gli Dei a convito, rappresentati sopra al loro capo, bevevano il nettare, festeggiavano gli sponsali di Amore e Psiche.

La sala di Annibale Carracci a palazzo Farnese in parte è a finta scultura: sul cornicione si solleva il fregio con pilastri a chiaroscuro, medaglioni di bronzo e termini di finto rilievo che reggono la vôlta; sui basamenti dei pilastri stanno giovani coloriti al naturale, senza un significato proprio, vere accademie o studii dal nudo, in atto di tenere festoni pendenti da maschere sceniche. Al ricchissimo fregio sembra non corrispondere la decorazione della vôlta, dove si stendono quadri con cornici dorate o a mo' di stucco; e la composizione non ha l'unità, che nella sala della Psiche vi spirò Raffaello, svolgendo la fabula grecanica di Apuleio, che pare racconto di una fata. Annibale Carracci volle figurare la guerra e la pace tra l'amore celeste e l'amore terreno; ma l'allegoria filosofica di Platone portava troppo all'astrazione, e non poteva trasparire chiaramente nelle rappresentazioni degli amori di Ercole, di Anchise, di Diana, di Polifemo, ecc. L'allegoria è composta come da citazioni affastellate con grande affanno da un erudito secentista; e tuttavia Annibale Carracci, nella galleria del palazzo Farnese, ottenne il suo scopo, tradusse [368] l'antico con abilità mirabile, fece sporgere pel forte chiaroscuro i termini del cornicione, rese con armonia e riccamente le scene mitologiche, ispirandosi nel disegno all'ultima maniera di Raffaello, ottenendo una vivezza e un chiarore nuovo di colorito, variando i motivi decorativi con una signorile larghezza. Nel Baccanale a mezzo la vôlta però non folleggia il piacere, come nei Baccanali di Tiziano; e Venere seduta sul talamo, mentre Anchise le leva un coturno, non è come la Rossane della Farnesina, il venustissimo fiore, dipinto da Antonio Bazzi, detto il Sodoma, a cui intorno scherzano gli amori, a cui si appressa rischiarato dalla face d'Imene, con la fiamma del desiderio negli occhi, l'eroe, Alessandro. Non vi sono insomma le allegorie e le scene mitologiche, quali seppe renderle il Rinascimento, combinando l'arte classica col senso fresco, spontaneo della natura; non traspare, sotto il velo della finzione, l'anima dell'artista con le sue passioni; non riluce nella scena la vita gaia e libera della società.

Raffaello diede talora agli Dei dell'Olimpo la cristiana dolcezza sulle labbra, Michelangelo l'ombra del pensiero sotto le arcate delle sopracciglia, Correggio la grazia nei corpi snelli, Paolo Veronese un'atmosfera di faville tutt'intorno. Annibale Carracci non riuscì, in quella prima [369] decade del seicento, in quel disgregarsi e squagliarsi d'ogni forma, non riuscì che a ridare agli antichi eroi, agli Dei dell'Olimpo l'equilibrio dei corpi, traendoli fuori da una buona stampa accademica, inquadrandoli in una splendida cornice, salvandoli dalla brutalità artistica invadente. Quasi che Annibale Carracci vedesse non alitare intorno alle sue figure l'aria fresca e serena, che ondeggiava la chioma della Galatea di Raffaello; quasi che l'afa del seicento ne opprimesse lo spirito, divenne di umore malinconico e cupo. “Si giuoca„, scriveva l'ambasciatore estense Fabio Masetti, “a indovinare per trovarl'in casa, oltre che s'è ritirato in una habitatione, segregato da ogni commercio dietro la Vigna dei Riarii alla Lungara„. Morì l'anno 1609, salutato restauratore e principe dell'arte, “restituita e innalzata da lui„, scrive il Bellori, “nuovamente alla vita del disegno e del colore, dopo averla raccolta per terra in Lombardia e in Roma„. La sua salma fu portata nel Pantheon, esposta sopra un catafalco, a capo del quale si collocò un quadro di Annibale, come al letto di morte di Raffaello fu posta la sublime “Trasfigurazione„ dai discepoli riverenti; e “il popolo accorse a vedere le esequie lugubri e le morte spoglie di Annibale, quasi nel luogo stesso si mirasse di nuovo Raffaello disteso sulla bara„. E là nel [370] Pantheon dorme presso alla tomba di Raffaello, che vissuto in un tempo felice, nella fiorente primavera dell'arte, era salito tra gl'immortali: Annibale giace come l'adoratore presso il suo Dio.

E del suo Dio egli aveva predicato il verbo alle turbe, onde per tutto il secolo decimosettimo all'arte napoletana focosa, naturalistica e tetra si contrappose l'arte dei Carracci sospirante il decoro e la bellezza antica.

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Nei palazzi principeschi d'Italia, nelle vaste chiese erette dalla Contro-riforma trionfante, l'arte dei Carracci penetrò: salì nelle cupole, si stese lungo gli archi, apparve sugli altari tra il fumo dell'incensi, lo scintillio dell'oro, l'agitarsi delle statue barocche; e nei palazzi, nelle sale, ove convenivano i grandi d'Italia, esaltò i ricordi della patria, il fasto delle famiglie, con un linguaggio pieno d'enfasi, rumorosamente. Tutt'all'intorno delle storie magnanime gettarono corone, volarono, caddero rovescio sui nuvoloni, virtù simboliche, angeli e demoni.

Da Bologna a Madrid, tra gli ornati dell'Escuriale, ad Anversa tra i fuochi e le fiamme di Rubens, a Parigi traverso le istorie di Nicola Poussin giunsero i Carracci, s'inoltrarono nel [371] tempo per la via delle Accademie, e batterono sino alle porte del nostro secolo. I moderni, in estasi innanzi alle verginali cose del Rinascimento, li bestemmiano, disconoscendo che il loro tentativo di incamminare l'arte verso l'antico era animato da un sentimento simile a quello che volge noi a contemplare e ad amare l'arte dei giorni felici. Il Ruskin, che scrive d'arte gettando sulle pagine la sua spugna impregnata di colori, e il Leroi, nell'organo magno dell'arte parigina, ed altri ed altri in coro bestemmiano i Carracci, non accorgendosi del loro nobile sforzo di innestare dignità e vigore sulla pianta già verde e con bacche d'oro, nell'annosa pianta isterilita dell'arte italiana.

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Gli sforzi non andarono a vuoto: ecco Guido Reni educato dai Carracci meglio determinare l'idea della bellezza ne' suoi angioli, in quelli di San Gregorio in Roma ad esempio, con lunghe chiome inanellate, coi grandi occhi nuotanti nell'azzurro. Il concento dei liuti e delle viole e dei cembali sale dalla tribuna della cappella nel cielo luminoso, ove si appuntano gli sguardi e le amplissime ali candide degli angioli.

Guido Reni non fu un mistico, ma neppure si [372] lasciò conquidere dallo spirito realistico della Contro-Riforma. Le teste de' suoi Cristi coronati di spine, con le pupille che languono smarrite sotto le palpebre, con le labbra semiaperte, rendono il dolore dell'anima; ma i bei capelli ondulati ricadenti sugli omeri, le carni alabastrine non dicono la tortura del corpo: nell'espressione spira la tranquillità del martire cristiano, negli occhi supplici da cui sfuggono lacrime e preci la rassegnazione divina. Mentre la Contro-riforma chiedeva all'arte le immagini di Cristo livide, rosse di grumi di sangue, coperte dalle ombre della morte, Guido Reni volge le teste del Redentore al cielo, come se lo spirito fosse per esalare e tornare alla luce. Purtroppo il pittore abusò di quell'espressione, e molti suoi Santi si affisano ugualmente nel cielo, e divengono forme convenzionali, stereotipate; purtroppo la forza di Guido, quella che lo aveva assistito in San Gregorio a Roma, nella grandiosa scena del Sant'Andrea che adora la croce, cadendo ginocchioni sulla strada del martirio, tra manigoldi, soldati e popolani, quella forza a poco a poco gli venne meno; e le sue figure biancastre, vuote, tondeggianti, le sue donne dal volto di Niobe e dai capelli di stoppa, rendono dilavata, fredda l'idea della bellezza quale rifulse negli anni giovanili alla mente di Guido. Quando egli si provò ad [373] imitare Raffaello nella “Fortuna„ dell'Accademia di San Luca o nel San Michele della chiesa dei Cappuccini in Roma, cadde miseramente; quando invece colorì l'Aurora di Palazzo Rospigliosi, e specialmente quando compose le ancone con Madonne e Santi (quella della pinacoteca di Faenza è mirabile esempio), si innalzò maestoso. L'equilibrio di Annibale Carracci regna nelle sue tele, nel moto ordinato delle figure grandiose, nel ricadere degli ampli drappi e dei manti, nel raggrupparsi delle figure tra loro, anche quando la passione sembra dare strappi all'euritmia della composizione. Così, ad esempio, si vede nella “Strage degli Innocenti„ a Bologna, ove nel pavimento giacciono due morticini, che fanno pensare ai due nati di Eduardo, di cui i sicarii di re Riccardo raccontano, nel dramma di Shakespeare, la morte, “la distruzione„, dicono essi, “della più bell'opera che la natura avesse formata dopo la creazione„. Le parole degli sgherri angosciati di re Riccardo potevano sfuggire agli stessi manigoldi nel raccontare l'eccidio dei fanciulli. Dicevano quelli: “Stavano adagiati in un medesimo letto.... abbracciati si tenevano con le loro braccia innocenti e candide come l'alabastro. Le loro labbra sembravano quattro rose sopra un solo stelo, che si baciassero l'uno con l'altro nel loro più vermiglio splendore.„

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Compagno di Guido Reni fu l'Albani, minore di gran lunga d'ingegno, sempre in cerca di piccoli espedienti. Sarebbe stato un pittore di genere, se i Carracci non lo avessero rivolto alla pittura sacra e alla mitologica; tuttavia anche nel sacro cercava le scenette graziose, gli accessori eleganti, le espressioni zuccherine, e nelle scene mitologiche impiccioliva tutto, dava sorrisetti a tutte le teste, un'aria civettuola alle Grazie. Dopo aver dipinto a Roma, fece ritorno a Bologna sua patria, ed ebbe dalla seconda moglie bellissima, della nobile famiglia Fioravanti, numerosa prole, di cui si servì per modello nel ritrarre, là nella sua villa di Meldola e di Querciola, abbellita di fonti e di peschiere, le deità del cielo e della terra e del mare, i suoi genietti ed amorini, gli elementi, in vaghi paesi e giardini, boscaglie, prati fioriti, collinette apriche, con limpide lontananze marine.

Fu secentisticamente detto l'Anacreonte della pittura; ma ad ogni modo quelle galanterie di putti ricciutelli, che giuocano e scherzano, quelle ninfe leziosette sono una forma non priva di genialità, benchè non irrompa la vita negli amorini accarezzati, ordinati, educati; non iscroscino le risa delle ninfe pettinate, levigate, con le lustre [375] carni d'avorio. Eppure la fonte dell'Albani non mancava di freschezza, le composizioni mitologiche del Domenichino, a cui si ispirava il pittore, erano gioconde e festevoli.

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Domenico Zampieri, detto il Domenichino, fu un quattrocentista smarrito nel seicento, di un candore, di una ingenuità, d'una timidezza singolare in mezzo all'assordante clamore dei barocchi. Ci sembra di vederlo in tutte le sue opere come Ludovico Carracci lo vide ancora in tenera età, nella sua Accademia, il giorno in cui solevasi dare il premio ai disegni: egli se ne stava solo, ritirato in un canto, dopo aver messo l'olio nelle lampade della scuola, e senza pronunciar motto; e quando il suo disegno fu giudicato il migliore di tutti, “non ardiva di farsi avanti, ma solo manifestossi col berrettino in mano, e con voce sommessa e vergognosa„ (Bellori). Restò sempre modesto, pauroso quasi dell'opera sua; ma disse giustamente il Bellori, si vantino pure gli altri pittori della facilità, della grazia, del colorito e delle altre lodi della pittura che a lui toccò la gloria maggiore di lineare gli animi e di colorire la vita. Egli comprese come ogni linea, prima che dalla mano, dovesse essere [376] mossa dall'intelletto; come al pittore convenisse non solo osservare gli affetti umani, ma sentirli in sè. Mentre dipingeva a San Gregorio, in concorrenza di Guido, Annibale Carracci lo vide, entrando nella cappella, adirato e in preda allo sdegno, che si studiava di esprimere nel volto del manigoldo minacciante il santo martire Andrea. E gli affetti traspaiono ne' suoi fanciulletti, che si stringono impauriti alle gonnelle delle tenere madri, negli angioli che sporgono tra le nuvole la testolina curiosa, nei garzoncelli che stendono supplici le mani a Santa Cecilia benefattrice: da per tutto in quegli occhietti vivaci, in quell'ingenuità di moti, in quel candore di volti.

Gli altri secentisti si affannarono a cercare il nuovo, e forme strane non vedute mai; il Domenichino invece si provò a continuare, a perfezionare l'opera de' suoi predecessori, e come nella Santa Cecilia a San Luigi de' Francesi in Roma, s'ispirò al quadro dell'“Elemosina di San Rocco„ di Annibale, nella “Comunione di San Girolamo„, ora nella galleria vaticana, tenne di mira il quadro dello stesso soggetto di Agostino Carracci. Però nel Santo Anacoreta egli seppe esprimere lo sfasciarsi delle membra per gli stenti e la decrepitezza, e gli ultimi aneliti di lui negli occhi dilatati, che guardano al Sacerdote apprestante il pane divino. A tutte le [377] figure del quadro par che tremi il cuore, e financo piange il leone, compagno dell'eremita, con la testa china sugli artigli e le sopracciglia increspate dal dolore.

Profondo sempre e sempre candido, il Domenichino dà alle sue Sibille l'aspetto di vergini rapite nella visione del futuro, fa inchinare i Santi con divozione ed umanità, soffrire i Martiri con rassegnazione divina, gioire le sue ninfe innocenti come in un paradiso terrestre. Le invidie, le persecuzioni abbatterono quel grande, che, nel seicento, anche sotto gl'involucri pesanti della forma, anche sotto lo strato del colore senza guizzi di luce, fece trasparire la sua anima buona. Sant'Agata a Bologna, nella Pinacoteca, Sant'Agata che stende le bianche manine nell'aria, e inoltra lo sguardo tremulo nell'azzurro dei cieli e nella gloria, che apre le piccole labbra scolorite da cui l'anima si fugge per ondeggiare incorporea negli spazi celesti, è simbolo dell'arte di Domenichino casta e gentile, anche sotto il pondo delle spoglie, sotto lo stucco del seicento. Se l'arte dei Carracci non avesse spirato vita che al Domenichino, grande e infelice, coscienzioso in un tempo in cui la coscienziosità sembrava povertà di spirito, timido fra i contemporanei audaci, l'arte dei Carracci sarebbe degna anche per questo di onore.

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Nè l'anima del Domenichino, nè il pensiero di Guido, nè il sorriso dell'Albani rispecchiansi soli nelle forme diffuse dai Carracci; ma sì tutta l'opera d'una legione d'artisti, che per l'Italia sventolano le insegne dei maestri di Bologna: di Giovanni Lanfranco di Parma, co' suoi colossi rapidamente elevantisi su le cupole e gli archi e le ampie moli, del Tiarini di una sincerità popolana, di Sisto Badalocchio, di Antonio Maria Panico, di Antonio Carracci, di Innocenzo Tacconi, di Lucio Massari, di Lorenzo Garbieri, del Cavedoni, del Guercino, ecc.

Gli ultimi due, Cavedoni e Guercino, errano per differenti vie: il Cavedoni cerca il fuoco e lo splendore dei quadri veneziani, il Guercino avvolge le sue composizioni nelle tenebre, e qua e là le rischiara da bianche livide luci. Sembrano giunti col Guercino i giorni funebri del colore; ma l'arte continuò a far tesoro dell'eredità dei Carracci, a sentire il loro impulso di ricercare, di ritornare all'antico. Dalle Accademie, ove ancora germinavano i semi carracceschi, l'arte si mosse verso l'antichità classica, nel secolo scorso; verso il Medioevo e il Rinascimento, nel secolo che ora volge al suo termine. Ma nè i Cincinnati, [379] nè i Coriolani ingessati dell'arte del Regno Italico; nè i cavalieri dal collo torto, nè le dame dagli occhi di triglia morta del ciclo romantico; nè le lunghe fanciulle col collo tirato, nè i Santi con le teste su scudi d'oro agganciate a' panni de' preraffaellisti, espressero la vita nuova.

L'arte del passato non può renderla con gli echi delle sue epopee, e a noi basta di venerarla nei musei; l'arte del presente senza unità, incerta del suo fine, ora si aggrappa al passato come alla tavola di salvamento, ora ne rifugge per navigare senza bussola nel regno dei sogni; l'arte dell'avvenire ci dirà senza convenzioni, senza miscugli l'ideale delle anime? Torneremo a' giorni lieti, in cui la vita prorompa nelle immagini dell'arte giovani, fresche, sane? Allora sarà giusto ricordare, come ricordiamo oggi, nell'ansia dell'attesa, chi tentò nella società guasta e degenere del seicento ricondurre l'arte alla bellezza, chi con i piedi nel fango fissò gli occhi nel cielo.

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