ALESSANDRO TASSONI (1565-1635)

CONFERENZA

DI

Olindo Guerrini.

[319]

Signore e Signori,

Ricordo che, alcuni anni sono, tenni questa Società di letture a battesimo, facendo un poco di prefazione alle dotte ed applaudite conferenze che vennero di poi. Mi rivolsi specialmente alle Signore, scongiurandole a prendere sotto la protezione loro la associazione che nasceva, perchè le donne sono il sale che conserva le instituzioni e perchè il loro buono e santo istinto materno protegge ed alimenta i nati da poco. E mi compiaccio con amore di padrino di rivedere così prospera la figlioccia e mi congratulo con lo squisito gusto fiorentino e con la costante ed affettuosa gentilezza delle dame le quali crebbero e mantennero amorosamente questa società che oramai ha una storia gloriosa, mentre tante altre sorelle sue italiane dormono o cloroformizzate o morte. E di questo titolo di padrino mi glorio e mi valgo per raccomandarmi ancora alla vostra cortese ed ambita benevolenza, poichè io e l'argomento che tratto ne abbiamo troppo bisogno.

[320]

Alessandro Tassoni, di cui debbo intrattenervi, nacque e visse in tempi di così basso decadimento che peggiori non potranno farci vergogna mai più. L'Italia non fu mai più serva, più abietta, più fracida. La religione degli avi, la religione santa e pura, per la quale da San Francesco al Savonarola tante anime avevano spasimato sino al delirio, era morta allora allora, affogata nel Concilio di Trento, e la Compagnia di Gesù cresceva già lieta di trionfi terreni, e Filippo II, laudando le pie ed atroci carneficine del duca d'Alba, accendeva i roghi benedetti da Pio V, non Pontefice ma Inquisitore, e Carlo IX assassinava con la sua mano i sudditi acattolici la notte di San Bartolomeo. Dalle anime sgomente esulava la fede cedendo il posto alle piccole divozioni, alle sottigliezze della casuistica, alle reliquie diventate talismani, al meccanismo rituale e cerimoniale delle pratiche esterne. Si dimenticava il Vangelo e si diceva il Rosario, e Giordano Bruno e Lucilio Vanini erano arsi pel delitto di pensare, e Galileo Galilei era costretto ad abiurare e a rinnegare la scoperta verità.

Nè a tanti mali, se pure l'avessero voluto, potevano metter riparo i Pontefici, avviluppati come erano in troppe cure terrene, interessi di nipoti, contese con principi, difficoltà di governo in uno Stato impoverito dai balzelli, guasto dai banditi [321] che nemmeno le innumerabili forche di Sisto V poterono sterminare. E tutta l'Italia era così, se non peggio. Napoli e Lombardia, dominio spagnolo, eran spremuti da Governatori o da Vicerè avidi, imbroglioni, prepotenti, il cui potere dipendeva dall'instabile capriccio di una corte, dove l'autorità non era che insolenza violenta. Le piccole dinastie agonizzavano nei vizi, come i Gonzaga e i Della Rovere, impiccolivano nei raggiri come i Medici, diventavan bastarde, come gli Estensi. Decadeva Venezia che vide la pelle del suo eroico Bragadino appesa all'albero di una galera turca, portata a ludibrio sui mari, mostrata a vergogna lungo le coste che furon già di San Marco. Gli Uscocchi corrono il Golfo impuniti, Dragutte infesta il Mediterraneo e i Turchi scendono in Italia a saccheggiare le città ed a bruciarle, facendone schiavi gli abitatori. Era troppo e la virtù latina fu costretta all'ultimo sforzo di Lepanto, dove tanto sangue e tanto valore furono gloriosamente ma inutilmente prodigati. Le galere trionfatrici non erano ancora tornate al porto e già le vele degli infedeli erano in vista del lido italiano. Pochi anni dopo, Manfredonia e parecchie altre città erano arse dai Turchi e le belle latine rapite veleggiavano per l'harem del Gran Signore.

Solo il Piemonte era immune da tanta lue. [322] Chiuso tra la Francia e il dominio spagnolo, era costretto a viver sempre con l'orecchio teso e l'armi pronte. La razza forte, l'ambizione tenace dei principi, la potenza pericolosa dei vicini, lo costringevano alla vigilanza assidua, della sentinella che sa di aver presso il nemico e, in simile attesa, nè un soldato nè un popolo possono addormentarsi. Emanuel Filiberto, indi Carlo Emanuele, non pensarono che a negoziati ed armi, e guatando oltre i confini, meditarono e prepararono accrescimenti di spazio e di potenza, non paurosi della formidabile arroganza spagnuola, non disavveduti tra le insidie degli ausili francesi. Il pericolo educava alla fortezza e nel laido sfacelo della Italia di quel tempo, unica regione non putrida fu quel Piemonte al quale si dovette poi in gran parte il miracolo della risurrezione di un cadavere, l'unità d'Italia.

Nè la morale aveva di che invidiare alla politica. Se i re assassinavano i sudditi, c'erano assassini anche pei re, e il Clément uccise Enrico III e il Ravaillac, Enrico IV. Il pugnale non faceva orrore nemmeno a Roma e frate Paolo Sarpi lo seppe. Era il tempo dei bravi assoldati per servire l'iniquità dei signori, era il tempo dei duelli mortali per quistioni di preminenza e di etichetta; era il tempo dei banditi, della immoralità bestiale trionfante dovunque fosse potente e [323] prepotente. Immoralità in alto e in basso, poichè il popolo si lorda di delitti atroci e di vizi turpissimi non soffocati dal capestro e dal rogo, e la nobiltà ci offre la tragedia dei Cenci, e Bianca Cappello è granduchessa di Toscana. Venezia è piena delle orgie e della crapula in che abbrutiscono i discepoli dell'Aretino; i conventi, come quello di suor Virginia de Leva, sono scuole di lussuria e di veneficio; le Corti d'Urbino e di Mantova, già onore della gentilezza italiana, non hanno più gentildonne ma cortigiane, e in tutta Italia trionfa la brutalità più lurida, la perversione degli istinti più sfacciata.

L'arte stessa è tutta una rovina. Michelangelo e Tiziano si sopravvivono e in questi anni si spegne la loro geniale decrepitezza; ma da loro e per loro nascono la corruzione, l'esagerazione, la falsità. L'energia diventa contorsione, l'audacia stravaganza, e impera oramai il barocco tumido e vuoto, che non ha più espressioni ma smorfie. Le lettere, malate del gongorismo imbecille che infierisce su tutta l'Europa, impazziscono nella ricerca di stranezze inaudite, nella caccia puerile ai concetti sbalorditivi, alle freddure scempiate, e il Marino è l'astro maggiore di questo povero cielo, dove l'Achillini, il Preti e mille altri, anfanando dietro alle vesciche sonore, alle ampollosità bislacche, sperano di meritare un [324] posto alla lor volta. L'artificio e la falsità si accoppiano, e dalle nozze nefaste nascono i mostri che ora ci muovono al riso o alla noia mentre allora destavano l'ammirazione sincera di un pubblico di matti. Solo la musica, vellicatrice degli orecchi avidi di nuove lussurie, rallegratrice delle feste o rinnovata compagna delle pompe ecclesiastiche, la musica che non fa paura nè ai governi nè alla Inquisizione, esce di nido in quei giorni e comincia a spiegare il dilettoso volo. Ma tutto il resto non è che un mucchio di oscene macerie, un enorme sterquilinio in cui male si cercherebbe una piccola perla. Religione, politica, costumi, arte, tutto è lezzo di corruzione, fracidume di cimitero.

Tali furono i dolorosi tempi in cui visse Alessandro Tassoni, il quale ebbe anche nemica la fortuna in questo, che nato (1565) da una famiglia di buona nobiltà e già ben fornita di censo, al suo avvento nel mondo la trovò spiantata. Così, orfano di buon'ora, le sue prime impressioni della vita non dovettero esser piacevoli certo ed i suoi più antichi ricordi d'infanzia dovevano condurgli in mente un lungo e malauguroso andirivieni di avvocati, di procuratori e di notai che, rodendo le ultime briciole della fortuna sua, infestavano la casa con allegazioni, libelli e liti senza fine. Triste infanzia non consolata [325] da carezze materne, non protetta da vigile affetto di padre, che dovette lasciar nell'anima del Tassoni quel sapore amaro che gli sale tante volte alle labbra mal curvate al sorriso. La povertà fin d'allora gli fu compagna assidua ed anche quando riuscì per poco a tenerla lontana, ebbe sempre meno pecunia che desideri ed aspirazioni. Finalmente spuntò il raggio della fortuna anche per lui e raccolse una eredità che lo mise nell'agiatezza; finalmente! Ma egli aveva tanto usato dello scherno e dell'ironia che i fati gli reser la pariglia. L'eredità aspettata e benedetta gli capitò solo pochi giorni prima della morte.

Tanto però gli restava, da giovane, che potè studiare, prima in patria, poi girovago in varie Università italiane. Fu a Bologna, a Ferrara, a Pisa e forse altrove, finchè, addottorato, ritornò a Modena. Pare che a Bologna gli si appiccasse il malo morbo di compor versi, o almeno i primi che ci restano di lui vengono appunto di là e sono gonfi, idropici di bisticci e di arguzie come li voleva la moda, poichè corteggiando in un sonetto certe signore Orsi, madre e figlia, le paragona all'Orsa maggiore e minore, e altrove, poichè piovve durante il funerale di una bella signora, esclama:

Velò di nubi il sol, versando al basso

Lagrime amare in doloroso nembo

E sospiri esalò con tutti i venti.

[326]

Queste scioccherie delle nubi che piangono ed altrettali parevano allora squisitezze, ma il Tassoni che aveva il gusto fine e molti studi, presto se ne ritrasse, nè lo si vide più cadere in simili sguaiataggini. Era però caduto quasi in miseria e gli era pur forza trovare qualche occupazione che gli desse profitto. In tali casi, pei gentiluomini pari suoi, spiantati e letterati, la via era indicata dalla tradizione: il servigio dei principi. Già gli umanisti avevano rimesso in moda Mecenate ed Augusto e servirono in corte senza sentirsene umiliati. Gli esempi di Orazio e di Virgilio scusavano tutto, fino la domesticità, e la divinità delle lettere non lasciava sentire nemmeno le offese alla dignità personale. L'esempio del commendatore Annibal Caro era recente e in quelle pompose corti del seicento erano numerosi i gentiluomini poveri e talora gli avventurieri, diventati ricchi e potenti. Perciò il Tassoni si acconciò al servizio del cardinale Ascanio Colonna, figlio di quel Marcantonio che aveva onorato il nome italiano a Lepanto; principe ricco e splendido, è vero, ma bizzarro perchè malsano, imperioso perchè conscio della grandezza della sua casa, insofferibilmente superbo perchè educato in Spagna, spagnolo nell'animo e, nell'alterigia, imitatore ed emulo di quella nobiltà.

[327]

Il Tassoni lo servì in qualità di segretario, con diligenza se non con affetto. Lo seguì in Spagna e di là tornò parecchie volte in Italia per affari del suo padrone che era stato creato vicerè d'Aragona. Ma se non si guastò col cardinale, si guastò colla Spagna; e da quell'epoca comincia l'avversione, anzi l'odio feroce del Tassoni contro la nazione che preponderava allora in Italia. Egli che poco tempo prima in un sonetto un po' pretenzioso aveva pur pianto la morte di Filippo II, scaraventò due sonetti, l'uno più lurido e sucido dell'altro, contro Madrid e Valladolid, infamandone l'aspetto, i costumi e le donne. Semplice antipatia non dovette essere, e facilmente il bizzarro poeta che era pronto al risentimento, tra quella nobiltà superba e dominatrice dovette ricever qualche urto le cui lividure gli rimasero per sempre.

Si congedasse egli dal cardinale, come crede il Muratori, o lo servisse fin che lo vide morire, come pare al Tiraboschi, certo è che quelli furono gli anni della sua attività letteraria più feconda, gli anni anzi in cui concepì, o cominciò, o scrisse le sue opere maggiori, tenendo onorato luogo nelle Accademie dei Lincei e degli Umoristi. Forse, servendo così splendido padrone, aveva raggruzzolato qualche peculio, poichè per qualche tempo non volle nuove catene e visse a suo [328] modo studiando, scrivendo e litigando, libero, bizzarro e mordace, non risparmiando invettive e libelli ai suoi avversari che non ne risparmiavano a lui e dimenandosi in queste baruffe ora elegantemente, ora trivialmente, ma sempre con un non so che di originale, di tutto suo, che lo leva in alto anche come polemista tra la turba de' suoi coetanei competitori. Ma questi bei giorni di libertà non potevano durar molto. La necessità picchiava all'uscio e bisognava trovare un nuovo padrone e una nuova catena.

Forse il suo aborrimento verso la Spagna gli persuase di cercar servizio presso la corte di Torino, poichè il duca Carlo Emanuele era il solo principe italiano che avesse l'ardire di resistere alla prepotenza spagnola. Ma se Carlo Emanuele era allora il principe più illustre d'Italia e non alieno dalle lettere, stimava più i soldati che i letterati. Resisteva alla Spagna, è vero, e la combattè spesso, ma non dimenticava la politica tradizionale della sua casa e, dietro sè, teneva sempre una porta aperta alla ritirata, volendo esser libero di cambiare parte e bandiera secondo l'interesse suo e de' suoi richiedeva. Irrequieto, impetuoso, avvolto sempre in guerre infelici che gli rodevano il tesoro, non poteva essere Mecenate troppo splendido e, pel Tassoni specialmente, sciolse di rado e di malavoglia i cordoni [329] della borsa. Poetava anch'egli in italiano, in francese, in spagnolo, in piemontese e cantava:

Italia, ah, non temer! Non creda il mondo

Ch'io mova a' danni tuoi l'oste guerriera,

egli che trovava la famosa formula del carciofo italiano che vuol esser mangiato foglia per foglia, e i suoi successori lo mangiarono così bene! Ma il peggio è che si dilettava sopratutto di poesie satiriche e, mietendo così appunto nel campo del Tassoni, è naturale che lo guardasse un po' di traverso. Infatti in tutta la condotta di Carlo Emanuele verso il Tassoni si sente una freddezza che spesso pare antipatia e qualche volta canzonatura. Ordinò che gli fossero pagati dugento scudi, ma da levarsi dalle entrate che la Casa di Savoia aveva nel regno di Napoli. Ora gli Spagnoli che tenevano il regno, non pagavano affatto, e nessuno meglio del Duca lo sapeva, per cui il dono dovette parere al Tassoni un pessimo scherzo. Altre provvigioni sfumarono così, finchè fu messo come gentiluomo presso il cardinale Maurizio di Savoia, giovane splendido, anzi prodigo, che dovette esser cagione di buone speranze al povero poeta. Ma ahimè, il cardinale prodigo con tutti fu avaro col Tassoni pel quale anch'egli sembra aver provato una certa avversione. [330] Complimenti e promesse ne largì senza fine, ma quattrini pochi o punti.

Il Tassoni tirava innanzi alla meglio col suo cardinale in Roma quando fu richiamato a Torino (1620). Nuove speranze, poichè l'ufficio di segretario cui era destinato, apriva l'adito a miglior fortuna; ma all'arrivo, il duca gli si mostrò freddo, anzi avverso. Il poeta aveva lo scilinguagnolo sciolto e la lingua lunga e bene affilata, per cui si può ben credere che trattato e pagato a quel modo, ne dicesse delle sue. Il duca inclinava di nuovo alla Spagna, ed al Tassoni, che protestava del contrario, erano attribuite le ferocissime filippiche; sì che i competitori del poeta al posto di segretario, ingrossando tutte queste faccende, fecero sì che anche l'ufficio sperato gli fosse negato. Dovette tornare a Roma dal cardinale che lo accolse male e lo pagò peggio, così che il Tassoni, perduta la pazienza e la speranza, sciolse il freno alla lingua e scrisse un certo oroscopo mordacissimo del suo padrone che gli valse il congedo e un breve esilio da Roma.

I sogni ambiziosi erano così finiti e il Tassoni dovè cercarsi, non più un principe, non più una corte, ma un cardinale qualunque pur che pagasse; e l'eminentissimo Ludovisi pare che fosse buon pagatore poichè il Tassoni lo servì per sette anni, in capo ai quali, morto il cardinale, [331] si ridusse in patria a servire il duca Francesco I, ai cui stipendi morì nel 1635. Ultimi anni in cui il Tassoni schizzò fuori tutto l'aceto e il fiele di cui si era abbeverato nella passione della vita, ultimi anni, torbidi per polemiche feroci, che per poco non finirono a coltellate. Un frate almeno ne riportò un carico di legnate solenni. E chi sa con quanta amaritudine il poeta moribondo riandò la vita sua così sciupata e si dolse di non aver colto più ricchi frutti dall'ingegno grande! Ed ecco, ultima ironia della fortuna, egli che aveva ramingato, servito, scritto tanto per fuggire la miseria, ecco, poco prima di morire, quando il denaro non serve più a nulla, eredita e diventa ricco. Tristi tempi e triste vita che devono farci intendere e scusare quel che nel Tassoni vorremmo di più generoso, di più delicato, di più buono.

Come scrittore, la prima cosa di lui che vedesse la luce fu una Parte dei Quesiti che protestò edita contro sua voglia e che corresse ed ampliò in seguito sino a farne i dieci libri dei Pensieri diversi. Ivi ragiona di tutto, di astronomia, di fisica, di politica, di morale, di letteratura, capricciosamente, e con quella ricerca della singolarità che non è impronta di cervello originale, ma artificio freddo e voluto per attirare le occhiate; quel che oggi dicono posa. [332] L'argomento di molti pensieri è pensatamente stravagante, come là dove ragionando di cose fisiche cerca perchè il pane sembri più bianco freddo che caldo o il biscotto sia più duro caldo che freddo. Tra i pensieri di cose naturali si cerca perchè incanutiscano i vecchi, perchè non nascano peli verdi, perchè le donne non abbiano barba, perchè i gamberi camminino all'indietro, perchè fossero create le mosche. Per la morale, si chiede perchè chi si vergogna tenga gli occhi bassi, perchè le donne vadano vestite di lungo (dice press'a poco che è per nascondere le gambe storte), perchè si amino anche le donne brutte e finisce col sostenere che il mestiere di boia non è infame; e per la letteratura, basti che egli addenta caninamente Omero, al quale, in più luoghi, antepone il Tasso, e mette in burla il Villani al quale, come stilista, preferisce il Guicciardini. E tutti questi pensieri, la cui enunciazione è ora buffa, ora paradossale, sono mescolati con altri più gravi e seri, ma sono svolti tecnicamente lo stesso, cioè con un apparato d'erudizione greca e latina che pesa come un monumento. Il vero pensiero dell'autore si coglie difficilmente, avviluppato com'è da cento allegazioni e citazioni, annegato in un mare di testi odiosi e noiosi, in cui si sente troppo l'ostentazione. Anche Michele Montaigne, prima di lui, [333] aveva proceduto con lo stesso metodo ne' suoi meravigliosi Saggi e forse il Tassoni non lo ignorò; ma quale immensa distanza tra il moralista benevolmente scettico e il pedante che affetta ghiribizzi eruditi, conditi spesso da una ignoranza e da una credulità, anche per quei tempi veramente calandrinesca! Il Tassoni infatti credeva all'astrologia, all'alchimia, agli oroscopi ed alla pietra filosofale; credeva che i corpi dei fulminati non si putrefacessero, perchè lo dice Plutarco, e che l'anno sessagesimoterzo fosse climaterico o pericoloso, perchè l'imperatore Augusto lo credeva. I Pensieri riveduti e accresciuti, vennero in luce quando gli studi copernicani erano nel primo fervore e il Galilei spiegava già i nuovi sistemi. Se la bizzarria del Tassoni fosse stata vera e non affettata, la novità lo avrebbe subito sedotto; ma invece egli, Accademico Linceo, sostiene ancora che la terra è immobile e mobile il sole, rifriggendo i vecchi testi tolemaici e biblici in un lungo e verboso ragionamento che ricorda quello di don Ferrante sulla peste nei Promessi Sposi. Il libro fu accolto da un sordo brontolìo, foriero di prossime burrasche, ma non suscitò polemiche o risposte. I filosofi inorridirono del poco rispetto usato verso Aristotele che allora era testo infallibile, gli eruditi arrabbiarono per le insolenti beffe ad Omero, [334] i letterati ed i linguisti inferocirono per le canzonature alla lingua del trecento, ma per allora tacquero. I tempi non erano maturi e il libro, forse, non ebbe gran voga.

Ma se i Pensieri passarono in silenzio, non fu così delle Considerazioni sul Petrarca, scritte in gran parte viaggiando col cardinal Colonna. Il Tassoni, rivedendo le chiose del Castelvetro, altro bizzarro ingegno modenese, più secco ma più serio del Tassoni, chiosava alla sua volta alcune rime. Qua e là era qualche osservazione mordace, come: “questa non mi pare comparazione da invaghirsene„ oppure “questi son due quaternari da far venir l'asma a chi non ha buon petto„; ma a noi, ora, queste non paion punture da levarne strilli disperati. Altre e ben più gravi discussioni e critiche hanno assalito idoli più venerati del Petrarca, e oramai ci abbiamo fatto il callo; ma allora non era così. Bisogna pensare a quel che era il Petrarca nel concetto dei letterati di quel tempo, arca santa che non si poteva toccare, Adonai venerando di cui si poteva appena pronunciare il nome tra due genuflessioni. Il dubbio solo, come in religione, era eresia e sacrilegio, e quelle Considerazioni che a noi sembrano, ora lambiccate e cavillose, ora giuste e calzanti, parvero un sovvertimento della santità della tradizione e della [335] ragion poetica, un nero delitto di lesa maestà. Un Giuseppe degli Aromatari, sotto il nome di Falcidio Melampodio, rispose criticando le osservazioni del Tassoni, il quale, alla sua volta, sotto il pseudonimo di Crescenzio Pepe, si difese. Replicò l'Aromatari, inspirato ed aiutato dai devoti del Petrarca scandolezzati, e il Tassoni, col nome di Girolamo Nomisenti, mise fuori un volumetto che intitolò la Tenda rossa, dove, rotto ogni freno, inveì fieramente contro le idee e le persone, assalendo e mordendo senza riguardi. La discussione letteraria si era così per via inacidita ed invelenita fino a ricordare le invettive degli umanisti e, diventando più piccina, era diventata più feroce. Non avevano certo i letterati d'allora la tempra dura del Poggio e del Filelfo, e i tempi diversi e gli occhiali dei revisori nol consentivano, ma il lievito c'era, e basta ricordare le contese del Marino col Murtola e con lo Stigliani, in cui si sparse sangue. Ad ogni modo l'Aromatari si tacque, perchè aveva la lingua meno aguzza del Tassoni e minor coltura, ma rimase un lungo strascico di rancori e di libelli infami pei quali un Bisaccioni fu carcerato e il conte Brusantini inspiratore e collaboratore di costui, se fuggì al bargello, non fuggì alla vendetta atroce del poeta che lo infamò col nome di conte di Culagna nella Secchia Rapita. Il Tassoni ebbe il [336] disopra perchè più ardito e perchè più dotto, come si vede dallo studio sui poeti provenzali che egli fece, cosa rara allora, per trarne chiose e confronti alle rime del Petrarca; ma a poco a poco i libri incendiari andarono a dormire sotto la polvere delle biblioteche. Tuttavia l'idolo, se non era caduto infranto, aveva però perduto l'aureo nimbo della santità impeccabile. Il Petrarca tornò fin d'allora qual era, uomo e poeta. E se il Tassoni rimpicciolì troppo la contesa e non vide quel che di alto e di severo poteva derivare da una discussione ragionata e ragionevole, ebbe però il inerito di scuotere, sia pure per capriccio, per umor nero, per bizza, il fastidio di un culto cieco che addormentava nella noia la lirica italiana.

Di altre sue opere minori è inutile dire. Le Considerazioni sul vocabolario della Crusca che vanno sotto il suo nome, non sono sue, ma dell'Ottinelli, come provò bene il Muratori e come del resto si sento bene dalla mancanza di causticità e di punte in quel libro pregevole. Il Tassoni avrebbe fatto un volume di motti e di arguzie, non un posato e serio studio lessicografico e d'altronde, essendo Accademico della Crusca, non avrebbe voluto dar troppe noie ai colleghi, già nel poema abbastanza stuzzicati. Anche le filippiche, biliose e furibonde diatribe contro la Spagna e gli Spagnoli, non sono forse tutte sue, [337] od almeno egli, o per interesse o per paura, le rifiutava, e d'altronde sono opera più politica che letteraria. Il suo capolavoro, al quale è ormai tempo di venire, è la Secchia rapita, poema pel quale il suo nome fu e rimase glorioso, meritamente.

Tutti sanno quel che sia la Secchia rapita e non importa raccontarla. Solo è da notare che si può dividere in due parti. Nella prima sono descritte le zuffe tra i Bolognesi e i Modenesi a proposito d'una infelice e vil secchia di legno tolta per forza; passati in rassegna le genti ed i capitani con un lusso di cognomi regionali che dovette contribuire assai alla voga del poema; narrate le ambascierie, messo in caricatura il concilio degli Dei, l'assedio di Castelfranco, insomma beffeggiato, stravolto, parodiato, il contenuto eroico dei poemi cavallereschi. Nella seconda parte e specialmente nei canti VIII, IX, X ed XI, prevale invece l'elemento schiettamente comico che si svolge come episodio sproporzionato nei canti del cieco Scarpinello e nelle avventure del conte di Culagna che diventa protagonista. Il Tassoni disse di aver trovato una nuova forma di poema, e invero il suo è il primo dove per deliberato proposito, in un tutto organico, primeggi e domini la comicità. Egli diceva che nell'opera sua era un innesto dell'eroico col comico, [338] e così dicendo stabiliva forse la divisione del poema in due parti, cui si è accennato. Infatti nel canto VI, per esempio, poche sono le facezie e, salvo che in alcune ottave, leggiamo un frammento di poema serio: ma tuttavia il ridicolo penetra da per tutto e l'intonazione burlesca non lascia mai in pace l'ascoltatore anche quando si crede tra i paladini.

Per questo il poema era veramente una novità e gli antecedenti che gli si possono trovare non gli levano quel che ha di originale. Non importa risalire alla Battaglia delle vecchie con le giovani del Sacchetti o disseppellire la Nanea o la Gigantea o la Contesa di Parione per questo. Già accenni alla canzonatura de' propri eroi se ne trovano nel Pulci, nel Boiardo e nell'Ariosto e non pochi; ma sono sorrisi e non risate, incidenti, episodi, non intenzioni principali e sostenute. Più vicini alla Secchia sono l'Orlandino del Folengo, dove il ridicolo è cercato nella trivialità del turpiloquio erotico e scatologico, l'Orlandino frammentario dell'Aretino dove c'è il travestimento dei paladini in gaglioffi e non altro, la Vita di Mecenate del Caporali, conosciuta certo dal Tassoni, che è piuttosto una sfilata di capitoli bernieschi che un poema organico, e forse il Poemone del Bardi, poichè il Tassoni ne conobbe l'autore (Secchia r. XII, 15), scherzo idiomatico [339] e noioso in cui la festività è affidata alla parola, non al concetto. Ma se può dirsi che qualcuno di questi poemi sia stato presente agli occhi della memoria del Tassoni, certo l'influsso fu ben tenue e a troppe sottigliezze condurrebbe il cercarne le tracce.

L'inspirazione la trasse dal suo tempo e l'indole del suo ingegno fece il resto. In quella putrefazione di ogni cosa bella e grande, che poteva fare un uomo della sua tempra? Ridere; amaramente, velenosamente, ma ridere. Le forme invecchiate si canzonano volontieri, le mode antiquate destano l'ilarità e il poema cavalleresco era oramai decrepito. Dove trovar più gli ingenui ascoltatori delle imprese d'Orlando in un secolo malizioso, in un paese nel quale è spenta sino l'ammirazione istintiva della forza, del valore, della generosità, poichè non ha soldati se non forestieri, principi se non vigliacchi? E la produzione di poemi eroici dopo il Tasso era stata così eccessiva da diventar seccatura e render necessaria la natural reazione del ridicolo. Molti lo sentirono e meglio di tutti il Cervantes che ebbe ben altra e più geniale tempra ed altezza di cuore che non il Tassoni, quando faceva ardere la libreria del suo eroe, condotto in mezzo a cento eroicomiche avventure ad una dolorosa vendemmia di bastonate. Il Tassoni conobbe il [340] Don Chisciotte, e il conte di Culagna nel suo duello col romanesco Titta, reca

Il brando famosissimo e perfetto

Di Don Chisotto e il fodro ha il suo padrino.

Ahimè, no, questo è inverosimile! Troppo sarebbe pesata la spada del buon Cavaliere della Trista Figura alle mani ignobili del conte. Don Chisciotte è una idea, il conte di Culagna una persona, anzi una personalità. Don Chisciotte è ridicolo, ma non vile; pazzo, ma non volgare. Affronta, è vero, i mulini a vento, ma li crede giganti e, pur credendolo, non ha paura. Si macera in buona fede, attira le risa e le legnate, ma sempre col cuore alto, con la illusione di difendere il debole e di onorare la dama. Invece il conte di Culagna è stomachevolmente vigliacco, bestialmente basso e triviale. In tutto il poema cerchereste invano una figura che sotto al ridicolo abbia il cuor nobile e fiero. La stessa Renoppia, che dovrebbe esser la Clorinda e la Bradamante del poema, non è che una figura senza plasticità, una Marfisa di stoppa. Sin da principio è deformata con una infermità ridicola e più avanti riprende il cieco Scarpinello con un linguaggio sboccato, sconveniente non che ad una gentildonna, ad una vituperata. Non c'è nemmeno una rassomiglianza lontana, o nella vita, [341] o nelle opere, tra i due demolitori dei romanzi cavallereschi. Il Cervantes, soldato valoroso, storpiato a Lepanto, schiavo dei mori, è dignitoso nella miseria del suo mantello stracciato, mentre il Tassoni, servo di principi, impiegato di cardinali, è querulo ed amaro lamentatore della Sua povertà mal celata dal saio del cortigiano o dalla veste talare dell'ecclesiastico. Il Don Chisciotte non è solo un assalto ad un genere letterario invecchiato, ma proposizione di una letteratura nuova, più umana e più vera. La Secchia invece è negativa affatto, nuova solo nella parte formale, scherzo, bello certamente, ma scherzo soltanto.

Perchè io non riesco a scoprire i riposti intenti civili e morali che alcuni videro nella Secchia rapita, non parendomi da ciò nè i tempi nè il poeta. Ci fu chi, vedendo intenti simili un po' da per tutto, disse che se i contemporanei avessero inteso il Tassoni, il poema non avrebbe potuto veder la luce. Altri, al polo opposto, negò, non solo ogni seconda intenzione, ma ogni efficacia alla Secchia. I più, tenendosi ad una via di mezzo, riconoscono qualche effetto, ma negano l'intenzione.

Si disse per esempio che questi intenti civili sono dimostrati dalla scelta dell'argomento. Il mettere in canzone una di quelle sciocche e feroci guerre di città a città che insanguinarono [342] il medio evo, era mostrare i mali della divisione, la necessità dell'unione fra gli stati italiani per cacciare lo straniero, era, si direbbe, precorrere al Mazzini. Esagerazione. Dov'erano più, al tempo del Tassoni, le lotte tra comune e comune, o anzi, dove erano i comuni, i Guelfi e i Ghibellini, il potestà, il carroccio e sopra tutto dov'era la libertà? A chi si rivolgeva egli, al popolo o ai principi? Al popolo no certamente, poichè il Tassoni non lo capiva che come plebe, e del resto non ci voleva gran testa per intendere che gli Italiani del seicento potevano levarsi a qualche sommossa, ma ad una rivoluzione mai. E nemmeno poteva rivolgersi ai principi, senza forze e senza volontà di scuotere il giogo spagnolo. Avrebbe quindi predicato al deserto il verbo della unità nazionale; ma il vero è che all'unità non pensava allora nessuno, nè il Tassoni, nè il popolo, nè i principi, se pure nei torbidi sogni dell'ambizione non ci pensava Carlo Emanuele, non per fare un poema, ma per fare un regno.

Per gli intenti morali che sarebbero nascosti nella Secchia basti il ricordare l'episodio di Bacco e di Venere, i canti del cieco Scarpinello e le sciagure coniugali del conte di Culagna. Chi volesse sillogizzare potrebbe sostenere che l'intento non fu morale, ma immorale; il vero è che non fu nè l'uno nè l'altro.

[343]

No, io non mi posso persuadere che il Tassoni fosse un carbonaro o un riformatore. Certo che volendo far ridere bisogna pur trovare un argomento adatto, e gli Dei di Omero e i paladini di Carlo Magno erano frolli abbastanza per essere cucinati a quel modo. Certo che frustando a destra e a manca, qualche frustata colpisce chi se la merita; ma l'intenzione del poeta non era nè politica nè etica, era solamente artistica.

La Secchia rapita è dunque soltanto un'opera letteraria, una parodìa indovinata dei poemi cavallereschi, una caricatura dell'Olimpo di cartone abusato dai poeti, una morsicatura ai cruscanti della rigida osservanza in quei tempi dell'Infarinato e dell'Inferigno. Tale fu il primo poema eroicomico, forma facile e volgare dell'arte, segno di decadimento letterario come la satira e il romanzo, secondo ci mostrano le letterature decadenti di Grecia e di Roma. I popoli e i tempi hanno l'arte che meritano, e quando i poeti non cantano più per Mecenate o per Leone X, ma per la folla, bisogna pure che cerchino di piacerle, che respirino nell'ambiente suo e che da lei s'inspirino e scelgano le forme artistiche della decadenza quando la società è decrepita. Così fece il Tassoni, e l'opera sua rimane come pietra miliare che segna la civiltà e l'arte di un'epoca, opera di buon gusto, di ingegno vivo, di facile [344] vena, ma opera di second'ordine. Già, nel suo secolo, se mancava la fiamma sacra, se gli scrittori insanivano dietro ai concettini artificiosi od alle iperboli tonanti, la tecnica ad ogni modo era posseduta a perfezione. A frugare nelle montagne di versi che ci lasciarono mille poetastri, non se ne trova uno duro, stonato, enarmonico. Se si potessero gustare i versi come la musica e fare astrazione dalle parole, la poesia avrebbe raggiunto il suo culmine nel seicento, tanta è la sonorità musicale che anche nei mediocri si trova. Ma purtroppo le parole bisogna sentirle e sono troppo noiosamente sciocche nei più per non sentirne l'uggia. Pochi non impazzirono, e fra questi il Tassoni, che pure alle bizzarrie era inclinato e da giovane aveva poetato come gli altri ubriachi. Si mantenne anche nel poema castigato e naturale e bisogna tenergli buon conto di questa prova di gusto artistico eccellente, poichè mantenersi immuni dal vizio tra i viziosi è difficile. C'è più merito ad esser Lot puro in Sodoma che Aron puro nel tempio.

Il poema ebbe un effetto enorme, maggiore forse di quel che il poeta avrebbe voluto, poichè ammazzò il poema eroico forandolo proprio nel cuore, mentre anch'egli meditava e cominciava un Oceano che doveva cantare le glorie del Colombo. Dopo la Secchia non fu più possibile e [345] tollerabile in Italia poema che non fosse eroicomico, e tanto son pecore matte ed imitatrici i poeti, che alla colluvie dei poemi eroici successe ben presto il flusso degli eroicomici, e l'imitazione dilagò, valicò i monti e figliò a suo tempo buona prole come il Riccio rapito, il Lutrin e la Pulcella d'Orleans. Tutta questa letteratura vanta per solo padre il Tassoni, poichè le querele del Bracciolini, che mal gli contese la priorità, furono giudicate, e del resto lo Scherno degli Dei, principe nel regno dei libri noiosi, non poteva avere e non ebbe effetto alcuno.

Ma la trivialità che nel Tassoni di rado è sguaiata, peggiorò nei figli e nei nepoti, e quasi subito dopo, vediamo l'incanagliamento della Secchia nel Lambertaccio del Bocchini che vorrebbe essere una risposta bolognese al poema modenese e non è che una seccatura grondante volgarità. Si cade sempre più in basso, come a ruzzoloni per una scala, lo spirito diventa sboccatura, le frasi si razzolano in mercato e il comico diventa buffoneria di pagliaccio. Eppure la storia delle lettere poteva indicare l'esempio della Nencia dove il rozzo parlare dei villani e la bassezza dei sentimenti sono con tanto gusto lavorati dall'arte, che lo scherzo talora olezza della soavità dell'idillio. Ma siamo sempre lì; erano i tempi del Gran Duca Cosimo II, non quelli del [346] magnifico Lorenzo, e l'arte era come quei tempi la volevano e la meritavano. E questi furono i tempi, questa la vita, queste le opere di Alessandro Tassoni. Quel che fosse come uomo lo dicono l'acredine mordace ed il pessimismo bizzarro, i quali, anche nello scherzo, ci lasciano la bocca amara. Il perchè è da cercare così nell'indole come nelle vicende sue di gentiluomo decaduto e bisognoso, costretto in servitù e inacetito dalle delusioni delle corti, dalle umiliazioni del servire, dalle lividure della emulazione e dell'invidia. Un carattere ed una vita così fatti non dispongono l'animo alla benevolenza, all'amore, al rispetto del proprio simile, e il Tassoni non rispettò nessuno, nemmeno i preti, coi quali allora non si scherzava. Conscio del proprio ingegno, si rodeva dentro vedendo il poco frutto che ne poteva cavare, e quando poteva scioglier la lingua, la sua parola putiva di fiele. Un altro perchè si può cercare nell'assenza dell'eterno femminino nelle sue opere e nella sua vita. Qual poeta, per piccino che sia stato, non cercò una donna per la rima e pel bacio, madonna Bice purissima e ideale o mona Belcolore fiorente e tangibile? Ma nel Tassoni la donna si cerca indarno e da per tutto, specialmente ne' Pensieri, trasuda da lui una itterica persuasione della imperfezione e della inferiorità muliebre, traspare una antipatica [347] ottusità di sentimento che gli cela ogni fior di gentilezza. Pare che abbia il gusto malato e pervertito perchè sente l'odor del concio, non quello delle rose, e l'unica donna che traversa per poco la sua vita fegatosa è una Lucia Graffagnina, più serva che druda, la quale lo compromette col Santo Ufficio e gli partorisce il bastardo Marzio da lui trascurato, riconosciuto, maltrattato, scacciato e quasi aborrito. Anima arida, cuore di legno, in nessuna pagina delle sue opere, in nessuna ora della sua vita manda un fioco barlume di sentimento. Chiuso in tutte le piccole vigliaccherie dell'egoismo, non ha una frase per la patria o per l'amore che non sia di scherno, e tanti, minori di lui, l'avevano pure; contorta, affettata, barocca, ma l'avevano. Solo il riso amaro, il sarcasmo, l'ironia sono nella sua bocca e i fiori che ci porge grondano di veleno e l'arte squisita è scelleratamente tentatrice a cose non degne.

Non è questa l'arte da imitare, sia pure nel furore delle polemiche, non è questa l'arte che è sogno di tutte le anime; che se l'arte deve esser questa, muoia pur l'arte. Se dobbiamo serrarci in una Atlantide bieca, dove l'odio vinca la bontà, dove i baci diventino morsicature, dove tutto goccioli tossico e bava, muoia pur l'arte. Ma non morrà perchè voi, Donne e Signore, nell'arte [348] ci siete pure per qualche cosa e gli occhi vostri parlano e dicono: “o non verrà anche per l'arte il giorno dell'amore?„ E pure il sole ride ancora sui colli verdi d'ulivi e fragranti di rose: e pure in fondo ai cuori vigila sempre il vivo, il santo, il giocondo desiderio d'amare; e pure in voi, Donne e Signore, è sempre l'anima buona e misericorde di Beatrice, di Laura e, nol dico per male, anche di Fiammetta. Che, dovremo odiar sempre, maledir sempre, morire come cani arrabbiati mordendoci le viscere a vicenda? No, voi, Donne e Signore, nol consentirete. Voi non vorrete l'insipido e perpetuo miele d'Arcadia, ma nemmeno il vituperio di questo livore giallo che avvelena l'arte e la vita. Non lo vorrete, non lo volete, poichè nella luce serena de' vostri occhi, ciascuno di noi legge: “Ecco la primavera. Amiamo!„

LA

VITA ITALIANA

NEL

SEICENTO

_____

III.

ARTE.

I Carracci e la loro scuola Adolfo Venturi
Barocchismo Enrico Nencioni
La commedia dell'arte Michele Scherillo
La musica del secolo XVII Alessandro Biaggi

MILANO

Fratelli Treves, Editori

1895.

PROPRIETÀ LETTERARIA

Riservati tutti i diritti.

Tip. Fratelli Treves.

[350]

Share on Twitter Share on Facebook