VIII.

Dove sono più, o signori, i nomi de' Ducci, de' Sigismondi, del Pellegrini? Cancellateli pure, e se toglierete qualche cosa alla legge de' contrasti, non toglierete nulla alla storia del nostro pensiero. Possiamo dire altrettanto del Bruno, di Galilei, di Campanella? Toccateli: la mano vi trema. Ben ci è chi vorrebbe cancellarli, ma le sillabe del pensiero sono immortali, e ciascuna fa parte di quel discorso continuo che si chiama progresso. Trasferendovi, in fatti, col pensiero dal secolo XVII ai seguenti, voi trovate che il principio di causalità, come fu integrato da Bruno diviene la legge di evoluzione de' nostri tempi. Evolversi è causarsi. Trovate che la matematica di Galilei si estende a poco a poco nel campo delle altre scienze, che non possono essere pagine sparse di un libro insignificante, ma debbono farsi capitoli e corollarî del libro unico indicato da Telesio e misuratamente determinato da Galilei. Già il tentativo di allargare la matematica alle altre scienze fu cominciato immediatamente nella scuola istessa di Galilei, dal suo discepolo Vincenzo Viviani. Trovate, in ultimo, che l'unità umana vaticinata da Campanella diventa [231] dichiarazione de' diritti dell'uomo nel secolo passato e dichiarazione de' doveri dell'uomo nel secolo nostro. Al secolo che si avvicina - voi lo presentite - non toccano dichiarazioni ma soluzioni, e questa, prima di ogni altra, l'equilibrio tra' doveri e i diritti, il quale si chiama giustizia.

Tra il comunismo del filosofo calabrese e l'individualismo della prudenza conservatrice la lotta fu e durerà lunga. Ma considerate che la storia non ha dato assolutamente ragione a nessuna delle due parti, e che il secolo nostro cerca una risultante, ora col nome di collettivismo, ora con altri nomi e provvedimenti. Non curate il nome, certo è che la risultante s'impone.

Comunisti no, individualisti neppure, e il secolo nostro si affatica alla ricerca di un equilibrio, di un contemperamento. Ma di risultante non si parlerebbe, se già que' due termini estremi non fossero stati posti dal pensiero, il quale quello è che dopo aver tocco gli estremi si adagia nel medio.

Badiamo, dunque, alla parola modernità. Se è fondata sulla evoluzione, deve riconoscere i germi ond'è formata, e non può ignorare i pensieri e le fatiche de' nostri grandi: se no, è moda, è leggerezza, non è modernità. Con quale animo eleveremo un monumento a Galilei a Pisa, a Bruno [232] in Roma, ad Arnaldo in Brescia, a Dante in Ravenna, senza averli prima allogati nella série dei nostri pensieri, senza avere inteso il significato della Città terrena in Petrarca, della Città filosofica in Campanella, insomma del regnum hominis di Bacone?

Troppo - tenuto conto del tema così vasto e del poco tempo - io sento i vuoti dell'esposizione, ma sento non inutili le poche faville, come voi sentite che ho parlato di cose che ho letto con amore e per molti anni. Compirò il mio pensiero a Pisa, parlando di Galilei.

Altrove sarei riuscito oscuro. A Firenze no: qui parla l'aria, ogni pietra commenta ed illustra le mie parole. E parlando di quelli, io mi esalto e mi sottraggo all'oscurità di questa ora. Sul pensiero di quelli è fondata l'Italia e non può perire. Nel nome di quelli in me in voi è incrollabile la fede nella missione, nell'avvenire del nostro paese. Chi dubita, chi insidia non ha vissuto la vita del nostro pensiero, non conosce l'eredità trasmessaci e che dobbiamo, aumentata, trasmettere. La crisi è momentanea. Noi siamo appena all'alba della nostra giornata.

[233]

Share on Twitter Share on Facebook