LA DECADENZA DI VENEZIA

CONFERENZA

DI

Pompeo Molmenti.

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Il dì 4 maggio 1597, Venezia festeggiava con pompa meravigliosa l'incoronazione della moglie del doge Marino Grimani. Mentre la primavera accendeva bagliori nel cielo veneziano, passavano, fra il popolo tripudiante, i patrizi vestiti d'oro e di broccato e le gentildonne scintillanti di gioielli. Le corporazioni delle arti sventolavano i serici gonfaloni lungo il canal grande, su barche parate di stoffe a colori smaglianti, di veli stelleggiati d'oro, di piume, di fiori, di ornamenti.

La dogaressa, già matura d'anni, dall'abito di broccato giallo, splendida di gemme, circondata da gran numero di patrizie biancovestite, porgea veramente l'immagine di Venezia, che sotto un aureo manto di paramenti e di cerimonie copriva le offese della senilità.

Infatti la soverchia agiatezza, derivata dai [136] lauti e secolari guadagni, e il lusso cominciavano a grado a grado a intiepidire prima e poscia ad infiacchire l'operosità dei nobili. Il commercio avea preso altre vie, e quando, nel luglio del 1501, si seppe a Venezia che le navi portoghesi reduci dalle Indie erano rientrate a Lisbona, cadauno ne rimaxe stupefacto, dice un cronista contemporaneo, il Priuli. “Fu la peggior nuova dal perdere la libertà in fuora,„ aggiunge con nobilissima frase lo stesso cronista, a cui la rovina minacciante Venezia non facea dimenticare che tolta la libertà ogni altro bene è per niente.

La lotta di Cambrai, in cui Venezia sola avea sostenuto l'urto di tutta Europa collegata ai suoi danni, avea diminuite le sue ricchezze, logorate le sue forze. Nè potea colla pace riacquistare la gagliardia dinanzi alle continue minacce del turco e fra le incessanti agitazioni d'Italia. Ma Venezia disdegnava mostrare il suo scadimento e con la magnificenza volea abbagliare il popolo e far credere agli stranieri di non essere per anco discesa da quel culmine di possanza, ove avea posato alto un giorno, arbitra del destino di Europa. E invero alla rovina del commercio potea contrapporre la gloria, se non sempre la fortuna delle armi e l'accorta saggezza della sua diplomazia. E la militare virtù e i meditati partiti degli statisti sovvennero la patria di opera e di [137] consigli anche nel secolo XVII, mentre a quest'ultimo riparo delle libertà italiane sempre più oscuravansi i fati, e rapidamente scemavano il dominio e il tesoro.

Seicento è sinonimo di decadenza e di corruzione, e come si dice che le arti in quella età delirarono, così una parzial critica afferma che l'Italia cadde nell'abisso dell'avvilimento e della putredine. E infatti chi guardi un aspetto solo del gran quadro della vita italiana e veneziana in ispecie, non potrà negare che il giudizio sia ingiusto.

Ma la vita degli Stati si porge molto complessa e chi soltanto un lato ne esamini non potrà farsene un'idea esatta. Così nel seicento a Venezia, accanto a vizi, a colpe, ad errori, che non sono il triste privilegio di quel secolo, ma che le condizioni particolari di quel secolo fecero crescere con fecondità esuberante, noi vediamo pur brillare virtù e pregi di sì viva luce, da trovarne radi esempi simili nelle forti età precedenti, da non trovarne di eguali nei susseguenti anni di maggior decadenza. In quel crepuscolo della vita veneziana, fra le recenti memorie di gloria e di conquista e la decrepitezza, conseguenza delle leggi inevitabili della fatalità storica, cessa il composto vivere civile, le forze morali si spiegano con effetti vari ed [138] opposti, e uomini e cose vivono di una vita procellosa, eccessiva. Mancando quella serenità nell'animo e negli ingegni, che dà un corso ordinato e quasi armonico alla vita, l'uomo crescendo nell'esuberanza di quel mondo invano trova l'equilibrio morale ed è quasi agitato da scosse convulse. Ma come nel regno fisiologico molte regressioni sono compensate da un grande sviluppo in altre direzioni, così virtù e vizî, eroismi e codardie, sacrifizi e prepotenze si manifestano in strano viluppo, con energia esagerata e nel male e nel bene. Perciò guerrieri fortissimi che rendono alla patria la vita gloriosa e malvagi violenti, che fanno servire la spada alla soddisfazione dei capricci più iniqui; severi pensatori nei quali l'altezza della mente è pari a quella dell'animo e uomini che abbassano l'ingegno alle cupidigie più infami; scrittori temperati, sereni, e poeti artificiosi, turgidi, falsi. E la cupidigia dei materiali godimenti di rincontro al desiderio dell'idealità, la protervia al sacrifizio, l'ira cieca ed impetuosa al vigilante sentimento della giustizia, l'energia delle passioni all'abbiettezza dei sentimenti, i febbrili desideri agli ozii infecondi, le generose fidanze agli sterili disinganni, tutto un movimento turbinoso, di concepimenti, di aspirazioni, di sensazioni, a cui per essere fecondo non mancano se non la misura e [139] l'equilibrio. Quanti aspetti offre la vita veneziana!

Sotto i portici del Palazzo, patrizi che ravvolgono meditabondi nella mente qualche trattato utile alla patria e patrizi che mercanteggiano il voto: su la piazza belle dame dalle vesti piene di gioielli e dagli occhi pieni di sorrisi e folla gaia, allegra, operosa, intrighi politici e intrighi d'amore, odi violenti e piaceri raffinati, discussioni letterarie e racconti guerreschi, battaglie gloriose e infami violenze.

Fra esorbitanze e contraddizioni, che parrebbero escludere il senso della misura e della giustizia, il governo veneziano seppe mostrarsi freddo, risoluto, concorde, appunto in sull'aprirsi del seicento, di questo secolo generalmente considerato un'età di spiriti fiacchi e avviliti. Ora tra le pagine della storia veneta ve ne sono molte più insigni, per fatti guerreschi, per ardui conquisti, per accorgimenti diplomatici, ma non certo una più nobile per energia di convinzioni e per indipendenza di sentimenti di quella che scrisse il governo veneto col suo contegno rispettoso, ma fermo colla corte di Roma, durante l'interdetto di Paolo V.

Dissapori fra Venezia e Roma esistevano da lungo tempo. Il fatto di due ecclesiastici, il canonico vicentino Saraceni e l'abate di Narvesa [140] Marco Antonio Brandolin, voluti esaminare e processare dai Dieci non badando alle proteste del vescovo e del nunzio, che li richiedevano come soggetti a sè, fu l'ultima occasione delle fiere intimazioni del papa. Alle quali rispondendo il Senato non voler ribellarsi alla Chiesa, nè promuovere scismi, ma voler salva l'integrità delle patrie leggi, il pontefice, il 16 aprile 1606, sottopose Venezia all'interdetto. Il Senato accettò la sfida senza eccessi di fierezza, ma anche senza quella mitezza la quale è una qualità che in certi casi sa di poco; vietò severamente ad ognuno di accettare e pubblicare le bolle pontificie; bandì cappuccini, gesuiti, teatini, che a ciò non s'adattavano, e fe' pubblicare la difesa delle sue ragioni. Venezia dichiarando sempre la sua fedeltà alle dottrine cattoliche, ordinò al clero di non smettere gli atti del culto, non badando all'interdetto del papa, perchè contrario alla Scrittura e ai canoni della Chiesa.

La coscienza pubblica approvava un tale contegno ed aiutava il governo nella sua lotta: il popolo continuava ad assistere alle funzioni religiose, come se nulla fosse.

Io non ripeterò la storia dell'Interdetto, che tutti conoscono, non dirò come il Senato facesse rispettare i suoi ordini, e come, ad esempio, al prete che per sapersi regolare aspettava l'inspirazione [141] dallo Spirito Santo, i Decemviri rispondessero di essere già stati inspirati dallo Spirito Santo di impiccar tutti i disobbedienti. Non ripeterò altri aneddoti troppo noti, in cui la Repubblica dimostrò quella forza di governo, che non è già nervosità morbosa, ma viva energia, che alle volte s'intreccia a certa arguzia maliziosa. Nè dirò come Venezia sia uscita dignitosamente vittoriosa.

Vittoriosa da una lotta per incontrarne un'altra, non meno ardua. Una nazione rivale mirava ai danni della Repubblica: la Spagna - forse perchè Venezia, sola in Italia, avea mantenuto alta la dignità contro la burbanza spagnuola, che mirava al dominio di tutta la penisola. Spagna soffiava fra gli accesi litigi di Venezia con Roma. E i torbidi suggerimenti di Spagna davano coraggio all'Austria per alimentare la lunga guerra degli Uscocchi, che correvano l'Adriatico tentando di ruinare il commercio di Venezia e logorarne le forze. La selvaggia fierezza di quei pirati giovava all'Austria per tener desta la lotta fra le due nazionalità italiana e tedesca pel dominio dell'Adriatico. E così le onde di quel mare italiano erano tinte del sangue dei figli di una medesima terra: perchè erano in molta parte dalmati gli Uscocchi, erano in molta parte dalmati i marinai delle navi veneziane. Se da quelle [142] lotte trascorriamo ai nostri tempi, curiosi raffronti si offrono alla mente! Lissa non fu vittoria dell'armata austriaca. Gli equipaggi delle navi austriache erano in gran parte composti di dalmati figli e nepoti di quei fedeli sudditi di San Marco che furono consorti a Venezia per quanti secoli quasi la storia rammenta. E cresciuti alle antiche tradizioni marinaresche venete erano molti degli ufficiali al servizio degli Absburgo. Lo stesso Tegethoff era stato allievo dell'antico collegio di Sant'Anna a Venezia, ove avea contratto coi suoi colleghi amicizia fraterna. E quando, fra il rumor della mischia e il fumo dei cannoni, vide sommergersi il Re d'Italia chiese con ansia notizia dei naufraghi, fra i quali credea fossero alcuni suoi antichi e affezionati compagni di collegio.

Ma contro Venezia non posava il mal animo di Spagna e ne è prova la congiura che il marchese di Bedmar, ambasciatore spagnolo presso la Repubblica, ordì insieme coll'Ossuna vicerè di Napoli e col Toledo governatore di Milano. Al governo di San Marco dovea succedere la sovranità di re Filippo III: ardersi l'Arsenale, invadersi il Palazzo ducale, uccidersi i maggiorenti. La congiura fu scoperta e la Repubblica non andò lenta nel punire colla morte i rei principali. Con mente deliberata e cuor fermo sentiva essa che l'indulgenza [143] comprende molte volte in sè offesa alla legge e turbamento agli ordini sociali, e che nella severità delle leggi sta la salvezza della patria.

Certo questa alta idea del dovere che imprime negli animi il sentimento di una fatale necessità suggerì la condanna di Antonio Foscarini, il cui nome, circondato dalla pietosa fantasia dei poeti, è divenuto una leggenda romantica, che servì di tema alla tragedia di un poeta e patriota illustre. È nota la tragedia del Nicolini.

Antonio Foscarini, innamorato di Teresa Navagero, parte per straniere contrade, in servizio della Repubblica. Teresa intanto è costretta a maritarsi con un Contarini. Quando il Foscarini ritorna, sfoga la sua disperazione cantando in gondola, sotto i veroni dell'amata. Teresa si decide ad accordargli segreto colloquio, certa per la purità dei costumi di lui, ch'essa non correva alcun rischio nell'onore. Mentre il Foscarini e Teresa ricordano dolori senza rimedio, affetti senza speranze, sopraggiunge il marito, e ad Antonio, per salvar la vita e la fama alla sua donna, non resta altra via, se non quella offertagli dal contiguo palazzo dell'ambasciatore di Spagna.

Ora bisogna sapere che una legge dichiarava reo di morte chi entrava furtivo nel palazzo di un ambasciatore straniero.

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Il Foscarini è scoperto dagli sgherri dell'Inquisizione di Stato, dinanzi alla quale tace il motivo, per cui entrò nella casa dell'ambasciatore, e nol svela nemmeno al padre suo, che è doge. Veramente doge era allora Antonio Priuli (1618-1623), ma son licenze poetiche. Infine Antonio Foscarini è condannato a morte e Teresa Navagero si uccide.

E così anche dal Niccolini, come dal Byron, da Victor Hugo, dal Manzoni, per parlar solo dei maggiori, si scrisse la storia di Venezia.... in versi.

È vero, l'innocenza del Foscarini fu confessata dal Consiglio dei Dieci con atto solenne e nella chiesa di Sant'Eustachio si pose al nome dello sventurato patrizio un ricordo marmoreo che ne riabilita la memoria. Ma la calunnia dovea essere con abile malvagità preparata, se la sua reità era così comunemente creduta da non trovar fra i giudici uno solo che parlasse in sua difesa. E se innocente veramente egli fu, il governo che riconobbe l'innocenza del Foscarini, con esempio unico nella storia, potea giustificare il suo errore con le vicende dei patrizi Angelo Badoer, Giambattista Bragadin, Giovanni Minotto, che mostrano la perfidia di Spagna e la corruzione di taluni patrizi.

Certo è, nè la storia il nega, che fra i nobili [145] serpeggiava profonda la corruzione: il lusso era fomite a basse azioni, la scellerata avidità dell'oro spingeva a infedeltà, a intrighi, a brogli nelle elezioni, a concussioni, a rapine, a sozzure.

Parecchi, intenti ai grossolani piaceri della vita, rotti alle lascivie, occupavano il tempo fra mascherate, ridotti, conviti, giuochi, balli, feste, teatri. Le esigenze ognor crescenti del lusso assottigliavano le ricchezze accumulate dagli avi, come il voluttuoso vivere scemava le energie dell'animo e del braccio.

Le donne ci appaiono tra mille colori e sprazzi e barbagli d'oro e d'argento, tra una lieta fantasmagoria di lunghe vesti seriche, di broccato, di drappo d'oro, di velluto ricamato. Le carni rosee traspaiono a traverso i merletti finissimi di Burano, o tra i lembi delle camicie leggiadramente lavorate in oro, in argento, in seta; i busti gioiellati disegnano le forme, e dalle spalle cadono cappe e robboni, foderati di pelli preziose. Nè a tanto scialacquo possono opporsi in alcun modo le leggi suntuarie, che prescrivono un limite al valore dei panni, delle vesti e a quello delle minuterie.

La bizzarra calzatura degli alti zoccoli, che le donne aveano inventato nei primi tempi per non imbrattarsi col fango delle vie e che fu poscia causa di un lusso sfrenato, si andava abolendo. [146] Uno scrittore francese del seicento narra, a questo proposito, un aneddoto curioso. Le figlie del doge Domenico Contarini furono le prime veneziane che smettessero quest'uso e un ambasciatore discorrendo un dì col doge e coi consiglieri degli altissimi zoccoli usati dalle veneziane, incomodi così da aver mestieri per camminare d'essere sostenute, lodò le due patrizie Contarini, che avevano prescelto le scarpette, senza paragone più comode. Pur troppo comode, pur troppo! esclamò con faccia scontenta uno dei consiglieri, che sarà stato probabilmente un marito e avrà ritenuto quella specie di alti trampoli un'invenzione prudente a garanzia della felicità coniugale. Infatti la donna scende dal suo piedestallo, perde a poco a poco l'aria di cerimonia rigida e obbligatoria, si mesce alla folla, corre ai convegni allegri, ride del suo più gaio e gentile sorriso, contenta dell'oggi, fiduciosa del domani.

Le donne eleganti, briose, allegre, nervose, diverse d'indole, di pensieri, di costume dalle veneziane gravi e maestose dei secoli precedenti incominciano una vita di dolci imprudenze, di sensazioni inebrianti, di desiderî, di concupiscenze, di eccitazioni, fra i complimenti e le riverenze, le visite e le conversazioni, fra lo svolazzare delle penne e dei nastri.

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In una relazione Della città e Repubblica di Venezia, che si conserva nella biblioteca Ambrosiana, sono scritte queste significanti parole: in materia di donne basta in Venetia haver maniera, pacienza e denari.

Negli stessi conventi, dove da lungo tempo era penetrata la licenza del costume, il lusso e la corruzione toccavano l'eccesso. Molte fanciulle prendevano il velo costrette dai genitori e nella solitudine del chiostro vagheggiavano mille immagini di bellezza e di piacere. Vestono alcune monache, dice una scrittura contemporanea, più lascivamente, con ricci, con petti scoperti qual dell'istesse secolari e molte hano loro innamorati, i quali uano spesso a uisitarle e confabulare, essendo tra loro continuo trafico de presenti, e perchè quasi tutti Monasteri hano quatro o cinque conuerse che uano per la città cercando elemosine e facendo altri seruitij, molte ne servono come per.... e lasciamo la brutta parola nella penna dello scrittore anonimo.

Quando il principe di Toscana, poi granduca col nome di Cosimo III, venne il 1628 in Venezia, ammirò le monache vestite leggiadramente, con abito bianco alla francese, busto di bisso a piegoline e trine altissime, il seno mezzo scoperto, e su la fronte un velo piccolo, sotto il quale uscivano i capelli arricciati.

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Nella citata relazione su Venezia della Biblioteca Ambrosiana sta ancora scritto: Essere la salute della repubblica l'avere il popolo effeminato che viene ad essere infingardo.

Nelle repubbliche come presso i sovrani fu sempre arte di stato addormentar coi piaceri le passioni e i pericolosi desideri di soverchia libertà. Ma le passioni alle volte si risvegliano all'improvviso, e quando non sono volte a nobili indirizzi trascorrono sovente ai fatti più atroci, ai capricci più iniqui. Il coraggio quando non serve a onesti intenti si muta spesso in ferocia, e destandosi alla fierezza impara crudeltà. Così in mezzo alla vita veneziana molle, gioconda, che pare un carnevale continuo, ci arrestano le avventure di alcuni tracotanti, che si arrischiano ad imprese per le quali si stimerebbe appena che vi fosse stato in quei tempi animo di divisarle e braccio da eseguirle.

Proviamoci a risuscitare una di quelle scene di prepotenza e di delitti, che, meglio di lunghe descrizioni, possono dare una idea del tempo e del costume.

La sera del 28 febbraio 1601, v'era festa di nozze nella casa dei patrizi Minotto. Sapete, una di quelle mirabili feste veneziane, in cui gli appartamenti suntuosi dalle stanze tappezzate di broccato e di arazzi, scintillanti di vetri e di [149] specchi di Murano, erano condegna cornice alle belle donne vestite di raso e di damasco, scintillanti di perle e di gioielli. I suoni erano incominciati e la novella sposa, ballando sola una specie di minuetto, avea dato principio alle danze, quando entrava nella sala un giovine patrizio di membra vigorose e spigliate, Leonardo Pesaro, tipo di suprema scelleratezza. Il tracotante giovine vide in un angolo un altro patrizio, Paolo Lion, col quale avea vecchia ruggine, e accostatosi all'avversario, che stava insieme alla sua fidanzata, lo insultò. Il Lion rimbeccò pronto al Pesaro, che uscì di casa Minotto, si armò, si unì ad alcuni altri amici arroganti e soverchiatori di professione, e tutti insieme mascherati ed armati si avviarono al palazzo dei Minotto, irruppero nella sala da ballo e spietatamente uccisero il Lion. Non paghi ancora, il Pesaro e i suoi continuarono gli insulti, le grida, lo schiamazzo, mettendo sossopra la sala, correndo per le stanze con le spade sguainate, ferendo quanti incontravano. Ne nacque uno scompiglio infernale. Le torcie erano tutte spente, tranne una tenuta dal Minotto, che, roteando con l'altra mano una sedia, difendeva la sua sposa adorna di perle e di gioielli d'inestimabile valore. Un soldato straniero, che tentava proteggere con la spada gli sposi Minotto, ebbe tagliate tre dita di una mano.

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Finalmente quelli che non poterono fuggire riuscirono a salvarsi rinchiudendosi nelle stanze. Più volte bandito, il Pesaro non rimetteva di sfidare la giustizia impotente ad agguantarlo, e coll'aiuto di alcuni amici pari suoi e di una mano di bravi, che teneva nelle campagne vicine a Venezia, commetteva d'ogni sorta violenze e rapine, ammazzando, ricattando, aiutando assassini, involando e stuprando fanciulle, rubando mercanzie, bastonando donne e preti e pagando i creditori con arcobusate. Leonardo Pesaro fu il più audace, ma non il solo illustre malandrino d'alto affare di Venezia nel secolo XVII. Fra i più bei nomi dell'aristocrazia veneziana troviamo molti banditi per colpe ignominiose.

Dinanzi alla pittura di una società così corrotta e al racconto delle imprese di tai briganti blasonati, si può credere, a ragione, ciò che taluni affermano che la vecchia repubblica fosse caduta al fondo della abbiezione più obbrobriosa.

Ma in questa età di violenti contrasti, alla decadenza morale, alle ribalderie dei soperchiatori, si possono contrapporre la nobile energia e i sacrifizi magnanimi di molti, nel cui cuore palpito supremo era la patria, però che la virtù non fosse inusitata nelle signorili dimore, e il senno pratico, acuto, previdente, guidasse i provvedimenti dei governanti.

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Chi consideri l'accortezza e la prudenza con cui Venezia seppe uscire dai litigi con Roma e dalle insidie di Spagna deve dar lode alla Repubblica. Ma può anche sorgere agevole l'osservazione che negli Stati tanto più intensa fiammeggia la luce del pensiero, quanto più intorpidiscono le virtù civili e militari. E in vero lo scorto maneggio e l'acuta osservazione della diplomazia celano alle volte la codardia dei popoli.

Un patrizio veneziano, Antonio Querini (m. 1608), narrando la storia della scomunica fulminata da Paolo V, faceva l'osservazione seguente: Saranno sempre alla Repubblica consigli salutari, per la forma del suo governo, per la natura et conditione de' suoi sudditi, et per molte inhabilità sue a imprese belliche, l'attender a conservar l'imperio, anzi con la prudenza civile, che con il valor militare, et abhorrir tanto la guerra, quanto farebbe la sua destrutione. Quel veneziano calunniava inconsciamente la sua patria, però che anche nel decadimento del più grande stato italiano risplenda il valore guerresco. Certo la pagina più sanguinosa ma più grande, più infelice ma più gloriosa della veneta storia è la guerra di Candia.

I Turchi già signori dell'Arcipelago agognavano al conquisto di Candia, importantissima isola, che i Veneti aveano comperata nel 1204 dal marchese di Monferrato. Colto un pretesto, [152] l'armata turca ruppe la guerra nel 1645 e prese la Canea. La vecchia repubblica seppe ancora trovare consigli audaci e opere gagliarde, e dal 1645, per ventitrè anni continui, seppe combattere, senza posa, battaglie marittime da giganti, rifulgenti d'eroismi, che hanno qualchecosa del leggendario e non sono vinti in paragone dai più memorabili fatti di Grecia e di Roma.

Dalla guerra di Candia, Venezia era uscita bella d'eroismo e di sciagura, vuota di sangue e di denari. L'erario pubblico era stremo e per adunare denaro e rinverdire il credito scaduto, il governo prese il partito di aprire il libro d'oro.

Così molti popolani doviziosi poterono per denaro essere ammessi al Maggior Consiglio. In questa conciliazione del vecchio sangue e del nuovo, in questa mescolanza d'idee, la Repubblica avrebbe potuto trovare una causa di vigoroso ringiovanimento, una feconda trasformazione nell'ordine nobilesco. A canto al rigido patrizio si trovava ora chi era giunto all'altissimo grado, aiutato solo da quella forza che resiste a tutti gl'impedimenti: la forza del lavoro.

A Venezia, asilo sicuro d'artisti e d'operai, venivano a fecondare le loro energie molti uomini operosi e costanti, e coll'abito del risparmio, coi frutti dello ingegno aveano fondato famiglie potenti. Dopo aver raggiunto le materiali agiatezze, [153] potevano ora assidersi nei consigli della Repubblica. Ma questi nuovi ricchi assunti al titolo nobiliare, nel contatto colla vecchia aristocrazia, non seppero con giovanile ardimento dominarla e ne subirono invece l'azione. I difetti dei risaliti non seppero evitare, non attesero più alle pratiche della mercatura, credendo avvilirsi, e presero a schifo la parsimonia nel vivere. Sentendo l'ambizione del nuovo stato in cui erano stati posti dalla fortuna, cercarono le delicature della vita, guastarono i costumi fra il lusso, e volendo emulare le vecchie casate, per far dimenticare la loro origine, instituirono fidecommessi pei primogeniti, destinando al sacerdozio e al celibato gli altri figli. Per modo che, dopo due generazioni, quasi tutte queste famiglie scompaiono senza lasciare alcuna traccia nella storia. - Non nella storia, nell'arte sì. Traccia inavvertita, azione nascosta, ma non per questo meno importante.

Le raffinatezze della civiltà, il desiderio acuto dei godimenti, lo sfoggio di genti spensierate prodighe dei risparmi accumulati dagli avi furono incremento all'arte, nella quale era, come nella vita sociale e politica, una dimostrazione infinitamente estesa di bene e di male.

La temperanza armonica delle varie facoltà dello spirito, che avea brillato di luce splendidissima nel quattrocento e non era scomparsa [154] del tutto nel cinquecento, cessa nel secolo XVII. Quindi concetti meravigliosamente grandiosi a canto a pomposa lascivia di forma, la quale nasconde meschini pensieri; artefici riboccanti di fantasia che ora trascorrono a tutte le stravaganze, ora studiano il vero con intendimenti che formano l'aspirazione e il tormento dell'arte moderna; e una soverchianza di vita giovanile a canto al delirar senile della decrepitezza.

L'arte trovava larghi incoraggiamenti nei nuovi nobili, che voleano dorare il recente blasone con ogni maniera di magnificenza. Così sorsero le maestose moli del palazzo dei Labia, ammessi al Maggior Consiglio nel 1646, del palazzo dei Rezzonico, ascritti al patriziato nel 1687, delle fantastiche decorazioni dell'appartamento degli Albrizzi, divenuti nobili veneti nel 1667, e via via.

L'arte barocca ha in Venezia un'impronta originale e stupenda. Nelle sue origini essa è come signoreggiata da un poderoso ingegno, che pur lasciando libero ogni freno alla fantasia ebbe pieno ed efficace il senso del reale. L'azione esercitata da Alessandro Vittoria sui decoratori e statuarî veneti durò lunga pezza e l'arte, fra le lagune, continuò per molto tempo a modellarsi sull'esempio di quel grande. È questo un periodo non ancora ben definito della nostra storia artistica e merita di essere considerato meglio che [155] non si sia fatto sinora. La critica badando al male non si è curata del bene, si è limitata ad osservare e a biasimare quell'affettazione di forza che tien del convulso, senza indagare l'anelito segreto che avea bisogno di esplicarsi in nuove forme, in espressioni nuove, il desiderio acuto di ardimentosa originalità, che in mezzo ad errori è pur sempre indizio di forte pensare. Si volea rovesciar tutta l'arte precedente; la brama d'investigare, di provare, di esperimentare, rivelatasi così cocente nella scienza, si manifestava anche nell'arte, brama non tenuta in freno dall'armonia e dalla compostezza della concezione. Si volea muover guerra alle linee rette palladiane e si cercava il bello nel difficile: alla purezza degli ordini romani si voleano contrapporre le pompe più trasmodate; alle fredde saviezze della sesta, le licenze di un'arte bizzarra.

Fra le sregolatezze dell'architettura e le incomposte bravure dello scalpello, che vuole emulare il pennello, la licenza non appare priva di magnificenza e di grandiosità.

E nella enfatica decorazione, complemento della vita fastosa, vi sono vizi e intendimenti non ordinari, vi è qualche cosa che non si può esprimere se non colla parola genialità. Imperocchè nulla di più falso che la genialità indichi sempre il massimo dell'equilibrio mentale; essa molte [156] volte anzi rampolla da disquilibrio e da ineguaglianze.

L'arte secentistica, colla sua varietà e ricchezza, improntò Venezia di un suggello, che ne compie l'aspetto e senza il quale sarebbe men pittoresca la meravigliosa città. E le aeree cupole, gli archi fastosi, gli ampi loggiati hanno effetti di così fantastica eleganza da parere inverosimile. Eppure gli artefici del seicento, che parea non dovessero sentire se non emozioni fuggitive e veementi, sapeano anche faticare il cervello e la mano nell'irritazione acre della ricerca, nella minuziosa, paziente investigazione del vero, cercando l'indole intima, la fibra nascosta delle cose, il cuore dalla realtà. Vi sono alcuni busti di Alessandro Vittoria, così meravigliosi per vita, da sembrar gettati sul vero. Lo studio della natura in taluni artefici di questo tempo, prende l'aspetto di un'acuta ed ansiosa curiosità, di una tormentosa analisi di tutte le deformità. Mi passa dinanzi alla mente - disgustosa visione! - un mascherone colossale, che chiude a serraglio la piccola porta del campanile di Santa Maria Formosa. È una testa enorme, mostruosa, ignobile, con una espressione di osceno sarcasmo. “Il pensiero umano„ dice il Ruskin, “non può cadere in uno stato più triste di degradazione.„ - Ebbene, quel mascherone [157] osceno ha fermata l'attenzione d'uno dei più grandi scienziati del secolo nostro, d'uno dei medici più insigni, che abbiano studiato le malattie morali delle moderne generazioni e strappato i più tenebrosi segreti della vita - il Charcot. L'illustre medico francese, guardando l'opera dell'ignoto scultore veneto, afferma che quella distorsione di lineamenti, che dà alla maschera un aspetto così schifoso e grottesco, non è l'effetto di una immaginazione bestiale. Lo scultore ha veduto co' suoi occhi quel tipo, l'ha colpito a volo, e l'ha riprodotto con una fedeltà, che ci permette di discernere una deformazione patologica speciale, una affezione nervosa così nettamente qualificata che è impossibile confonderla con nessun'altra. Come spiegare questa osservazione minutamente ricercatrice e questa insaziabile curiosità di spirito, che appena potrebbero comprendersi in un raffinato artefice moderno, con le impressioni rapide, affrettate, fantastiche, esagerate nella vita e nell'arte del seicento?

Così nè la morbida sonorità di alcuni poeti, nè le vacuità declamatorie di parecchi prosatori, poteano togliere gagliardia al pensiero e alla forma di Paolo Sarpi e di Battista Nani. La tranquilla armonia, la serenità imperturbata di taluni, formano singolar contrapposto col disquilibrio [158] di passioni, colla violenza di idee, col fare artificioso, concettoso, scolastico di altri scrittori, che non hanno se non il culto esteriore della frase. Nulla affatica più di quest'enfasi laboriosamente sublime, che mal copre l'assenza delle idee e per cui l'unica risorsa sembra essere una disperata ricerca di artificiose immagini e di metafore incoerenti.

Fra i rimatori di questo tempo, che andavano a caccia di metafore, di antitesi, di scherzi di parole, di equivoci, gli eruditi citano il procurator Simone Contarini, il cardinale Giovanni Delfino, Giovanni Quirini, Filippo Paruta, Bartolomeo Malombra, Francesco Contarini, Nicolò Crasso, Andrea Valiero, Sebastiano Quirini, Pietro Michiel e altri molti, che vivono solo fra i tarli delle biblioteche. Un solo nome è ancora ricordato e anche questo è un esempio di quei disaccordi, che danno l'impronta agli uomini e alle cose di questo secolo. Marco Boschini scrisse in versi veneziani un'opera, il cui titolo è veramente degno dei versi: La Carta del Navegar Pittoresco, dialogo tra un Senator venetian deletante, e un professor de Pitura, soto nome d'Eselenza e de Compare, compartìo in oto venti con i quali la Nave Venetiana vien conduta in l'alto Mar de la Pitura, come assoluta dominante de quelo a confusion de chi non intende el bossolo de la calamita.

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Ma fra la vana magniloquenza del poeta, il critico dà savi e giusti giudizi, specie guardando al gusto dominante. Era allora in gran voga Palma il giovane, facile e troppo fecondo artefice, ma dalla tavolozza lieta di vivide trasparenze, lo Zanchi pieno di audace bravura, Dario Varotari non indegno discepolo del Veronese, il Liberi, che ebbe il nome specchio all'indole sua, libero pittore di belle veneri ignude. - Tutti questi artefici compiono la decadenza, che il secolo XVI, coll'adorazione della forma, avea iniziata. In essi v'è il movimento, l'azione, la bellezza, lo splendore esterno, le energie dell'effetto, rado o mai l'intimo pensiero. Le bellezze opulenti si muovono in atteggiamenti procaci, in pose coreografiche. L'artefice non ha cura se non dell'effetto. Arte gaia, ricca d'immagini e povera d'idee, simile a donna il cui volto leggiadro non sia avvivato dal calore del pensiero, i cui occhi non rispecchino la luce dell'anima. Allegra e sensuale rappresentazione della vita, in cui i toni rossi, rosei, gialli, azzurri, si fondono in una stupenda armonia, che fa scintillare le tele, per dirla proprio col Boschini, d'oro, di perle, di rubini, di smeraldi, di diamanti, uniti ai fiori più smaglianti dell'oriente. Certo, specie nella pittura, l'arte scema di valore e si gonfia di boria: il colore non entra più, come nel secolo precedente, [160] nelle profondità del vero, ma si arresta alla superficie. Fra quel delirio e quella vertigine di tinte, l'arte abbaglia non crea, inebria, non commuove. Le rosee donne dalle fulve capigliature di Paolo e Tintoretto sono diventate anche più procaci nelle farragginose composizioni mitologiche. Le veneri mostrano, senza l'ombra del velo candidissimo, nudità di rosa e di velluto; i numi s'atteggiano muscoleggiando in enfatiche contorsioni; le ninfe e le nereidi danzano in un regno fantastico, fabbricato sulle nubi dei sogni. Pure in mezzo a tante stonature artistiche quante armonie pittoriche! Armonie che non esistono in natura, ma seducono, e alle quali s'uniscono l'effetto fascinatore, la prodigiosa abbondanza nel comporre, la grande abilità di mano. Ora fra il luminoso sfarzo di quell'arte che è una gaia festa per gli occhi, ma lascia senza emozioni il cuore, tra l'occhio educato alle movenze strane, agli scorci audaci, alle apoteosi di nubi, ai lucenti olimpi, dovea sembrare fredda e uggiosa l'aurora dell'arte veneziana, così ricca d'originalità, di sentimento, di fede.

Lodovico Dolce, molti anni prima, quando il lusso sfarzoso non avea ancora cacciato in bando la pura eleganza, avvertiva come, fra i trionfi dell'arte veneziana, si dimenticassero i pittori goffi del quattrocento, e le cose morte e fredde di Giovanni [161] Bellini, di Gentile e del Vivarino, le quali erano senza movimento e senza rilevo. Marco Boschini, venuto dopo, pur accogliendo le idee e i desideri dell'età sua, si mostrava più imparziale e più largo e abbracciava in uno stesso affetto il quattrocentista e il secentista, le delicate diligenze e le ardite trascuraggini, l'austerità e l'opulenza, Vettor Carpaccio e Palma il giovane. Sono arti diverse ma che hanno tutte e due i loro fascini. L'una parla al cuore - l'altra agli occhi - l'una vi dà il rapimento dello spirito - l'altra il fascino della carne. Certo il Boschini avea nella mente un concetto di un'arte libera e varia, un'arte che i trionfi del rinascimento e le bizzarrie della decadenza, la casta eleganza del segno e le febbrili fantasie rapidamente pensate, rapidamente eseguite, potesse unire nell'affetto medesimo e nel medesimo culto, ma l'ardito concetto del critico era soffocato dalla forma falsa, viziata, artificiosa, rettorica.

Fu cercato da molti il doloroso perchè di tale traviamento nell'arte, ma le spiegazioni a me paiono più ingegnose che vere. Si ripete che il decadimento dell'arte nostra si deve all'influsso dell'arte spagnuola e non si pensa che gli stessi difetti, le stesse colpe, gli stessi errori s'incontrano anche nella letteratura d'Inghilterra e di Francia. Non si pensa che è proprio della razza [162] latina la ricerca di concettini, di freddure, di giuochi di parole, di antitesi, non si pensa che tale corruzione, da cui Dante non andò esente, come non andò esente il Petrarca, abbondò nella letteratura cortigiana del quattrocento, s'acuì nel cinquecento, per svolgersi poi in licenziosa pompa nel secolo XVII. Il secentismo fu una gravosa eredità dei secoli precedenti e l'ebbero indipendentemente e contemporaneamente Spagna e Italia, Inghilterra e Francia.

Solo in questo tempo l'antitesi tra l'amore del semplice e del vero e il desiderio del manierato, dello strano, del concettoso si palesa con tinte più forti. In Ispagna accanto a Luigi di Gongora, principe dei poeti gonfi e manierati, sorgeva Velasquez, pittore calmo, chiaro, ben equilibrato, paziente osservatore della natura.

Così a Venezia, se fra il pattume delle accademie imputridivano le buone e forti idee, se la vacuità declamatrice della plebe letterata trovava libero sfogo nelle verbose dispute, in altri convegni altri ragionari erano riscaldati dalla fede in ciò che è vero e buono. L'animo si esalta pensando alle alte cose che si saranno discusse in casa di Andrea Morosini storico e politico insigne, che accoglieva fraternamente Galileo, Paolo Sarpi, Giordano Bruno, Leonardo Donato, Nicolò Contarini, Santorre Santorio, fra Fulgenzio [163] Micanzio e altri illustri. E mentre l'Italia nella servitù di Spagna perdeva armi, sostanze, ed are e patria e tutto, anche la memoria, in questo estremo lembo della penisola si rifugiavano come a sicuro porto gli animi, nei quali vibrava tutto ciò che è più eccelso e nobile nella natura umana. Mentre il pensiero italiano andava oscurandosi, nella casa tranquilla del Morosini si raccoglievano uomini, i cui nomi ricordano quanta parte di sapere per essi si innovasse nel mondo.

E mentre la letteratura, vuota di concetti e di passioni, si riduceva a un giuoco di forme, a una pazza ridda di metafore, nelle limpide notti veneziane Galileo affissava le stelle, e le stelle mormoravano alle orecchie dell'uomo i segreti del cielo.

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LA

VITA ITALIANA

NEL

SEICENTO

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II.

LETTERATURA.

La battaglia di Lepanto

e la poesia politica

Guido Mazzoni
Il pensiero italiano nel sec. XVII Giovanni Bovio
Galileo: sua vita e suo pensiero Isidoro Del Lungo
Giambattista Marini Enrico Panzacchi

MILANO

Fratelli Treves, Editori

1895.

PROPRIETÀ LETTERARIA

Riservati tutti i diritti.

Tip. Fratelli Treves.

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