ROMA E I PAPI NEL SEICENTO

CONFERENZA

DI

Domenico Gnoli .

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Ciascuna città riflette principalmente, nella pianta, nei monumenti, nel fabbricato, nella decorazione, nei prodotti dell'arte e perfin dell'industria, il gusto e l'indole d'un'età; di quell'età in cui essa raggiunse il massimo grado della prosperità e dello splendore. Così qui a Firenze tutto palpita della vita del Rinascimento, e nella Roma moderna impera sovrano il Seicento: esso le ha impresso il suo carattere, l'ha animata del suo spirito: il che specialmente è vero se, non attenendoci strettamente al rigor delle cifre, si faccia incominciare il Seicento dal pontificato di Sisto V, cioè dal 1585. Le antiche basiliche, le fabbriche del Rinascimento quel secolo ha trasformato in gran parte, secondo il suo ideale estetico, colla sicurezza di renderle più belle e magnifiche; e quel che resta d'intatto, si nota quasi come monumento storico, difforme dal carattere dominante. L'età posteriore ha camminato sull'orme di quel secolo.

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Il Cinquecento aveva dato con San Pietro il tipo della Chiesa Romana, e col palazzo Farnese quello del palazzo. Il Seicento applica, estende a tutta la città quei due tipi con una serie di variazioni degli stessi motivi. Chi dalla balaustrata del Pincio guardi il panorama di Roma, è colpito da una popolazione di cupole sorgenti grandi e solenni sovra il piano dei tetti. Quella di San Pietro, che campeggia gigante sull'orizzonte, fu voltata da Sisto V; seguirono quelle di Sant'Andrea della Valle, di San Carlo a' Catinari, di San Carlo al Corso, di Sant'Agnese ed altre. Sulle piazze e per le vie della città v'incontrate a ogni passo in una di quelle enormi facciate di chiesa, tutte di travertino, a due piani, selve di pilastri e di colonne, con angeli e santi agitati dal vento, quali Sant'Andrea della Valle, Sant'Ignazio, la Chiesa Nuova e tante altre; e se entrate in quelle chiese, quasi tutte le troverete a croce latina, con arcate intramezzate da pilastri; e sugli altari una orientale ricchezza di marmi colorati, d'oro e di bronzo uniti con un senso maraviglioso della policromia; sulle piazze i grandi obelischi eretti da Sisto V, e i minori della Minerva e del Pantheon da Alessandro VII e da Clemente XI. E i palazzi giganti tra il vecchio fabbricato, semplici e severi, senza lusso di decorazione nè ornato d'ordini architettonici [97] e le fontane nelle piazze, e le grandi mostre dell'Acqua Felice, dell'Acqua Paola e dell'Acqua di Trevi, quest'ultima, opera d'arte secentistica nel secolo successivo, tutto infine quello che più apparisce all'occhio, che prima colpisce il visitatore, è opera del Seicento.

E chi si affacci a quel gran teatro della Chiesa Romana che è la piazza di San Pietro, si trova innanzi a quel periodo della storia e dell'arte. Alessandro VII erigeva i portici, Paolo V la facciata della chiesa, Sisto V trasportava l'obelisco e voltava la cupola, Innocenzo XI compieva le due fontane. E nell'interno, l'opera di Bramante era trasformata in quel secolo: prolungata la chiesa, mutandone la pianta da croce greca a latina, decorata di stucchi e di marmi, aggiuntovi il grande altare della confessione e la cattedra; e sugli altari, opere del Domenichino, del Guercino, dell'Algardi, de' più famosi artisti del secolo. E lì, nelle grandi tombe, giacciono per la maggior parte i papi di quel periodo, di cui le figure grandeggiano, non più distese sull'urna, ma ritte in piedi o sedute, fra gli svolazzi delle statue allegoriche, i drappi di marmi colorati, e il bronzo e l'oro, ostentando morti la grandiosità, la magnificenza ed il lusso che professarono vivi.

Interprete del sentimento e della vita romana, [98] scultore e architetto officiale del papato, domina tutto quel secolo, tutta l'arte di Roma Lorenzo Bernini, che operò senza posa sotto nove pontificati. Egli fu detto corruttore, che meglio dovrebbe dirsi rigeneratore. Nelle acque stagnanti dell'arte con cui si apriva il secolo XVII, grande senza grandiosità, scorretta senza novità, egli portò il soffio potente del genio; la agitò, la mosse, fino a sconvolgerla in tempesta. Il grande, il magnifico, l'ingegnoso, l'appariscente, il maraviglioso, l'eccessivo, era lo spirito, l'ideale del tempo; e questo, Michelangelo meridionale, egli tradusse nell'arte. Non si guardi all'opera della vecchiezza, quando esaurite le forze, cercò nel bizzarro e nell'esagerato l'effetto; nè egli deve rispondere della turba scapigliata de' suoi seguaci; nè dei deliri dell'emulo suo, il Borromini, che gelosia pazza spinse a farsi della stravaganza una legge: ma nella gioventù e nella virilità egli seppe svolgere l'ideale del suo tempo entro i confini del bello; e come che si voglia giudicare quello stato della civiltà, egli ne fu certo il più grande interprete artistico. Ad una ricchezza esuberante di fantasia accoppiando una maravigliosa padronanza dei mezzi tecnici, egli profuse in Roma le sue opere immortali. La piazza di San Pietro, degna della cupola di Michelangelo, la scala regia del Vaticano, la fontana [99] dei fiumi sulla piazza Navona, sono opere che sorpassano i termini dell'ingegno per entrare nel campo del genio. E i papi di quel secolo, dalla faccia marziale, dai mustacchi alla Wallenstein, dal pizzo alla cavaliera, sono ancora nei marmi da lui scolpiti assai più vivi che non quelli di nessun altro secolo.

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Ma se le città pigliano forma dal periodo della loro maggior grandezza e prosperità, che diritto aveva il secolo XVII d'imprimere a Roma le sue fattezze? Non ha forse periodi di maggior grandezza il papato?

Il secolo decimosettimo per la Chiesa e pel papato non fu senza gloria. Il distacco di tanti popoli dal Vaticano per opera della Riforma, aveva risvegliato nella Chiesa una vigoria di cui non la si sarebbe creduta capace. Fu un lungo periodo di guerra, che dev'essere perciò giudicato coi criteri che governano lo stato di guerra; a questo stato corrispondono la dittatura del papato, e i tribunali dell'Inquisizione, veri tribunali marziali. Il mondo cattolico fu messo in istato d'assedio. La politica del Vaticano non ebbe altro fine che di far argine allo estendersi della Riforma, di soffocare ogni favilla che minacciasse [100] un nuovo incendio. Nessuna libertà, nessuna debolezza di fronte al nemico; ma unità di comando, ma obbedienza cieca, ma disciplina di ferro. E il nemico non era solo oltre i confini del mondo cattolico; chè il moto violento della Riforma aveva scosso tutta l'anima cristiana, agitato gl'intelletti, turbato le coscienze; e d'ogni parte pullulavano dottrine violente, bizzarre, contrarie, minacciando di rompere l'organismo cattolico, di dissolvere l'unità della Fede. La gerarchia episcopale era strumento insufficiente alla urgenza, alla gravità dei bisogni e dei pericoli. I nunzi apostolici, vero Stato Maggiore della Chiesa, teologi e canonisti, abili diplomatici, recavano a principi e a vescovi la parola del Papa, trattavano i più ardui negozi, stringevano alleanze, portando nel grembo, ora pieghevoli ora alteri, benedizioni e scomuniche. Gli Ordini Regolari, e sopra tutti i Gesuiti, posti sotto la diretta dipendenza del Papa, formavano la milizia mobile della Chiesa. Predicatori dai pulpiti, maestri nei collegi dei nobili e nelle scuole del popolo, assistenti negli ospedali, accorrenti dove ci fossero piaghe da lenire e miserie da sollevare, ad ogni bisogno della società corrispondeva l'Ordine, la Congregazione religiosa. La riforma interna della Chiesa, invocata invano per secoli dai Santi e dai popoli, ordinata [101] dal Concilio di Trento, ebbe in gran parte nel Seicento la sua esecuzione. In quella guerra fieramente combattuta colle armi spirituali e le temporali, fu salva bensì l'unità della Fede, ma a prezzo del pensiero soffocato, della libertà strozzata.

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Ma altro è la storia del papato altro è quella di Roma.

Città e papi non vissero nel medio evo di buon accordo; ma fu anzi un avvicendarsi di lotte e di convenzioni malfide. Ora i papi stettero in Roma racchiusi sospettosamente entro le mura della città Leonina, ora trasportarono altrove la loro sede. Col ritorno di Martino V, e meglio nel 1443 con quello d'Eugenio IV, ultimo papa cacciato dai Romani, i papi si stabilirono definitivamente in Roma. Ma la città e la Curia erano due cose distinte. Da una parte la vecchia popolazione scarsa di numero e di ricchezza; baroni, rozzi e guerrieri, che risiedevano spesso ne' loro castelli; nobili famiglie cittadine, date la maggior parte alla pastorizia e all'agricoltura, non ricche e prive di coltura e d'arti civili; plebe irrequieta e miserabile. Questa era la città che attorniava il Campidoglio. Dall'altra parte, al Vaticano, [102] c'era un santuario, e una corte ecclesiastica: una specie di convento, dove le istituzioni permanevano intatte, e un popolo di celibi vi passava dentro senza lasciare nè nome nè discendenza. Come nel palazzo pontificio, così in quelli de' cardinali, e ne' palazzetti de' protonotari apostolici, degli abbreviatori, degli officiali della Curia, continuamente cambiavano gli ospiti; mutava nome il palazzo, e spesso anche la piazza che gli stava innanzi e la strada; i potenti, i ricchi di ieri, sparivano senza lasciar traccia, nuovi sottentravano diversi di paesi, di costumi, di lingue, mentre altri s'affollavano, nella speranza di raccoglier presto la successione. Quando il Papa e la Curia si allontanavano da Roma, la città ne restava pressochè deserta.

Nello splendido pontificato di Leone X e sotto Clemente VII, alla vigilia del Sacco, ho trovato per un documento che vedrà in breve la luce, che la popolazione di Roma superava di poco i cinquantacinquemila abitanti; se ne togli la Corte papale e quelle dei cardinali, e i prelati e le corporazioni religiose e i seguaci della Curia Romana, Romanam Curiam sequentes, tutta cioè la popolazione mobile raccolta intorno al papato, di Roma non resta che un grosso villaggio. Dopo il Sacco, cioè nel 1528, la popolazione di Roma era ridotta a poco più che trentamila abitanti. Ma [103] da quel punto incomincia un lungo periodo di pace, interrotta solo dalla breve guerra del reame sotto Paolo IV; i baroni son ridotti a vivere civile; si ordina a poco a poco lo Stato, e l'autorità s'accentra maggiormente, dopo il Concilio di Trento, nelle mani del papa. Ridotto, per la Riforma, il suo carattere d'universalità, la Chiesa diviene principalmente latina, si afferma ostentatamente romana; e nella grandezza esteriore e nella pompa essa cerca di nascondere, se non di compensare, le gravi sue perdite.

Tre papi del Seicento, cosa non più vista da parecchi secoli, sono romani di nascita.

Il celibato della Curia impediva il costituirsi in Roma di nuove famiglie, il formarsi d'una nuova città. Venne il periodo del nepotismo. Il frazionamento dei popoli in piccoli Comuni e in piccole signorie, rese possibile a pazzi ambiziosi di tentare, con intrighi diplomatici, con tradimenti, con armi raccogliticce, di formare a beneficio delle loro famiglie uno Stato. Ma dei papi del Rinascimento, nessuno lasciò in Roma una grande famiglia; e gli ambiziosi nepoti dei Cibo, dei Borgia, dei Della Rovere, dei Medici, dopo avere sconvolto mezza Italia, scomparvero dalla città eterna coi papi a cui s'appoggiava la loro potenza. Cresceva la Curia di ricchezza e di splendore, aumentava la popolazione mobile; ma la [104] cittadinanza stabile delle famiglie restava presso a poco la stessa.

Nè la città nuova si sarebbe formata, se non era il trasformarsi del nepotismo papale da politico in domestico. Quando, per le condizioni politiche d'Italia, era follia il tentare di formare alla famiglia uno stato, i Papi volsero l'animo a fondar ciascuno in Roma una grande famiglia principesca, che gareggiasse di ricchezza e di fasto colle Case regnanti. L'esempio del nepotismo papale seguirono cardinali e prelati, e tutti si diedero a fondare in Roma una famiglia in linea trasversale, quando non potevano in linea diretta. Da circa trentacinque mila abitanti, la popolazione saliva nel 1600 a circa centodiecimila. Continuava poi più lentamente ad aumentare per tutto il Seicento: nel 1650 superava i centoventiseimila, nel 1700 s'avvicinava ai centocinquantamila.

La nuova forma del nepotismo papale non fu sul principio più fortunata dell'altra, e i nepoti del Carafa finirono tragicamente. Rimase però la famiglia Buoncompagni; rimase, benchè non durasse a lungo, la Peretti o Montalto fondata da Sisto V, e imparentata colle due case baronali de' Colonna e degli Orsini; e quella degli Aldobrandini, che rientra pure nel secolo successivo.

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Al secolo di cui discorriamo era riservato di fondare la più gran parte della nuova aristocrazia: dodici pontificati, uno de quali durò meno che un mese, lasciarono nove grandi famiglie. Convien dire però che una di queste, la Odescaichi, non venne in grandezza per opera del papa, Innocenzo XI, severo promotore di moralità nella Chiesa, e nella riforma del costume severo talora fino al grottesco. L'ultimo dei papi del Seicento, Innocenzo XII, Pignatelli, nobile figura di pontefice fu immune dal vizio de' suoi predecessori, e non volle presso di sè i suoi parenti; gli altri furono tutti macchiati di quella pece: e se Alessandro VII, Chigi, nel cardinalato censore austero del nepotismo, sul principio del pontificato tenne lontani i parenti, cedette poi alla corrente, lasciando a compiacenti consiglieri la cura di giustificare in lui quello che negli altri egli aveva condannato. Nella via del nepotismo nessuno arrivò agli eccessi del Barberini (Urbano VIII), nella persona del quale il papa parve un accessorio del principe. Per opera del nepotismo, uomini senza capacità, nuovi de' pubblici negozi, occupavano d'un tratto tutte le cariche più alte e lucrose, e il cardinal nepote governava lo Stato, infeudato ad una famiglia. Le entrate della Camera Apostolica servivano alla grandezza della famiglia papale, e lo Stato s'immiseriva per formare [106] quella nuova aristocrazia. Diciassette milioni di scudi d'oro diceva papa Odescalchi essere costato già quel nepotismo: e in seguito costò dell'altro. E si vide perfino una donna avara e intrigante, donna Olimpia Maidalchini, regnare in Vaticano, dominando il debole cognato Innocenzo X, e la corte bizantineggiare in una umiliazione di pettegolezzi e di scandali, che davano largo pascolo ai lazzi e alle risate di maestro Pasquino.

La parte di Roma coperta di fabbricati, entro il vasto recinto aureliano, colle vie anguste e la popolazione densa, non aveva spazio per le nuove reggie, per le grandi chiese di questa nuova aristocrazia papale, dominata dall'idea del grandioso e del magnifico. E però la città, sorta e cresciuta sui sette colli, poi nel medio evo discesa al piano e distesasi lungo il fiume e intorno al colle capitolino, e nel Rinascimento piegatasi verso il ponte Sant'Angelo, porta del Vaticano, nei rioni di Parione e di Ponte, si allargava con Sisto V al Quirinale, al Viminale, all'Esquilino, e coi successori occupava con immensi edifici, sul Quirinale e nel Campo Marzio, l'area già coperta d'orti e di vigne. Nei palazzi edificati dalle famiglie pontificie noi possiamo seguire quasi ad uno ad uno i pontefici del Seicento. Apre la serie un papa che dopo aver regnato [107] otto anni nel secolo XVI, entrò con soli cinque nel XVII, cioè Clemente VIII, Aldobrandini; e il suo palazzo era quello oggi Salviati, sul Corso. Dopo Leone XI, Medici, che regnò meno di un mese, ecco il primo papa secentista, Paolo V Borghese, romano, col suo splendido palazzo di Campomarzo; poi quello incominciato dai Ludovisi, oggi sede del Parlamento Nazionale; il Barberini, una vera e splendida reggia; il Panfili in piazza Navona, che forma un complesso principesco colla chiesa di Sant'Agnese e le stupende fontane; il Chigi, sulla piazza Colonna, per l'edificazione del quale fu allargata e dirizzata la via del Corso, che divenne da allora la principale della città; il Rospigliosi sul Quirinale; l'Altieri sulla piazza del Gesù. Non parlo di quello dell'Odescalchi, che non fu edificato, ma acquistato più tardi dalla famiglia, nè di quello Ottoboni, oggi Fiano, che s'incominciò a riedificare, ma che rimase interrotto per la morte troppo sollecita d'Alessandro VIII.

Alla grandezza e magnificenza esterna di questi palazzi, corrispondeva il lusso e la pompa interna. Splendide sale decorate di stucchi, di dorature, di affreschi, mobili riccamente intagliati, tavole ornate di bronzo e di marmi, grandi storie d'arazzi, cortinaggi di stoffe fiorate, tutto quello che dessero di più sontuoso le arti e le industrie [108] italiane e straniere. Ma non bastava di raccogliere il meglio che quell'età, producesse; i cortili e le scale eran ridotte a musei di statue e di marmi antichi, e dalle pareti delle sale pendevano dipinti di Raffaello e di Tiziano, de' più grandi pittori dell'età scorsa, e i palazzi ducali di Ferrara e d'Urbino, e i minori de' principotti delle Marche, dell'Umbria, delle Romagne, si spogliavano per ornare la splendida sede della famiglia papale, e l'onnipotenza del cardinale nepote si adoperava a raccogliervi libri e codici preziosi, traendoli dalle antiche corti principesche, dai conventi, dalle chiese, dalle abbazie, e formando così, tra altre minori, le biblioteche famose dei Barberini e de' Chigi.

Ai palazzi magnifici corrispondevano non meno magnifiche le ville Aldobrandini, Borghese, Ludovisi, Barberini, Panfili; e sui colli ameni d'Albano e del Tuscolo più sontuose e più splendide quelle degli Aldobrandini, di Paolo V, del cardinale Borghese, dei Ludovisi, dei Barberini.

Col costituirsi delle famiglie papali, Roma acquistava così la stabilità delle città laiche, incominciava a vivere di vita propria. Intorno a quelle si stabilivano interessi durevoli e tradizioni e costumi, si formava una cittadinanza romana accanto alla mobile della Curia papale.

Ma disgraziatamente questa nuova aristocrazia, [109] se non aveva uguali nella ricchezza e nello splendore, era per ogni altro titolo troppo diversa da quelle gloriose dell'antica Roma, di Venezia, d'Inghilterra. Venuta su non per valore d'armi, o per merito d'opere e d'ingegno, non per attività di commerci o d'industrie, ma per favor di fortuna, essa non aveva nè tradizioni da conservare, nè fini da raggiungere. Assicurata l'integrità del patrimonio di primogenito in primogenito colla istituzione del fidecommesso, esclusa da ogni partecipazione alla vita pubblica, riservata unicamente al clero, ad essa non restava altro pensiero che del come spendere le accumulate ricchezze, come impiegare i suoi ozi infecondi. Se qualche personaggio ragguardevole diede l'aristocrazia romana, ciò avvenne nonostante le istituzioni e non già per esse. Aristocrazia d'apparato, decorativa, essa adempiè egregiamente a questo suo ufficio.

Come le commedie scritte pei collegi senza donne, così la storia di Roma è per lo più storia di soli uomini. Dopo Lucrezia Borgia, di cui la figura bionda s'intravede in seconda linea tra le ampolle di veleni e i pugnali, nessuna ne apparisce, per tutto il Cinquecento nella corte di Roma. Nè c'era posto conveniente alla donna in una corte ecclesiastica. Ma nel Seicento, collo stabilirsi della nuova aristocrazia laica, essa non [110] vi si trova più fuor di luogo. Dopo donna Olimpia, un'altra entra nella vita di Roma, argomento di tutti i cicalecci, oggetto di tutti gli sguardi, portandovi coll'ingegno arguto e la non comune coltura la bizzarria, la violenza, l'indocilità nativa del suo carattere. Abdicato il trono, abiurata la religione luterana, Cristina regina di Svezia, era condotta trionfalmente a Roma dai Gesuiti. Il lato interno della porta del Popolo, colla grande iscrizione: Felici faustoque ingressui, resta ancora a monumento della sua entrata solenne. Ma quale non fu il disinganno del papa e della Corte di Roma; che quando pensavano di poter profittare della regia neofita a edificazione dei fedeli e richiamo dei protestanti, dovettero invece affannarsi a coprire gli scandali, a riparare le stravaganze di quel cervello balzano. È curioso di conoscere come la reale neofita giudicasse quella Roma papale, dalla quale era stata accolta con tanta festa. “Non crediate, scriveva alla contessa di Sparre, che quantunque io sia in un paese abitato già dai più grandi uomini della terra, e dove ancora restano maravigliosi, splendidi avanzi delle azioni di quegli eroi, non crediate, mia bella, che sia questo il paese de' sapienti e degli eroi, nè l'asilo degl'ingegni e della virtù. O Cesare, o Catone, o Cicerone! o padroni del mondo, la vostra patria così [111] illustre per le virtù e le imprese vostre, doveva dunque, per vituperio e sventura dell'umanità, cadere un giorno in preda all'ignoranza grossolana, alla cieca e assurda superstizione! O bella contessa, qui non ci sono che statue, obelischi e palazzi sontuosi, ma uomini non ci sono.„ Non c'è male, per una neofita! Ma quale che fosse il suo giudizio sulla Corte e la società romana, essa trovò pure da divertircisi, e rifarsi del tempo speso in patria ad ascoltar prediche. “Le mie occupazioni qui, essa scriveva, sono di mangiar bene, dormir bene, studiare un poco, chiacchierare, ridere, veder le commedie francesi, italiane e spagnole, e passare il tempo piacevolmente. Infine non ascolto più prediche: secondo che sentenzia Salomone, tutto il resto è sciocchezza; perchè ciascuno deve viver, contento, mangiando, bevendo e cantando.„ E in certe postille fatte a margine d'un'edizione del Principe di Machiavelli, dove questi dice che i Collegati d'Italia tenevano gli uni pel Papa gli altri pe' Veneziani, essa notava: “Oggi, chi teme più il Papa?„ Tale era l'acquisto che, per opera de' Gesuiti, aveva fatto la religione!

Cristina destò nelle famiglie aristocratiche una gara di spettacoli e di feste. Erano commedie dai Panfili e dai Barberini, erano tragedie al palazzo Mazzarino, erano melodrammi ne' palazzi [112] de' cardinali; dei quali però la regina, col suo sacro orrore per le prediche, si doleva talora, che fossero delle prediche in musica. Protetto dalla regina, l'Alibert democratizzava il teatro, facendolo discendere dalle sale principesche alle sale a pagamento. Alessandro Cecconi, detto per antonomasia Alessandro, virtuoso di musica, era l'astro più fulgido delle feste romane. La regina stessa imparava musica. Al palazzo Riario alla Longara, dove oggi è il palazzo Corsini, era un continuo succedersi di serenate, di giostre, di spettacoli, di saltatori e di saltimbanchi. Ivi la regina fondava l'Accademia d'Arcadia, in cui la poesia si sposava alla musica; e i poeti, primo fra essi il Guidi, gonfiavano di vento, in onore, della Pallade di Svezia, le vesciche delle loro canzoni. Corteggiata da una schiera di cardinali, circondata di nobili spiantati, e di ribaldi riparati nella franchigia del suo palazzo per salvarsi dai birri, tra i musici, i poeti e gli alchimisti, più volte partitasi da Roma e più volte tornatavi, gelosa degli onori reali, lorda del sangue di Monaldeschi, la Regina che aveva costato ai papi tanto danaro, morì finalmente, nel 1689, liberandoli da infiniti fastidi, e procurando al popolo l'ultimo spettacolo, quello de' suoi funerali. Si celebrarono per l'anima della regina ventimila messe!

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Le feste mondane di Roma ebbero una interruzione sotto il pontificato dell'austero Odescalchi. Sollecito di sollevare la dignità del pontificato, alle pretese di Francia resistè virilmente; il marchese di Lavardino suo ambasciatore, minaccioso e in arme dentro Roma stessa, scomunicò. Egli vagheggiava di far di Roma un convento. Fra i suoi provvedimenti per la riforma del costume, noterò l'editto con cui ordinava “che nessuna zitella, vedova o maritata, di qualsivoglia stato, grado e conditione, possa imparare a cantare, nè Professore alcuno, Musico, Regolare o Secolare, possa più alle suddette insegnare la musica, sotto pena di scudi cinquanta.„ Ma più che ogni altra cosa gli stava a cuore la verecondia del vestire. Mandò fuori editti feroci, ordinò a' confessori di non assolvere le donne che non vestissero colla debita modestia. E ciò non bastando, gettò improvvisamente i birri addosso alle lavandaje, e fece loro sequestrare tutte le camicie che fossero aperte al collo e non avessero lunghe le maniche. Ma ne venne un guaio. Molte, per quella fiera ordinanza, rimasero con quella sola che portavano indosso.

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Come le principali famiglie dovevano la loro grandezza all'improvvisa fortuna, così la instabile dea era venerata nella città eterna assai più che non il lavoro intelligente e perseverante. Industrie non c'erano: le antiche famiglie della nobiltà cittadina vivevano, come ho detto, dell'agricoltura primitiva e della pastorizia che esercitavano nei latifondi della Campagna romana; i bisogni della Corte e dell'aristocrazia mantenevano il piccolo commercio. Ma chi lavorava per vivere era tenuto quasi in disprezzo: la via degli onori e della fortuna era quella delle dignità ecclesiastiche, l'arte più proficua quella d'entrare in grazia ai potenti. Le famiglie cittadine avviavano un de' figli per la via del sacerdozio, e in esso speravano: un prelato in casa era una provvidenza che la nobilitava e ne alzava le sorti. Un immenso servitorame sparlava de' padroni che lo sfamavano, e nelle oziose anticamere pullulava la pasquinata mordace. Poichè al torso famoso si è fatto un onore immeritato rappresentandolo come censore e vindice popolare: ora scipito, ora arguto, esso è ordinariamente un passatempo di sfaccendati, l'eco de' cicalecci delle sacrestie e delle anticamere de' palazzi. Più in [115] basso una plebe miserabile, indolente, superstiziosa, che applaudisce o fischia lo spettacolo delle pompe continue, e che s'affolla, si pigia, si schiaccia a raccogliere le briciole cadute dalla mensa dei grandi. Eppure non può sfuggire all'osservatore che quella plebe, per quanto tenuta a vile, è però già cresciuta di grado. Nelle corti del Rinascimento, generalmente, la plebe, degna prima che nasca di morire, secondo l'espressione dell'Ariosto, non ha valore neppure come spettatrice: essa è tenuta lontana dalle feste di Corte, o se v'interviene nessuno si dà pensiero di quel ch'ella pensi o dica. Tocca ai palafrenieri e ai valletti di tenerla indietro coi bastoni, o ai birri di trarla in prigione. Adesso la plebe forma la platea, i grandi ne studiano l'approvazione e l'applauso, e il cronista ne prende nota con compiacenza. È un personaggio abbietto, ma è pure un personaggio.

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In un secolo passionato del fasto, delle pompe, della magnificenza, Roma tenne incontrastata il primato, fu il più gran teatro del mondo. Quella scena di colonnati, di facciate enormi di travertino, di palazzi grandi come reggie, di fontane sonanti nelle grandi conche, di colonne, [116] di obelischi, di statue, e l'interno delle chiese, cariche d'oro e di marmi, fra gli angeli volanti sulle nuvole e i santi agitati da celesti bufere, era la scena che ci voleva per quelle grandi azioni coreografiche scintillanti d'oro, splendide di colori. Era una continua successione di grandiosi spettacoli, un passaggio continuo di maraviglia in maraviglia. Alle annuali solennità del Vaticano dove il Vicario di Cristo, il rappresentante della divinità sulla terra, appariva in una grandezza e maestà che pareva trascendere l'umano, si aggiungevano frequenti le solennità straordinarie, le creazioni di cardinali, le morti di papa, i possessi del papa nuovo, i giubilei, le entrate solenni degli ambasciatori, i ritorni dalle caccie. E qui, come al cuore del mondo cattolico, si ripercuotevano tutti gli avvenimenti d'Europa: nascite e morti di regnanti, paci e trattati, vittorie sugl'infedeli. Agli occhi del popolo, abituato a quel succedersi continuo di solennità, spariva la ragione della festa, e la festa sola restava. Tutto era buono ugualmente: il catafalco e la benedizione, la luminaria e la processione, la cavalcata e i fuochi d'artificio. Esso contava le carrozze e le torcie, giudicava la ricchezza de' parati e delle livree. Ma specialmente gl'importava che si distribuisse pane, si gettasse in quantità moneta bianca o d'argento, ci fosse da [117] mangiare e da bere, e da saccheggiare le macchine de' fuochi d'artifizio. L'antico panem et circenses era il motto della Roma del Seicento. Il popolo amava i papi vecchi, perchè davano speranza di spettacoli prossimi.

Meglio che dai volumi degli storici, lo spirito e la vita romana di quel secolo risulta dagli avvisi e dalle cronache contemporanee; e andrò perciò spigolando qua e là da queste fonti inedite quello che meglio giovi all'intelligenza di quei costumi.

Le potenze cattoliche sentivano quanto in Roma valesse il lusso e la pompa, e però miravano, per mezzo de' loro ambasciatori, a sopraffarsi l'una l'altra, e imporsi alla Curia. Le descrizioni delle entrate solenni degli ambasciatori paiono racconti delle Mille e una notte. Restò famosa, pel numero de' cavalli e la ricchezza de' costumi persiani, quella dell'Oratore di Polonia nel 1643; il cardinale de' Medici, ambasciatore di Toscana, entrava nel 1687 con centododici carrozze tirate ciascuna da sei cavalli, cioè seicentosettantadue cavalli. I principi Colonna, grandi di Spagna, sfoggiavano ogni anno nella cavalcata con cui portavano al Papa il tributo della chinea, e la sera sulla piazza de' Santi Apostoli s'incendiavano fuochi d'artifizio con macchine di sempre nuove invenzioni, delle quali fortunatamente ci rimangono [118] le stampe, ora d'argomento simbolico, ora mitologico, ora biblico ed ora cavalleresco.

E le fontane di vino, che si direbbero una fantasia di bevitori che sognino il paradiso, erano il compimento obbligato di quelle allegrezze continue, con accompagnamento ugualmente obbligato di gente schiacciata e di costole rotte. Le fontane solevano ornarsi riccamente e con bizzarre invenzioni. Sulla piazza di Spagna, che per la splendidezza degli ambasciatori di quella nazione era il teatro delle feste più sontuose, la sera dei 29 di giugno 1690 s'ammirava una fontana bellissima, e davano da bere al popolo sei gobbi con ramini inargentati. Quella novità dei gobbi parve un'invenzione di spirito; ma ordinariamente erano i servi, in fastose livree, che ministravano al popolo intorno al bancone o allo steccato da cui la fontana era recinta.

Altra volta l'aquila bicipite dell'impero versava vino da' suoi due becchi; ma nell'aprile del 1687, per la ricuperata salute del Re di Francia, eran fontane di vino alla Trinità de' Monti, sulla piazza del Popolo, a piazza Madama, riccamente ornata di torcie e di gigli, e a Campo de' Fiori, “con gran giubilo de' birbanti, narra un cronista, et copia di imbriachi et gran concorso di popolo.„ Come può imaginarsi, con quel po' di vino in corpo, le feste finivano spesso [119] in tumulti; così avvenne nel 1680 per la venuta dell'Ambasciatore di Polonia: che dopo i fuochi d'artifizio e la fontana di vino, incominciò una tremenda sassaiolata del popolo contro i Polacchi, con buon numero di morti e feriti. E il peggio era quando, alcune volte, le dame, nell'ebbrezza della festa, dalle finestre e dai balconi gettavano al popolo merangoli, canditi, pasticcini e perfino i guanti, gli scuffini e gli scacciamosche.

I grandi erano spettacolo al popolo, e il popolo ai grandi, che si divertivano a vederlo azzuffarsi e rompersi le costole per un bicchier di vino, per un candito, o per un mezzo giulio, coll'avidità brutale della miseria. Nel febbraio 1662, l'Ambasciatore di Spagna fece nella piazza dello stesso nome una macchina che mai non s'era veduta l'eguale. Il carro del Sole con quattro superbi cavalli, che doveva muoversi e rappresentare la levata e il tramonto, e due fenici, e selve, e grotte con leoni e un albero di palma e cento altre meraviglie.

La macchina era appoggiata al palazzo di Propaganda; e a far più bello lo spettacolo, l'ambasciatore aveva pubblicato che, finito il fuoco d'artifizio, macchina, torcie, sole, cavalli, travi, mille tavole di castagno, ogni cosa infine andrebbe a sacco, e chi piglia piglia. Nessuno volle restare a casa, e “di certo, dice un cronista, [120] sariano succedute gran morti e ferite„ specialmente nella lotta del popolo cogli operai addetti alla macchina e co' soldati spagnuoli che la circondavano, i quali avrebbero voluto esser soli al bottino. Ma accadde che gli operai che eran dietro al castello, nel sollevare il sole sbagliassero un movimento; e i luminelli e i razzi appiccarono fuoco alla macchina, con gravissimo pericolo che s'appiccasse a Propaganda e alle case circostanti. La fuga del popolo e delle carrozze, delle quali la piazza era stipata, fu, anche per quei tempi, qualcosa di spaventoso.

Nelle feste di Francia, di Spagna e dell'Impero, facevano luminarie, fuochi, spari e fontane di vino non solo gli ambasciatori, ma i loro affezionati, e clienti, principi e cardinali; e nelle gare dei partiti, che procuravano al popolo sollazzi continui e sempre più splendidi, s'avverava il proverbio che tra i due litiganti il terzo gode. Ed esso era sempre del partito di chi facesse le fontane di spillo più grosso, più sfarzose le macchine, più ricche le livree. Ma quando nel luglio del 1688 giunse a Roma l'annunzio della nascita di un maschio al re d'Inghilterra, allora, non bastando il bere, si volle anche dar da mangiare al popolo; e nella piazzetta di San Girolamo della Carità, dov'era la Chiesa della Trinità degl'Inglesi, e presso al palazzo del cardinale di Norfolch, [121] fu alzato nel mezzo un terrapieno dell'altezza di un uomo, recinto d'uno steccato; e su quello, sopra due assi, infilzato ad un enorme spiedo un giovenco intero, ripieno di castrati, capretti e galline, che due uomini giravano sopra una fornace di carboni. La cucina omerica durò dalle cinque alle venti ore; e allora comparve sul terrapieno un uomo vestito di bianco, con un gran coltellaccio in mano, che, tagliate le parti migliori del giovenco, le mandò ai padroni dei palazzi vicini; e dopo, due uomini con casacconi di tela rossa e gran berrettone in capo, incominciarono a tagliare pel popolo, a cui gettarono pezzi di carne con mezze pagnotte di pane bianco. Chi può imaginare la ressa e il tumulto di quella piazzetta! Ma, nota il cronista, “poco buona detta carne, e puzzolente, per non haverla saputo cuocere.„ Ivi presso, nella via di Monserrato, presso il Collegio degl'Inglesi, era una fontana di vino bellissima coll'arme del Re, e la sera furono accese trecentosei torcie e gran numero di fiaccole, e spari e razzi che fu un inferno.

Simile cocitura di bove fu fatta fare dall'Agente d'Inghilterra, che abitava sulla piazza della Trinità de' Monti, ma là le cose non passarono così liscie. “Successo, scrive con molta indifferenza il cronista, il rubbamento di tutto il bove già [122] arrostito, sassajolata horribile con molti feriti, due morti et sbirri fuggiti.„

Anche nelle due sere seguenti ci furono a Monserrato, avanti al palazzo del cardinal d'Inghilterra, fontane di vino, trombe, timpani e razzi a mano; ma poco fu il concorso del popolo, poichè in quelle sere stesse l'Ambasciatore di Spagna festeggiava con fontane di vino e fuochi artificiali l'onomastico della regina Anna Luigia.

Fu uno splendore! Dietro alla fontana della Barcaccia sorgeva uno scoglio alto sessanta palmi, in mezzo al quale era Angelica, legata i piedi e le mani: un enorme drago usciva colla bocca aperta per ingoiarla, e in aria era un cavaliere armato di lancia. Seicento torcie, su tripodi di legno, rischiaravano la piazza, e il popolo occupava la via Condotti fino a piazza Borghese. Fu una vista, narra il cronista, mirabilissima. Il dragone ebbe un bel gittar fiamme contro la giovinetta, che il cavaliere lo fulminò colla lancia e la liberò! Morta nella letteratura la poesia cavalleresca, essa però viveva tuttavia più che mai rigogliosa come ispiratrice delle arti, e argomento di spettacoli pubblici.

Così i nostri avi si spassavano allegramente: e l'anticamera fruttava meglio che l'officina; e il vivere in ozio non impediva di buscarsi una minestra alla porta de' conventi, e vino e pane e qualche giulio nelle occasioni solenni.

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Qualche volta però si facevano ai poveri delle burle non molto piacevoli. Nel maggio del 1685 i poveri accorsi per la distribuzione all'ambasciata di Francia, che era al palazzo Farnese, vi furono serrati dentro; e dopo lungo tempo, riaperte le porte, licenziati senza un centesimo.

E solennissima era la festa della incoronazione dei nuovi papi, in cui si faceva in Vaticano larga distribuzione di danaro, che si ripeteva poi ogni anno nell'anniversario in proporzione minore. Si dava mezzo giulio a ciascuno che si presentasse a richiederlo, e la somministrazione aumentava per ciascuno dei figli: le donne incinte contavano per due. Come può imaginarsi, si prestavano, si affittavano i figli, e i guanciali moltiplicavano le gravidanze. Le più procaccianti riuscivano a ripresentarsi più volte, e mettere insieme un bel gruzzoletto d'argento. Alla distribuzione di danaro si sostituì quella del pane; ma il popolo ne fu malcontento, e si tornò all'uso antico. Il costume è durato tanto, che rientra ne' miei ricordi d'infanzia. Triste ricordo quelle turbe di megere co' bambini sulle braccia, co' ragazzi alle gonnelle, urlanti, incalzanti in una gara furiosa, dove era premiata l'impudenza e l'inganno.

Pane e spettacoli! Dalle incoronazioni si passava, collo stesso animo, ai funerali, dove alla [124] porta del palazzo o della chiesa si distribuiva l'elemosina, e si rissava per le candele. I giubilei o anni santi erano fonte di nuovi guadagni e di spettacoli nuovi. Nel 1675 dalle città e dai paesi circostanti affluivano a Roma confraternite in processione; quella del SS. Sacramento di Viterbo, centoventi persone, entrava solennemente dalla porta del Popolo fra una calca infinita, col cappuccio calato, ed un teschio in mano. Ma le Compagnie che venivano così devote e compunte alle tombe degli apostoli, poi s'azzuffavano fra di loro, e i bordoni da pellegrini divenivano arme da guerra. Pareva il campo d'Agramante. Risse a San Pietro, risse a San Giovanni, risse per le strade, e seguito di morti e feriti.

Le feste più clamorose del secolo ebbero occasione dalla liberazione di Vienna, e dalla presa di Buda e di Belgrado; eco carnevalesca di avvenimenti gloriosi. Fu bruciato un fantoccio rappresentante il Bassà; e Stefanaccio, un buffone grottesco famoso tra la plebe, vestito da Bassà, cavalcò per le vie sopra un somaro fra risa e chiasso d'inferno. Quell'entusiasmo religioso andò da ultimo a sfogarsi sopra gli ebrei, con furore brutale d'uccisioni e d'incendi. Convien dirlo: un editto fu emanato perchè non si molestassero, e i frati corsero in Ghetto a frenare l'eccidio.

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E le cronache ci parlano pure quasi ad ogni pagina d'una vera malattia di quel secolo, le questioni d'etichetta e di precedenza. Dagli ambasciatori, dagli alti uffici dello Stato quel contagio si estende agli uffici più umili, alle più modeste corporazioni. Vogliono tutti la precedenza; onde questioni interminabili, e non di rado risse e sangue. Per le contese fra le confraternite spesso non era neppur possibile di fare le processioni.

Ed altra materia di quotidiani discorsi, di delitti e di disordine, era quella delle franchigie, massime degli ambasciatori; i quali pretendevano che non solo i loro palazzi, ma anche una zona intorno ad essi fosse immune dalla giurisdizione del Governo papale. Invano, fin dal secolo precedente, parecchi papi, e principalmente Sisto V, ne avevano dichiarato l'abolizione; che se si riuscì ad abolirla pei palazzi dei cardinali, non così per quelli degli ambasciatori. Ivi i ribaldi e i malviventi trovavano asilo e protezione, beffandosi dell'autorità pontificia; e i soldati degli ambasciatori, specialmente quelli di Francia, giunsero a tanta audacia da [126] assalire e pigliar prigionieri i birri e soldati del papa che passassero nelle vicinanze dell'Ambasciata.

La rissa dei Francesi coi soldati Corsi a servizio del papa fu un degli avvenimenti più famosi di quel secolo. Un de' Francesi restò morto, parecchi feriti. L'ambasciatore Créqui partì da Roma, e la Francia volle soddisfazione. Rade volte un Governo si piegò a tanta umiliazione, a quanta Alessandro VII nella convenzione di Pisa. Fra le altre condizioni, ci fu quella che il papa licenziasse la Guardia dei Corsi, che aveva quartiere presso la Trinità de' Pellegrini; e avanti al quartiere fu eretta nel 1664 una piramide con una iscrizione, la quale diceva che, in esecrazione dell'abbominevole delitto contro l'ambasciatore di Francia, la nazione dei Corsi era dichiarata inabile e incapace a servire la Sede apostolica. Quel monumento di vergogna, fu poi fatto demolire dal papa Altieri.

Un altro effetto curioso, per non dir peggio, delle franchigie, era questo: che quando una nazione avesse bisogno di levar soldati, faceva pigliare a forza i giovani che passassero nelle vicinanze dell'ambasciata. Nel settembre del 1677 gli Spagnoli davano la caccia ai passanti in piazza di Spagna; onde si cantava ad alta voce per Roma:

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Hai inteso? hai inteso?

Non passare a piazza di Spagna che sarai preso.

Ma in seguito di ciò, il papa fu costretto a mandar fuori un bando che minacciava dieci anni di galera a chi dicesse motti contro chicchessia. Più tardi, nel 1690, i Veneziani pigliavano tutti gli atti alle armi che passassero avanti al palazzo di Venezia; onde nacque tal tumulto di popolo che si dovè smettere.

Del resto, gli stranieri che si conducevano a Roma, ci narrano che la vita vi era tranquilla e piacevole, e le notti risuonavano di viole e di canti. Non infrequente il delitto per vendetta o per altri fini perversi, ma non per furto; onde il forastiero passeggiava tranquillo. Ma nelle Sedi vacanti, sospesa l'autorità del Governo, allora le vendette covate, allora i torvi disegni uscivano al sole. Nel Conclave del 1691, da cui uscì papa il Pignatelli, un cronista nota con tutta indifferenza, in data 16 maggio: “Dal 1.º febbraio ch'è sede vacante, di ammazzati per la città di giorno e di notte, n.º 180.„ Questi 180 ammazzati vanno divisi, per circa cento giorni, sopra una popolazione di circa centotrentamila abitanti.

Il secolo che si era aperto col rogo di Giordano Bruno, non poteva mancare degli spettacoli della Santa Inquisizione. Del processo e dell'abiura [128] di due eretici sono piene le cronache. Il milanese Gian Francesco Borri, medico, alchimista, astrologo, entrò in grazia di Cristina di Svezia, e con essa lavorò alla scoperta della pietra filosofale. Conosciutosi che professava idee ereticali fu preso dal Sant'Uffizio, processato e bruciato in effigie. Egli abiurò solennemente nella chiesa della Minerva. Ma nella fantasia popolare, ed anche delle classi superiori, egli rimase il mago, il misterioso dominatore di forze occulte. Più volte il Papa permise che, accompagnato da' carcerieri del Sant'Uffizio, egli si recasse a curar malati; e nel 1675, infermato l'ambasciatore di Francia e disperato da' medici, si ricorse al Borri, che lo salvò. Il popolo s'accalcava intorno al palazzo Farnese, dove abitava l'ambasciatore, a vedere il Borri, tanto che gli si dovette permettere di mostrarsi sulla loggia. In veste lunga di color verdesanto, quello strano Ecce homo, tra le guardie del Sant'Uffizio, apparve al popolo commosso, plaudente. Tutti volevano esser curati da lui. La popolarità e il prestigio del mago mise in pensiero il Vaticano, sicchè fu dato ordine che più non uscisse dalla prigione di Castel Sant'Angelo, dove morì nel 1695. L'altro eretico famoso fu lo spagnolo Michele Molinos, autore del quietismo; una comoda dottrina che, sollevato lo spirito a Dio, abbandonava i sensi al piacere. Venuto in [129] gran fama di dottrina e di pietà, capo dei confessori di Cristina di Svezia, egli aveva dato origine ad una setta che, in Roma e fuori, vogliono contasse molte migliaia di persone. Scoperta dal padre Segneri, o secondo altri dal cardinale d'Estré, la fallacia delle sue dottrine, fu carcerato dal Sant'Uffizio e fattogli processo. Sui primi di settembre del 1687 il popolo era accorso di buon'ora alla chiesa della Minerva per assistere alla lunga e solenne cerimonia dell'abiura; durante la quale, imbandite sulle sedie o sulle balaustrate le mense, in lieti capannelli, si mangiava e si beveva allegramente.

Ma quando si fu giunti alla lettura dei Capitoli dell'abiura, un grido formidabile risuonò per la chiesa: Al fuoco! al fuoco! - Non era alcuno speciale risentimento contro il dottor Molino, che il popolo non conosceva, e di cui ignorava nè poteva intendere le dottrine; quel grido, che soleva ripetersi anche nelle altre abiure, era lo scoppio dell'indignazione popolare contro la mitezza del Sant'Uffizio, era il feroce desiderio d'un più acre spettacolo.

Innanzi allo stesso tribunale, circa mezzo secolo prima, era passato un vecchio glorioso. Anch'egli fu rinchiuso in quelle carceri, anch'egli, non però in forma solenne, dovette innanzi ai cardinali della Sacra Congregazione, far la sua [130] abiura, e genuflesso, vestito della camicia degli eretici, toccando i santi vangeli, aveva pronunziato le parole: - maledico e detesto l'errore e l'eresia del moto della terra. -

Non si accorsero allora ch'egli era un reo ben diverso dagli altri; che dietro la dottrina, del resto non nuova, del moto della terra, c'era un metodo nuovo chiamato a rinnovare il mondo, c'era la scienza.

Con questa parola noi siamo soliti di esprimere due concetti affatto diversi. Un tempo si diceva scienza lo apprendere quello che già era stato trovato. La verità era dietro di noi, era nel passato lontano: il teologo e il filosofo l'apprendevano, la commentavano, l'insegnavano. Per Dante, la vita dell'Universo non ha misteri; ogni fatto ha la sua spiegazione indiscutibile. L'Umanesimo guardava indietro, col Petrarca, col Boccaccio, col Machiavelli, ai Greci e ai Romani. Nei libri sacri, in Aristotile, negli antichi scrittori era la sapienza e la verità tutta intera: ufficio del filosofo lo scovarla e l'intenderla.

Con Galileo la mente umana muta orientazione e si volge verso il futuro. La verità è da trovare; la scienza è il cammino lento, per via d'esperimento, dal noto all'ignoto.

Se io non parlassi a Firenze, lascerei qui liberamente prorompere l'inno alla gran madre [131] che si direbbe predestinata a fornire di condottieri la civiltà. Ma il luogo mi tiene a freno; e chiudo con un semplice saluto alla città dell'Arno che, dopo Dante e Michelangelo, compieva la sua triade con Galileo, con esso apriva la via a una nuova visione dell'universo, dava al mondo la formola della scienza, la formola della civiltà nuova.

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