LA MUSICA NEL SECOLO XVII

CONFERENZA

DI

G. Alessandro Biaggi.

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Questa conferenza venne accompagnata dalla esecuzione de' seguenti pezzi per pianoforte: La Frescobalda del Frescobaldi; - Les Moissonneurs di F. Couperin; - un Adagio del Tartini; - una Giga del Corelli; - una Pastorale e un Capriccio di D. Scarlatti (esecutore l'esimio prof. Buonamici); - la “Povera pastorella„ d'A. Scarlatti, e la romanza “Raggio di sol„ del Caldara.

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Arte, raggio de' cieli, a noi tu scendi

Per mill'astri diffusa in mille lampi,

Libero spiro nel tuo vol comprendi

Le vie dell'etra e di natura i campi.

Arcano verbo, all'anima t'apprendi

E di tue fantasie l'orma vi stampi,

Luce, spiro, parola, agli occhi miei

Armonia del creato, arte, tu sei.

Nelle immagini tue, ne' tuoi divini

Intendimenti mi favelli al core

Il culto della fede, i miei destini,

Le patrie glorie ed il desìo d'onore.

Bellezza e verità ti son confini.

L'ordine è legge, la virtù splendore.

E quel che ha più di generoso e santo

La vita degli affetti egli è tuo vanto.

L. Venturi.

Il sano ed alto concetto dell'arte che esce luminoso da questi bellissimi versi di Luigi Venturi, non cominciò ad animare la musica che ne' primi anni appunto del secolo XVII.

Sino allora, e rimontando ai Greci, nella musica s'era costantemente mantenuta una taglientissima divisione: - di sopra (signoreggiante e dominante) la musica delle teoriche, dei sapienti, e delle scuole, che direbbesi aulica; - e di sotto (tenuta in nessun conto e spregiata) quella cui l'uomo è portato dall'istinto e che muove spontaneamente dalle naturali sue facoltà.

Di questa musica (che è la sola vera!) s'ebbero [484] manifestazioni in ogni tempo. Eran tali, ad esempio, le Romanze, i Pianti, le Cobole de' menestrelli; le canzoni de' cantori a Liuto, e via via. Ma pei teorici e per le scuole, quella non era e non poteva esser musica; - era troppo semplice e, in conseguenza, come dicevano, troppo volgare.

Se ora si considera: che l'arte musicale non ha legami di sorta col mondo fisico; che è al tutto eterea, impalpabile e forse non altro che una sensazione sposata ad un sentimento, è facile vedere quale ardua impresa sia quella di piegarla e legarla ad un sistema teoretico che non la impedisca e non la snaturi.

La difficoltà di questa impresa è dimostrata a luce meridiana dal fatto: che riuscirono quasi a nulla i tentativi, gli studi e le speculazioni che vi si spesero intorno nel corso di ventiquattro secoli! Nessuno dirà (è a credere) che ai teorici sia mancato il tempo!

Che cos'è la musica? Di dove e da che viene il fascino irresistibile ch'ella esercita sull'uomo? Qual'è la legge prima e fondamentale per la quale ella riesce all'uomo un linguaggio ministro di profonde e svariatissime commozioni, e che lo ricrea, lo calma, lo agita, lo esalta, lo delizia?

I primi teorici (come dovevano) queste domande se le son fatte di sicuro. Ma a chi e a che chiesero le risposte? Errore fatalissimo, le chiesero alla fisica [485] e alla matematica; all'essenza e a' fenomeni del suono, cioè, e alle proporzioni e alle ragioni de' numeri; mentre dovevansi chiedere alla fisiologia; all'uomo, voglio dire, a' suoi istinti, al suo organismo, a' suoi modi di percepire e di sentire.

Presa quella falsa via, i teorici vi si ostinarono ingannati dalla necessità in cui si trovarono di mettere a base di tutto il processo tecnico: la scala. È quella una necessità imprescindibile. Senza la scala, l'assetto teorico della musica è addirittura impossibile.

Ma la teoria è una cosa, e la pratica è un'altra.

Nella pratica la scala non è più e non è per nulla una base; è una successione di suoni qualunque; è uno schema melodico puro e semplice, e, come tale, è anch'esso un portato di quella prima legge fisiologica che rimase sin qui, e che forse rimarrà sempre, uno de' tanti misteri della natura.

Per dimostrare a che approdasse il primo errore de' trattatisti, e per dare un'idea delle nuove e singolari condizioni in cui si trovò la musica sul principio del seicento, debbo trattenermi ancora su quella tediosa materia che è la teoria.

Farò d'esser breve; ma, ad ogni buon conto, voi o Signore e Signori, fate d'aver lunga la pazienza.

Dalla scala, naturalmente, si passò ai così detti Toni o Modi. [486] Nessuno ignora quale importanza s'assegni dai pratici alla conoscenza dei Toni.

Per qualificare un musicista imperito e inetto, s'è detto sempre: Non distingue nemmeno i Toni; - non sa mai in che tono canti o suoni.

Or bene, ecco quale fu dal secolo IV sino a tutto il XVI, la stabilità della teorica de' Toni. - Non fo quistione che di numeri!

Sant'Ambrogio ne riconobbe quattro. - Cassiodoro, poco dopo, ne riconobbe quindici. - San Gregorio, cui i quindici parevano troppi, li ristrinse ad otto. - Ma a soli otto, parecohi musicisti d'allora non ci volevan stare; e quindi, specialmente fra gli addetti alle cappelle italiane e gli addetti alle cappelle francesi, dissidii, controversie, dispute acri e violenti, tanto e per modo, ch'ebbe ad intromettersi (o, piuttosto, a sopramettersi) l'Imperatore Carlomagno, il quale, tutto ben considerato e ponderato, decretò che i Toni non erano nè quattro, nè quindici, nè otto; ma bensì dodici, non uno più non uno meno! Se non che alcuni anni dopo, vedendo o credendo di vedere che le cose della musica andavano alla peggio, Carlomagno non dubitò di disdirsi, decretando invece che dovevasi ritornare agli otto di San Gregorio.

Pure, tuttochè imperiale, quel decreto non tenne. - Il Bernon (un dotto benedettino del [487] secolo X) affermò che i Toni erano nove; - e il Glareano (poeta, matematico, storico, filosofo famosissimo del secolo XVI) dopo aver spesi vent'anni di studi intorno a quella materia (così egli racconta) ebbe a convincersi che, come aveva detto Carlomagno nel primo suo decreto, i Toni eran proprio dodici.

E ai dodici si tennero: lo Zarlino e il canonico Artusi, il quale non dubitò di dichiarare che, su quel punto, la sua dottrina era posta nel primo grado di certezza.

Tuttavia, quel primo grado di certezza non persuase il padre Banchieri che, di Toni (curiosissimo temperamento!) ne voleva otto e dodici insieme; - non persuase il padre Penna che invece, ne voleva tredici; e in seguito (molto più tardi) non persuase nè il Kirnberger, che contentavasi di sei; nè l'abate Baini che ne' codici ne trovava quattordici; nè l'abate Alfieri che ne' libri corali ne trovava undici.

E non è tutto qui.

Per correggere in qualche modo la perplessità e la intrinseca manchevolezza di quella teorica, non si lasciò mai d'aggiungere distinzioni a distinzioni, classificazioni a classificazioni. - Per cui s'ebbero i Toni Perfetti, i più che Perfetti, gli Imperfetti, e i più che Imperfetti, i Naturali, i Finti, i Trasportati, i Misti, i Commisti, [488] i Figurati, gli Affini, gli Armoniali ed altri più.

E il bello è, che con tutto quel subisso di Toni, ne' libri corali s'incontrano molte e molte cantilene, le quali, modulando in un'estensione di sole tre o quattro note, a giudizio de' teorici non sono di nessun tono.

E c'è di più, che sul conto di parecchie composizioni, i dotti e anche i dottissimi non riuscirono mai a stabilire in quali toni sono scritte.

Exempli gratia: il padre Martini dice che il Madrigale del Palestrina Alla riva del Tebro, è del secondo Tono, e l'abate Baini dice che è del quinto e del sesto.

Tale, e in tutto secondo verità, era la teoria dei Toni sullo scorcio del mille e cinquecento. E del pari instabili, arbitrarie, contradicenti ad ogni buon principio d'arte, erano le teoriche dell'armonia e del contrappunto, cui s'era aggiunto il gusto smodato per gli artifizii meccanici, diffuso e portato al delirio dalle scuole fiamminghe.

Uscita, nel 1594, la prima opera della riforma melodrammatica fiorentina (la Dafne del Rinuccini e del Peri): - uscito il Recitativo (la declamazione musicale a voce sola); e, dal Recitativo, uscita la Melodia; - tutte quant'erano quelle arruffate ed eteroclite teoriche, caddero come di sfascio. La musica trovò finalmente la sua via. [489] E, subito, cominciò a cercare la luce, ad aver ordine e forma, a farsi parola rivelatrice d'affetti. Cominciò insomma ad esser musica, e ad esser l'arte dichiarata dalle ottave del Venturi che presi ad epigrafe: l'arte, raggio de' cieli!

Tanto operò la Melodia. La quale, della musica non è solamente un principale elemento di bellezza, come vogliono l'Hanslik ed altri; - ma è tutto: è il principio, è la ragione di essere, è l'ultimo fine. Di tutto ciò che entra a costituire la musica, non v'ha nulla che non dipenda dalla Melodia. Le doti che più si cercano e si pregiano ne' compositori: la fantasia, l'estro, la inspirazione, non han modo d'esplicarsi che con la Melodia. Senza melodia non v'ha musica.

E intanto oggi si sente dire ogni momento che la melodia è finita!!

Proprio così. S'è sempre creduto che, alito divino, la melodia venisse dal cuore commosso e dalla fantasia ispirata di quegli uomini privilegiati (quasi profeti) le cui labbra furon tocche coi carboni ardenti.... e signor no!

L'odierno progresso ci tolse dall'errore e c'insegnò invece che la melodia non fu mai altro che il portato delle materiali combinazioni de' sette suoni, e che, dàlli e dàlli a scrivere a cantare e a suonare, quelle combinazioni si son trovate e messe fuori tutte. E da questo la malinconica [490] conclusione: che la melodia è spacciata e morta; e che oramai la musica deve rassegnarsi a farne senza. Quanto dire, all'ultimo, che il mondo deve rassegnarsi a far senza musica!

Ma non ci sgomentiamo. La melodia, come disse il De Musset, viene dal cielo ed è eterna. E in quel modo che i veri eletti e i genii l'han sempre trovata e la trovano ancora (il Verdi informi) è a ritenere che la troveranno sempre.

S'osservi però che v'ha melodia e melodia! V'ha quella che ha un fermo valore artistico, e quella che non vai nulla.

La melodia allora soltanto è pregevole, quando i suoni, grati all'orecchio per la vaghezza degli effetti acustici e per la venustà della forma, hanno la virtù di parlare al cuore dell'uditore e di trasportare la sua mente dal mondo materiale al mondo de' sentimenti e della poesia.

La melodia, ho detto or ora, fu un germoglio del Recitativo cui giunsero le ricerche e gli studi della Camerata del Conte Bardi.

Ma, com'era seguito delle canzoni popolari, dell'idillio teatrale (essenzialmente melodico) Robin et Marion di Adamo della Hale, e di tutta la musica de' Cantori a Liuto, molto probabilmente (se già non certamente), anche quel recitativo sarebbe stato non curato e messo in oblio, se a tenerlo vivo e a salvarlo non concorrevano due [491] fortunatissime circostanze: - la naturale applicazione del recitativo alla rappresentazione scenica; - e la istituzione (ch'ebbe luogo precisamente in que' giorni) de' teatri pubblici.

Al fatto (pur tanto notevole) della istituzione de' teatri pubblici, gli storici, i tecnici e i critici non badarono più che tanto nè allora nè mai. E in conseguenza non videro mai a che dovevasi attribuire la grande e così pronta azione che esercitarono in tutto il campo dell'arte musicale.

Sino al principio del seicento l'esercizio della musica fu circoscritto: alle scuole, dove naturalmente imperavano i maestri; - alle chiese, dove il rispetto dovuto alla santità del luogo, impediva la manifestazione d'ogni giudizio; - alle sale de' sovrani e de' ricchi, dove per un elementare principio di educazione e di convenienza, non potevasi che approvare e lodare. Da questo, il lunghissimo ed assoluto dominio della musica aulica.

Dai teatri aperti al pubblico, la piena libertà dei giudizi. E però, fra la musica lenta, grave e incolora che veniva dagli strettoi delle teoriche, e quella che moveva dall'estro animato da un intento estetico, non fu ombra di lotta; come ne' compositori, non fu ombra di esitazione a scegliere fra l'elogio compassato de' musicisti e gli applausi inebbrianti del teatro.

I barbassori del contrappunto e l'armento innumerevole [492] de' pedanti, badavano a protestare, a censurare e a strepitare. Ma i nuovi musicisti, sicuri del fatto loro, procedevan franchi e par lavan chiaro ed alto.

Il Caccini scrisse e stampò, che dai dotti colloqui tenuti coi componenti la Camerata del Conte Bardi: aveva imparata la musica assai più e meglio che dallo studio del contrappunto cui aveva consacrati trent'anni della sua vita.

Negli avvertimenti posti innanzi all'opera: Rappresentazione di anima e di corpo, pubblicata nell'anno 1600, Emilio De' Cavalieri, alla barba de' scolastici, stampò queste parole: Le dissonanze e le Quinte (intervalli e modi proscritti) si sono fatte apposta.

Col Caccini, col De' Cavalieri e cogli aderenti della Camerata Bardi, le cose passarono abbastanza quiete. Ma non così con Claudio Monteverdi, la cui opera Arianna rappresentata a Mantova nel 1607, fu fatta segno (specialmente per parte di Giovanni Maria Artusi) ad acerbe censure e a tali dileggi che, pel compositore, erano insulti addirittura ed ingiurie.

L'Artusi (canonico, per verità, ben poco reverendo) ebbe mente, studi, erudizione; e alla pedagogia musicale, se non ad altro, avrebbe potuto giovare. Ma non riuscì a nulla di bene. Pedante cocciutissimo, presuntuoso all'eccesso, [493] arrogante, bizzoso, accattabrighe, egli passò fra i musicisti del suo tempo, come un lupo di mezzo ad una muta di cani: morsicando e morsicato!

Sul conto del Monteverdi nelle biografie e nelle storie corrono giudizi disparatissimi. - Per me fu un compositore di polso. I suoi recitativi e, per certi rispetti, la sua strumentazione, potrebbero ancora servir di modello. - Noto che nell'opera Orfeo, v'ha una specie di cantabile, sulle parole De' sommi Dei, il quale così per le note come per l'andamento, fa pensare all'Addio, cigno gentil del Lohengrin.

Il Gevaert, ora direttore del Conservatorio di Bruxelles, del Monteverdi dà questo giudizio: “Da più di due secoli le sue opere dormono nel più profondo obblio; e ciò non ostante a' giorni nostri il suo nome ha riconquistata una popolarità negata a compositori senza nessun dubbio più grandi. Devesi dirlo: la sua influenza nell'arte del secolo XVII non è stata così grande e così decisiva come generalmente si crede.„

Come credettero e credono, cioè, tutti quegli storici e critici dilettanti che senza esame e proprio ad occhi chiusi, ebbero piena fede nel Fètis (dotto del resto e d'alto ingegno), quando nel 1825 annunziò una grande sua scoperta. “Il Monteverdi, egli affermò, con l'opera Arianna [494] mutò radicalmente e interamente la stessa essenza dell'arte, rendendo graditissimo a noi ciò che riusciva incomportabile ai nostri padri; e rendendo a noi incomportabile ciò che pei nostri padri era sorgente di sensazioni dolcissime. Nel Monteverdi è dunque a riconoscersi l'inventore e il creatore della Tonalità moderna.„

Non si tratta di poco, o Signori! Si tratta di una radicale trasformazione della essenza stessa della musica, e insieme, per conseguenza necessaria, di una radicale trasformazione dell'orecchio umano. Chi ci vuol credere, padrone. Ma a chi non vuol credere, non mancano nè buone ragioni, nè saldi argomenti, nè fatti provati, provatissimi, per dimostrare che la pretesa scoperta del Fètis è tutta un bel sogno, o per dir pane al pane, una gran frottola.

Mi tengo ai fatti. - Quella Tonalità che il Fètis vuole inventata e creata dal Monteverdi, la si trova manifestamente nelle prime opere della Riforma melodrammatica. Benchè inceppata e snaturata dalle false teoriche, la si trova nella musica del Palestrina e de' compositori fiamminghi. La si trova, aperta e libera, nell'opera di Adamo della Hale, e in tutte le canzoni popolari de' bassi secoli che pervennero sino a noi.

La Tonalità che si pretende inventata e creata dal Monteverdi nel 1607 e che dicesi Moderna, [495] è invece antichissima; è la prima e la sola; è quella, in breve, cui il Creatore ha informato l'orecchio d'Adamo.

Dopo l'Arianna del Monteverdi, di opere teatrali degne di attenzione ne troviamo due scritte da una donna: La liberazione di Ruggero dall'isola d'Alcina, e Rinaldo innamorato, di Francesca Caccini, nei Signorini Malaspina.

Schopenhauer ha sentenziato che le donne non sono fatte per le arti belle. - Lasciando dire a posta sua quel filosofo pessimista (o pessimo filosofo, come lo qualificano i suoi contradditori) io sto coll'universale a credere che le facoltà estetiche della donna, non sono in nulla e per nulla minori di quelle dell'uomo.

Venendo alla musica, arte dei sentimenti e degli affetti, come potran dirsi disadatte le donne, cui i sentimenti e gli affetti sono la vita?!

Educata alla scuola del padre (Giulio, l'autore della Euridice), la Caccini fu una esimia cantatrice; la migliore anzi del suo tempo, se stiamo a ciò che ne scrisse il Doni.

Di lei, come compositrice, oltre le opere teatrali, abbiamo un Primo libro delle musiche ad una e a due voci, pubblicato in Firenze nel 1618.

Nella Liberazione di Ruggero, la Caccini vince il padre così pel sentimento drammatico, come per la strumentazione evidentemente modellata [496] su quella del Monteverdi. Ma del padre non ha nè la ricchezza armonica nè le grazie del canto. Come nelle opere del padre e del Monteverdi, anche nella Liberazione di Ruggero abbondano i Recitativi; ma fra questi e fra i cori, v'han tratti misurati e cantabili singolarmente pregevoli.

Più si procede, stretti alla cronologia, nell'esame delle opere scritte nel seicento, e più la linea melodica acquista in ampiezza, in vaghezza e, sopratutto, in espressione.

Di questi pregi fanno specialmente fede: l'Erminia sul Giordano di Michelangelo Rossi; la Catena d'Adone di Virgilio Mazzocchi; - e più specialmente ancora il S. Alessio di Stefano Landi, scritto su libretto del cardinale Barberini, poi papa Urbano VIII.

“Il S. Alessio (stampò l'abate Baini) è l'opera più drammatica e più sentimentale ch'io abbia veduto di que' tempi, sia per le sinfonie, sia per l'accompagnamento degli strumenti uniti alle voci, sia anche per gli a solo, pei duetti, pei terzetti, e pei cori!„

A questo giudizio (giudiziosissimo) del Baini, può aggiungersi che nel S. Alessio sono frequenti i modi di recitativo che preludono ai recitativi obbligati dello Scarlatti, e le pagine, quali così espressive e quali così briose, che si direbbero scritte, cent'anni dopo, dal Pergolesi e dal Cimarosa.

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S'aggiunga ancora (ad accrescerne il valore e la importanza storica) che il S. Alessio è evidentemente condotto col proposito d'improntare nella melodia il carattere de' personaggi; tanto che nella parte di Satana v'han tratti che ricordano il Beltramo del Roberto il Diavolo.

Col Landi, Pierfrancesco Caletti-Bruni, detto Cavalli, che portò il melodramma a forme più simmetriche, e la melodia a maggiori e più geniali svolgimenti.

A' giorni stessi del Cavalli, Marco Antonio Cesti meno vario e originale, ma dotato di un gusto non meno eletto specialmente in ciò che si riferisce al canto.

Della storia del melodramma que' due compositori chiudono il periodo che dirò preparatore, - periodo fecondissimo di opere, di tentativi, di felici trovate. - Giunti qui, non siamo ancora alla grand'arte, nè a quelle espansioni melodiche ch'hanno potenza d'esaltare e di destare l'entusiasmo; ma ne siamo (e sanamente), agli inizi. Con la musica, non siamo ancora ad una piena e splendida fioritura; ma, come all'aprirsi della primavera, siamo al rinverdire delle piante, ai bocci e ai fiori socchiusi.

Proponendomi di riprenderlo più innanzi, lascio il melodramma per dire della musica strumentale, la quale più presto e forse meglio della vocale, seppe [498] fare suo profitto della libertà lasciata alla fantasia e all'estro dal nuovo indirizzo preso dall'arte.

I filosofi moderni assegnano alla musica strumentale una importanza grandissima. È la vera musica (dicono), è la musica per eccellenza, ed è tale, perchè vive e spazia nelle regioni dell'ideale puro; perchè è affatto indipendente da ogni ordine di cose reali.

La parola (aggiungono) avvalora senza dubbio e dà forza al linguaggio della musica. Ma lo avvalora circoscrivendolo.

Il dramma offre alla musica un'infinita varietà d'immagini, di affetti, di passioni. Ma le leggi della verosimiglianza e le esigenze della scena, trascinano imperiosamente la musica su vie che non sono le sue.

Le eleganze e le grazie del canto, la quadratura de' pezzi, le ripetizioni e la simmetria, alla musica necessarissime, sconvengono non di rado ai procedimenti del dramma.

Il dramma, intanto, procede per analisi, e la musica per sintesi. Il dramma, anche quando è tutto d'invenzione, pretende di rappresentare il Vero e d'esser Storia. La musica, al contrario, è tutta e sempre Poesia; nient'altro che Poesia. E però frequentissimi i casi di discordia e d'inconciliabilità.

La musica Vocale e la Strumentale sono sorelle gemelle, la cui nascita rimonta forse alla [499] creazione del mondo. Nulla s'oppone a credere che l'uomo, il quale, pel primo, cominciò a cantare, fosse contemporaneo di quello che, pel primo, cominciò a cercare i suoni soffiando nelle canne e nelle tibie.

Tuttavia, il progresso di una di quelle sorelle fu lentissimo. Sino agli ultimi anni del mille e cinquecento, la musica strumentale non ebbe un'esistenza sua propria che nelle Gighe, nelle Sarabande, nelle Gavotte e in altre forme della musica da ballo. Quanto al resto, fu tenuta sempre alla materiale ripetizione, al raddoppio cioè, delle parti vocali. Le Messe,i Salmi,i Madrigali, ecc., nel millecinquecento si scrivevano: per cantare e per suonare.

L'autonomia della musica strumentale è anch'essa un portato della Riforma melodrammatica fiorentina.

Subito aperta la nuova via, ecco procedervi sicuro un insigne musicista: Girolamo Frescobaldi; il più valente di quanti furono prima di lui e con lui, i valenti organisti. La sua fama fu tale, che, invitato a suonare in San Pietro Vaticano, gli uditori accorsi passavano i trentamila.

Eppure de' titoli di gloria del Frescobaldi, quello d'organista è forse il minore.

Egli fu compositore, per organo specialmente [500] e per clavicembalo, d'altissimo merito. Le sue composizioni: le Toccate, i Ricercari, le Partite d'intavolatura, le Canzoni da suonare, van ricche di bellezze native e peregrine. In tutte (fatta sempre ragione ai tempi, s'intende) la melodia si svolge e discorre con naturalezza; ha forme simmetriche, è quasi sempre originale. E di sotto alla melodia, nuovo in parecchi atteggiamenti e di castigatissimo gusto, il magistero armonico.

Alla musica strumentale, il Frescobaldi ha dato il La. E a quel La si tennero tutti i cultori di quel ramo dell'arte suoi contemporanei, e i loro successori immediati: il Torelli, il Vivaldi, il Geminiani, il Bassani, il Corelli, lo Scarlatti (Domenico) e tanti e tant'altri, a dire dei quali anche per soli accenni, non che un discorso mal basterebbe un volume.

Da quei compositori (dal Bassani segnatamente e dal Corelli) la musica ebbe la Sonata; forma che è viva vivissima ancora così nella Sonata propriamente detta, come in tutta la musica strumentale da camera, ne' Terzetti, Quartetti, ecc., e nella stessa Sinfonia da Concerto.

Que' sublimi poemi che sono le nove Sinfonie del Beethoven, quanto a forma sono Sonate per orchestra.

Oltre la Sinfonia da Concerto o classica, abbiamo la Sinfonia Teatrale; quella che usa mettersi [501] innanzi ai melodrammi, e che molti credono d'origine francese, grazie al vocabolo Ouverture, col quale viene comunemente designata.

Altra forma musicale dovuta al secolo XVII, la Sinfonia-ouverture ebbe vita in Francia senza nessun dubbio; ma è italiana, italianissima; perchè la prima di quelle Sinfonie, venne ideata e scritta da un fiorentino, da Giovanni Battista Lulli: il compositore-favorito di Luigi XIV; autore di opere teatrali acclamatissime.

Il movimento che nel secolo XVII animò il melodramma e la musica strumentale, animò pure la musica religiosa; ma per ben poco.

A rendere incerti i compositori sul cammino da seguire ed a paralizzarli, sorse, rumorosissima, una controversia.

Sedotti dagli effetti nuovi e bellissimi dell'orchestra, i compositori la portarono in chiesa; e fu, per molti, uno scandalo.

L'orchestra è del teatro (picchiarono e ripicchiarono gli oppositori) e tutto ciò che è del teatro o che lo ricorda, in chiesa non può essere che una profanazione, un sacrilegio.

Certo è che tolta di mezzo l'orchestra, restan pur tolti di mezzo non pochi e ben prossimi pericoli di cadere con la musica negli effetti teatrali.

Ma quel provedimento, non è chi nol vegga, [502] rifiuta una parte dei poteri della musica e la stringe in termini prescritti; mentre la Chiesa, associandola alle sue cerimonie e alle sue preghiere, vuole un'arte libera; vuole un ausiliario, atto a cattivare l'attenzione e a commuovere il cuore, affinchè riesca e più pronta la intelligenza e più profonda la impressione delle verità che ella predica e insegna.

Ora, vincolata a forme determinate e prescritte, la musica troppo facilmente non potrebbe ottenere quegli effetti, e troppo facilmente mancherebbe a sè stessa.

Vietare alla musica religiosa l'uso dell'orchestra perchè serve al teatro, non è forse lo stesso che vietare alla pittura religiosa l'uso, poniamo, o del rosso o del turchino perchè servirono o possono servire a dipingere la veste di una Frine? Non è lo stesso che vietare alla poesia e all'eloquenza sacra i vocaboli degli affetti e del cuore, perchè possono esser diretti a tutt'altri che a Dio?

Nè la Chiesa del resto, pensò mai a limitare i mezzi naturali delle arti. Dalle nude e anguste cripte delle catacombe, ella venne alla magnificenza delle basiliche e delle cattedrali. Dagli informi dipinti e dai rozzi intagli con cui, nel suo grembo, si svolsero le moderne arti del disegno, ella venne a Raffaello, a Michelangiolo, al Canova. E, in ordine alla musica, ben distinta [503] sempre la liturgica dall'artistica; - applicato alla prima (al canto fermo) il precetto: Nec plus, nec minus, nec aliter, - accettò dalla seconda tutti i progressi, e venne al Palestrina, al Pergolesi, al Mozart, al Cherubini, al Rossini, al Verdi.

Non mai definita, quella controversia è viva anche a' dì nostri. I compositori odierni, però, non se ne danno per intesi e tiran via come vien viene.

I compositori del seicento, al contrario, quando scrivevano musica religiosa, si toglievano d'ogni incertezza, tornando di netto alle vecchie formule delle scuole e agli artifizi (anche ai più astrusi) del contrappunto.

Da una controversia passo ad un'altra per riportarmi al melodramma.

Careggiato, applaudito, acclamato come una festa dei sensi e della intelligenza, come la più splendida e la più attraente delle forme dell'arte, il melodramma pure al suo primo apparire, fu assalito da un gran numero di oppositori, i cui argomenti erano que' medesimi de' quali si valsero le lancie spezzate del Wagner per combattere la scuola italiana che, pel melodramma, soprastava ad ogni altra un gran tratto.

Di quegli argomenti, ecco il principalissimo:

“Volendo che i suoi personaggi parlino, pensino, amino, soffrano e anche muoiano cantando, il melodramma cade, e in pieno, nel falso e nell'assurdo. [504] L'uomo qual è nella natura, l'uomo vero, non parla cantando; e molto meno se è dominato dalle passioni; e meno ancora se muore.„

Grazie della notizia!

Ma quell'argomento non mena già, come vorrebbero gli oppositori, ad una modificazione o ad una riforma, mena bensì (e inevitabilmente) alla negazione ed alla condanna del melodramma in sè stesso. Perchè, non ammessa la convenzione che i suoi personaggi parlano cantando, il melodramma si rende impossibile, non può essere.

E se ben si guarda, con quell'argomento si negano e si condannano tutte le arti belle; perchè tutte s'appoggiano ad una convenzione; perchè in quello stesso modo e in quella stessa misura che è falso ed assurdo il personaggio del melodramma che parla cantando, è falso ed assurdo quello della tragedia che parla in versi, e quello della pittura che non si muove e non parla mai, e quello della scultura che non si muove, non parla ed è tutto di un colore solo.

Di quante sono le arti, nessuna prende tanto dal vero e può darne tanto, quanto la drammatica. - Ma anche la drammatica ha le sue convenzioni. Ed è in grazia di esse che il drammaturgo può stringere e condensare in due o tre ore, la rappresentazione di fatti i quali, nel vero, [505] non potrebbero svolgersi che in parecchi giorni e in mesi e in anni. È in grazia di quelle convenzioni che delle tante circostanze che accompagnano i fatti, il drammaturgo, secondo quello speciale intento che s'è proposto di ottenere, può lasciar quelle e prender queste, può prenderne una sola o nessuna se gli torna; e che nello svolgimento così dell'azione come de' caratteri, può far uso di un ordine di artifizi analoghi a quelli che i pittori chiamano scorci; e pei quali lo spettatore vede ciò che realmente non c'è.

E nella commedia e nel dramma, che cosa sono rispetto al vero, i soliloqui? Che cosa sono quegli “a parte„ così frequenti, che si vogliono uditi da tutti gli spettatori, e che gli spettatori devono credere non uditi dai personaggi che sono sulla scena e ai quali, magari, son detti proprio sul viso? Con questo non è forse stabilito e accettato: che il personaggio della commedia e del dramma, pensa, riflette e sente, - parlando?

Gli oppositori del melodramma non hanno osservato: che il fine delle arti belle, non è già la sola ed esatta riproduzione del vero, ma sì la esplicazione, per mezzo del vero, di un sentimento o di un'idea!

Non hanno osservato: che all'opera d'arte non si cerca già la commozione, in genere, che può [506] destare il vero, ma sì quella commozione che il vero ha destato nell'artista; e dall'artista fecondata e portata ad espressione di bellezza.

Da cui quella commozione sui generis che dicesi estetica.

Gli oppositori del melodramma non hanno osservato: che il sentimento e l'amore dell'arte sono insiti nella natura dell'uomo; che sono inerenti alle sue facoltà e a' suoi bisogni intellettuali; che muovono, in conclusione, da un istinto. E non hanno osservato: che le convenzioni fondamentali delle arti sono il primo e necessario portato di quell'istinto appunto. Del che s'ha una dimostrazione che non ammette replica, nel fatto: che quelle convenzioni, non pure senza ripugnanza, ma con vivo desiderio vennero accettate in tutti i tempi, da tutti gli uomini, in tutti i gradi di cultura: dai Greci come dai Barbari; dagli adulti come dai fanciulli.

Certo è che uno scultore ritrarrebbe meglio il vero, se alle forme del marmo aggiungesse i colori. Ma qual è uomo di gusto, o così naturalmente infelice o così corrotto, che non veda e non senta che l'arte sarebbe qui disviata, che ne sarebbe invertito l'assunto, che il vero sarebbe non già imitato ma contraffatto?

Così, chi assiste alla rappresentazione del Mosè o del Guglielmo Tell, non domanda già alla scena [507] nè il Mosè proprio quello del Pentateuco, nè il Tell montanaro e non poeta, nè musicista, nè cantante, ma domanda il ritratto fantastico di que' personaggi, animato dalle attrattive della poesia e dagli incanti della musica.

E dopo aver dichiarata assurda la convenzione del melodramma, a qual partito s'appigliano gli oppositori?

Per me s'appigliano ad un partito che è apertamente contrario al buon discorso della logica e agli intendimenti dell'arte: condannano e proscrivono il canto che canta, che viene a dire la melodia, per mettere al suo posto quella maniera di recitativo che chiamano melopèa.

Della convenzione prima e fondamentale, non ne prendono che una parte. Come se con questo puerile mezzo termine non si riuscisse ad un'altra convenzione! Come se nella materia di cui trattasi il falso e l'assurdo potessero stare nel più e non nel meno! Come se non volendo ammettere l'uomo che parla cantando il canto, perchè non vero, si potesse poi ammettere l'uomo che parla cantando la melopèa, che non è vero nello stesso stessissimo modo!

E della nuova teorica, quali i frutti?

Questi: la musica spogliata de' più efficaci suoi attributi; costretta a seguire pedestre la declamazione e a gonfiarne le inflessioni e gli accenti. [508] Il dramma inceppato e fatto lentissimo dalla melopèa, nascosto e abbuiato dalla orchestra. La recitazione falsata e portata a termini che si contradicono: a non voler cantare per poter dire; e a non poter dire che con gli elementi del canto: - un ibridismo che mai in arte il più arbitrario, il più infecondo, il più strano!

Di compositori melodrammatici che fiorirono nella seconda metà del seicento, la storia ne ricorda moltissimi, valenti i più, valentissimi non pochi. Ma come ho fatto sin qui, mi terrò alle cime; a quelli che più giovarono all'incremento dell'arte: ad Agostino Stefani e ad Alessandro Scarlatti.

Lo Stefani (ora interamente dimenticato) nel disegno euritmico delle arie e dei pezzi concertati, fu il precursore dello Scarlatti; nella musica vocale da camera fu il precursore del Clari; e in tutto ciò che spetta alla verità della espressione drammatica, e a quegli intenti che si riferiscono al così detto color locale, fu il precursore de' tedeschi. Di due de' quali, del Keiser (grande) e dell'Händel (grandissimo) fu pure maestro. - Le migliori sinfonie dell'Händel, quali sono deduzioni e quali sono calchi di quelle dello Stefani.

Le opere: Marco Aurelio, Servio Tullio, Enrico [509] detto il Leone e Rolando, dello Stefani, aprirono la Germania all'arte italiana.

Sopra tutti i compositori che ho nominati, s'alza gigante Alessandro Scarlatti: il Mozart e il Rossini del suo tempo: un Genio! Ottimo cantante, ottimo suonatore di violino, di clavicembalo, d'organo, di arpa, lo Scarlatti fu compositore di profondissima dottrina, di fantasia vivace e originale, di squisito gusto, e miracolosamente fecondo. - Fra serie, semiserie e buffe, scrisse dalle cento alle centoventi opere teatrali, pressochè tutte acclamate. Scrisse oltre a dugento opere di musica religiosa; otto oratorii, e un gran numero di cantate.

Lo Scarlatti piegò e strinse in una sintesi sapiente la dottrina del Palestrina e la naturale libertà della melodia. Guidato dalla indefettibilità del genio, gettò le basi di quella scuola che, detta da principio Napoletana, fu in seguito la Italiana.

Nella musica delle opere dello Scarlatti, altezza e originalità di concetti, d'intenti, di aspirazioni; - limpidezza, culta ed elegante di stile; - ricchezza inesauribile di partiti; - naturalezza d'andamenti; - abbondanza di idee melodiche native, geniali, informate al carattere voluto dalla poesia cui s'applicavano, e piene d'espressione; - varietà ed efficacia ne' giri degli accordi, [510] ed una strumentazione così savia e sana, così bene intesa, che, senza faticose ricerche, vi si trovano in germe tutte quelle novità che usciron dopo, e delle quali si menò e si mena quel vanto e quello scalpore che tutti sanno.

Come il Monteverdi, anche lo Scarlatti assegnò non di rado all'accompagnamento del canto di ciascun personaggio un gruppo speciale di strumenti, da cui, col colore drammatico, una bella varietà di effetti acustici. Per questo rispetto, sono degne di studio tutte le sue opere, ma più specialmente: Tigrane, e più specialmente ancora La caduta dei Decemviri, nella quale l'aria: Ma il mio ben che farà, è accompagnata da soli violini, divisi in quattro parti.

Dalla bontà de' criteri estetici che lo guidavano nella pratica, la bontà del suo insegnamento.

Chiamato alla direzione di uno de' conservatorii di Napoli, il culto del bel canto, della buona armonia e della buona disposizione delle parti, dalla sua scuola, sempre popolatissima d'allievi, non che a Napoli e in Italia, si diffuse subito in tutt'Europa. - E il suo insegnamento (s'avverta) non appoggiavasi a nessun Trattato, a nessun sistema teorico. Era essenzialmente pratico. Musicista nato, e uomo di molta cultura, lo Scarlatti sapeva troppo bene che cosa erano e che cosa potevano essere, in fatto di musica, le teoriche e i trattati.

[511]

Con lo Scarlatti siamo alla grand'arte; all'arte (ripeto) raggio de' cieli, e quasi nipote a Dio!

Genio fecondatore (come poi il Rossini) intorno allo Scarlatti fu in breve una legione di peritissimi cantanti, sui quali primeggia Baldassare Ferri, detto da' biografi il cantante Taumaturgo.

E con quella de' cantanti, un'altra legione di compositori; de' quali vogliono essere distinti: l'Angelini Bontempi, Bernardo Pasquini, Giovanni Bononcini e Antonio Caldara; un compositore quest'ultimo che nel seicento e sino al Pergolesi, rimase insuperato, nella rivelazione degli affetti più delicati, de' sentimenti più intimi e, se così posso dire, de' bisbigli dell'anima.

Qual più qual meno, tutti quei compositori vennero dimenticati, ma più che per altro, per le condizioni d'esistenza in cui trovavasi la musica nel seicento; condizioni ben diverse da quelle in cui trovasi oggi.

In quel tempo le pubblicazioni della stampa erano infinitamente minori di quelle d'ora. Le più belle opere rimanevano manoscritte, tolte per ciò alla circolazione e quindi facilmente sconosciute.

In quel tempo non usavano i giornali; tanto utili a mantener vive le rinomanze e le glorie; (e anche ad inventarle).

E a far dimenticare le opere non che all'universale, [512] agli stessi compositori, concorreva il fatto che dei Diritti d'autore in quel tempo non s'aveva nemmeno idea. - Scritta e fatta rappresentare un'opera, i compositori mettevan mano ad un'altra, e a quella scritta non ci pensavan più, perchè passata, de jure, in dominio pubblico.

Dura legge era quella pei poveri compositori; dura, ingiusta, leonina, - lo riconosco. Ma per un altro verso, era provvida e benefica, in quanto preservava l'arte dal farsi una industria commerciale, e preservava gli artisti dal farsi mestieranti e bottegai.

La scuola dello Scarlatti, ha stabilita la musica pratica su basi razionali, ferme, armonizzanti coi postulati più accettati della estetica, e con la melodia e col canto l'ha avviata sui fioriti sentieri della poesia, ben diversi dalle viottole scabrose e cieche per le quali (e a gran fatica!) si trascinò sempre la musica delle teoriche.

Pure anche questa, nel seicento, ha guadagnato non poco, ed ha fatto non breve cammino.

Aperta la via alla melodia, quella legge prima e fondamentale cui la natura ha informato l'orecchio dell'uomo, e per la quale i suoni acquistano senso ed espressione, quella legge, dico, senza cessare d'essere mistero quanto al suo principio, venne rivelandosi nella pratica co' suoi effetti. I musicisti ben dotati la seguirono [513] per istinto; e non andò molto che le vecchie teoriche non trovaron più modo d'applicarsi e che con la pratica non ebbero più nulla a vedere.

I Toni, che abbiam trovati così numerosi e fiancheggiati da tante e così sottili distinzioni e classificazioni, a poco a poco sparirono tutti, sopraffatti da soli Due! messi in luce e imposti dalla ragione melodica.

Que' due Toni (e senza che si sentisse mai il bisogno nè di aggiunte nè di modificazioni) bastarono alle fantasie, alle ispirazioni e ai voli del Bach, del Mozart, del Beethoven, del Rossini. Bastarono al Wagner; bastano ancora; e bastano, quel che è più, a classificare prontamente e senza difficoltà, tutta l'antica musica conosciuta, e anche quella che i teorici dissero inclassificabile. Può volersi di più per mettere in sodo che con que' due Toni (il maggiore, e il minore) siamo nel giusto e nel vero? che siamo dove ci volle natura?

Mi resterebbe ancora a dire molto, ma per non abusare più oltre della vostra pazienza, o Signori, eccomi a concludere.

Nel secolo XVII, più che un rinnovamento della musica, è a vedere una rigenerazione, preso il vocabolo nel più ampio suo significato; una rigenerazione che si estese a tutti gli elementi costitutivi dell'arte; a tutte le sue forme; così [514] all'indirizzo estetico, come al teorico; e, soprattutto, al Gusto, giacchè, sciolta da ogni regola e interamente abbandonata alla fantasia, dal Landi allo Scarlatti, la musica di quel secolo si mantenne sempre semplice, naturale, casta. Nè amplificazioni, nè stemperatezze, nè gonfiezze, nè eccessi, mai.

E sì che il barocchismo, imperversante allora in tutte le arti, s'era pur fatta strada in teatro, con la esecuzione de' cantanti, tutta a passaggi di difficoltà, e coll'apparato scenico che volevasi tutto a macchine, a voli, a sparizioni, a cascate d'acqua, a incendi, ecc., e che volevasi scortato, non esagero, da centinaia e centinaia di ballerini, di corifei e di comparse.

Quando il Verdi ha detto: Torniamo all'antico (parole d'oro) per me ha certamente voluto dire: Torniamo ai forti compositori del seicento: che seppero liberarsi dalle tenebre e portarsi alla luce; - che seppero togliere la musica dai bassi fondi degli artifizi meccanici e alzarla, agile, piena di vita e splendida, a dignità di arte.

[515]

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