X.

La Commedia dell'arte nè fu un monopolio degli Andreini nè finì con essi. Ed io dovrei parlarvi di comici insigni come i Riccoboni, i Fiorillo, Domenico Biancolelli, Tommaso Visentino detto Tommasino, Carlo Bertinazzi detto Carlino; di donne celebri come la Maria Malloni detta Celia, di cui il Marino:

Celia s'appella, e ben del Ciel nel volto

Porta la luce e la beltà Celeste;

Ed oltre ancor, chè come il Cielo è bella

E ha l'armonia del Ciel nella favella,

e la Flaminia Riccoboni e l'Aurelia Bianchi; di dilettanti come Salvator Rosa che, diceva il Lippi,

pittor, passa chiunque tele imbiacca,

Tratta d'ogni scïenza ut ex professo,

E in palco fa sì ben Coviel Patacca,

Che, sempre ch'ei si muove o ch'ei favella,

Fa proprio sgangherarti le mascella,

ed Evangelista Torricelli, il Viviani, il Bernini:

Ma son giunto a quel segno, il qual s'io passo,

Vi potria la mia istoria esser molesta.

[472]

Devo però aggiungere che letterariamente la nostra Commedia produsse i suoi frutti più duraturi oltre i confini della patria. Avvenne per essa l'inverso di ciò ch'era avvenuto per la poesia cavalleresca; e l'Ariosto che elaborò fuori d'Italia quella materia comica inventata dagl'improvvisatori nostri, fu, voi lo sapete, il Molière. “Nous ne devons jamais oublier que la priorité de ce calque ingénieux et piquant de la nature appartient à l'Italie, et que, sans ce riche et curieux précédent, Molière n'eût pas créé la véritable comédie française„, dice George Sand; e non son mancati i Rajna a frugare nelle reliquie della Commedia dell'arte, e a ritrovarvi abbozzati intrecci, scene, episodi, tipi, personaggi, che nelle mani del geniale commediografo divennero il Tartufe, le Malade imaginaire, George Dandin, Trissotin, Sganarelle, Scapin. Sui cartoni disegnati con la carbonella, il grande artista ha rimesse le tinte, la cui vivacità oramai non è più caduca.

Certo, il teatro di Molière fu il più squisito prodotto della Commedia dell'arte; la quale ebbe nell'ospitale Francia quasi una seconda patria. Ma essa può vantare anche altre benemerenze ed altre benevolenze. Ho già accennato alla Spagna ed a Lope de Vega. Un po' prima che colà; nel 1568, un Giovanni Tabarino avea portata la [473] nostra commedia a Linz sul Danubio, dond'egli era passato a Vienna con la qualità ufficiale di comico di Sua Maestà. Vi rimase, pare, fino al '74, facendo nel febbraio '71 una scappata in Francia; ma codesto più antico Tabarino non è da confondere col famoso buffone dello stesso nome che fu di moda a Parigi dal 1618 al '30. E nel tempo ch'egli rimase a Vienna, vi capitarono pure i fiorentini Antonio Soldino, proveniente dalla Francia, e Orazio; e poi Giulio, Giovanni veneziano, Giovan Maria romano, e i trevisani Silvestro e quel Battista che recitava da Franceschina; e, più tardi, Pier Maria Cecchini, poeta e trattatista oltrechè attore col nomignolo di Frittellino, il quale l'imperatore Mathias “fece nobile...., habilitandolo ad ogni essercizio cavalleresco, facendolo capace di quanto ad ogni titolato si concede„.

Nella Corte di Baviera la Commedia dell'arte fu, qualche anno innanzi al 1568, fatta gustare da un musicista fiammingo vissuto per lungo tempo tra noi, Orlando di Lasso, e da un musicista napoletano, Massimo Trojano, che ce ne dà conto. Si celebravan le nozze del duca Guglielmo IV con Renata di Lorena; e un bel giorno al Duca “venne in fantasia.... di udir una commedia la sera seguente„. Ne pregò il maestro Orlando, che a sua volta pregò il collega [474] Trojano d'aiutarlo. Detto fatto, inventarono “il dilettevole suggetto„ e recitarono la sera appresso una “comedia all'improvisa alla italiana...., in presenza de tutte le serenissime Dame; che, quantunque le più che vi erano non intendevano lo che si dicevano, pure feze tanto bene e con tanta gratia il Magnifico Venetiano messer Orlando di Lasso, col suo Zanne, che smascellare della risa a tutti fece„. Le parti erano state così distribuite: messer Orlando, dunque, “fu il Magnifico messer Pantalone di Bisognosi; m. Gio. Battista Scolari da Trento, il Zanne; Massimo Trojano fece tre personaggi, il prolago da goffo villano (un villano, alla cavajola, tanto goffamente vestito che parea l'Ambasciatore delle risa), il Polidoro innamorato, e lo spagnuolo disperato sotto nome di Don Diego di Mendozza; lo servitore di Polidoro fu Don Carlo Livizzano; lo servitore del Spagnuolo, Giorgio Dori da Trento; la Cortigiana innamorata di Polidoro, chiamata Camilla, fu il Marchese di Malaspina; la sua serva, Ercole Terzo; et un servo francese„. Per meglio allietare lo spettacolo, alla commedia furono intramezzati dei madrigali musicati dal Lasso.

Ma in Germania non può dirsi che i semi della Commedia dell'arte cadessero su un terrena fecondo. Invece, nel 1577 passò la Manica una Compagnia condotta da un Arlecchino mantovano, [475] Drusiano Martinelli, fratello d'un ben più celebre Arlecchino, che chiamava sè stesso dominus Arlecchinorum, e, per essersi fatta tenere a battesimo dalla regina di Francia una figliuola, le dava della “commare„ e si sottoscriveva “Arlecchino compadre christianissimo„. Alla Corte di Elisabetta è probabile imparassero da lui ad improvvisare su semplici scenari, ed a comporne, i due buffoni rivali Tarleton e Wilson.

Shakespeare non venne a Londra che circa otto anni dopo. È risaputo com'avesse famigliari i nostri novellieri e i nostri commediografi, e come a quella fonte attingesse intrecci, scene, situazioni. Gli Equivoci derivano dai Menechmi attraverso un'imitazione italiana; la Selvatica ammansata è ricalcata in gran parte sui Suppositi dell'Ariosto; e perfin la Giulietta e Romeo ricorda in più d'un luogo (pel lodevole zelo di parer discreti non bisogna esser poi ingiusti!) l'Hadriana di Luigi Groto. Nè sono scarse od occulte nel suo teatro le tracce dell'imitazione dalla nostra commedia popolare. Già, quando nell'Otello (I, 2) Jago chiama Brabanzio “il Magnifico„, a me pare ch'ei gli voglia dare del Pantalone anzichè indicare con quel titolo semplicemente il grado senatoriale di lui, come gli annotatori interpretano. Ma c'è ben di meglio. Il capitano Parolle, nella commedia È tutto bene quel che ben finisce, [476] il quale porta “tutta quanta la dottrina teorica della guerra nel nodo della sua sciarpa, e tutta l'arte pratica nel fodero della daga„, non è che il nostro Capitano Spavento; e la scena in cui, essendo per vigliaccheria caduto nelle mani dei propri soldati che gli hanno fatto paura e che affettano un linguaggio barbaresco, è trascinato con la benda sugli occhi innanzi al proprio generale ch'ei crede quel dei nemici, e spiattella i segreti del campo e svilisce i colleghi, si direbbe addirittura desunta da uno scenario. Com'è in fondo il nostro Capitano spagnuolo quello spagnuolo fanfarone e galante delle Pene d'amore perdute. Basta sentirlo come del suo amore dà conto al valletto:

Voglio farti una confidenza: io sono innamorato; e com'è cosa abbietta in un soldato l'amore, così mi sono innamorato d'una vile contadina. Se potessi sguainar la spada contro codesta mia trista affezione, per sottrarmi a tali reprobi pensieri, farei prigioniera la mia passione amorosa, e la cederei a qualche cortigiano francese in cambio d'una riverenza alla moda. Mi par cosa spregevole il sospirare, e penso che dovrei rinnegare Cupido. Consolami tu, paggio mio: quali furono i grandi uomini schiavi d'amore?

Il pedante Oloferne della medesima commedia è talquale il nostro Graziano; ed è curioso ch'ei citi con malinconica ammirazione il principio d'un'egloga latina d'un oscuro umanista mantovano, [477] cui fa seguire in italiano due versi d'una canzonetta:

Ah, buon vecchio mantovano! io di te posso dire quel che di Venezia il viaggiatore:

Vinegia, Vinegia,

Chi non te vede, ei non ti pregia.

Vecchio mantovano! vecchio mantovano! Chi non ti intende non ti ama!

Nella Selvatica ammansata poi, oltre alle tante parole italiane che vi ricorrono e perfino un po' di dialogo (“Con tutto il core ben trovato„, dice un amico all'altro; o questi: “Alla nostra casa bene venuto, molto amato signor mio Petronio„), ed oltre pure un certo Pedagogo che della nostra maschera non ha che la pusillanimità e l'improntitudine, c'è una scena a cui della Commedia dell'arte non manca neppure il nome d'uno dei suoi più caratteristici tipi. Un giovane s'è gabellato maestro di grammatica per dichiarare il suo amore alla giovinetta amata. È presente un vecchio galante, cotto anch'esso.

Bianca. Dove eravamo?

Lucenzio. Qui, signorina:

Hic ibat Simois; hic est Sigeia tellus,

Hic steterat Priami regia celsa senis.

Bianca. Vogliate spiegarlo.

Lucenzio. Hic ibat, come prima v'ho detto - Simois, io sono Lucenzio - hic est, figlio di ser Vincenzo di Pisa - Sigeia tellus, così travestito per ottenere l'amor vostro - Hic steterat, e quel Lucenzio che venne [478] a corteggiarvi - Priami, è il mio valletto Tranio - regia, che ha pigliato il mio luogo - celsa senis, per ingannar meglio il vecchio Pantalone....

Bianca. Ora vediamo se riesco a tradurre: Hic ibat Simois, io non vi conosco - hic est Sigeia tellus, non mi fido di voi - Hic steterat Priami, badate ch'egli non ci senta - regia, non presumete di troppo - celsa senis, non disperate.

E pur nelle Donne allegre di Windsor, quel medico francese che lardella il suo discorso di frasi e parole della sua lingua, e quel parroco che cinguetta l'inglese da buon gallese, e quello scioccherello che parla sempre in punta di forchetta, han tutti i loro prototipi nella commedia nostra improvvisata.

Con la quale Shakespeare ebbe comune anche qualche vizio. Beltrame, per esaltare i suoi colleghi, dichiarava, nei primi decenni del Seicento, che essi “studiano et si muniscono la memoria di gran farragine di cose, come sentenze, concetti, discorsi d'amore, rimproveri, disperazioni e deliri, per haverli pronti all'occasioni„. Di qui quel loro stile così colorito; e forse di qui ancora, per lo meno in parte, lo stile enfatico ed ampolloso che il gran drammaturgo mette sempre in bocca ai personaggi italiani. Non era certo nei nostri novellieri ch'egli trovava il modello di quelle caricature.

Ma non son da porre sulla coscienza dei nostri [479] poveri comici, già così aggravata, tutte le scurrilità onde son lerci i primi lavori del capocomico inglese. I buffoni di Elisabetta, quanto a facezie grossolane e sboccate, non avean bisogno di maestri! E chi sa che non appartengano a loro, per lo meno in gran parte, quelle che son passate alla posterità di contrabbando, appiattate nei ricchi bauli del sommo poeta? Il quale avrà lasciato che in certe scene i buffoni si sbizzarrissero a loro agio, per contentare il pubblico grosso, sempre avido di quei motti salati che magari si sentiva ripetere da anni: alla stessa guisa che i predecessori di Rossini abbandonavano i trilli e le rifioriture alla virtuosità dei cantanti. Dopo, quelle trivialità saranno state trascritte sui copioni e tutte gabellate come opera del commediografo. Cresciuto in autorità ed ammaestrato dall'esperienza, anche questi, come Rossini i trilli, avrà provveduto a disciplinare le scene buffonesche, perchè non turbassero l'azione del dramma, e perchè almeno avessero quel sapore tra ariostesco e rabelaisiano che hanno, per esempio, nell'Otello e nell'Amleto. Ricordate gli ammaestramenti del principe danese ai comici:

Badino quelli che fan da buffoni a non dir nulla di più di quel che devono. C'è tra essi qualcuno che si mette a snocciolar buffonerie, per far ridere un certo numero di spettatori idioti, proprio nel punto che il [480] dramma richiederebbe che si stesse ad ascoltarlo con la maggiore attenzione. Ciò è indegno, e rivela nel commediante una miserevole ambizione.

Erano abusi codesti a cui certo anche la nostra Commedia dell'arte avviava; poichè ogni libertà può degenerare in licenza quando sia concessa anche a chi non trovi il necessario freno nella propria indole o nella propria educazione. Ma non si vogliano, per i cattivi effetti della licenza, dimenticare gl'ineffabili benefizi della libertà. Tra mezzo all'ossequioso servilismo delle nostre lettere a un passato irrevocabile, quei nostri comici apostoli corsero il mondo predicando e praticando la libertà: umili ma rumorosi ed efficaci guastatori di quella via per cui poi dovevan trionfalmente passare Lope de Vega, Shakespeare e Molière.

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