VI.

E, da ultimo, non dimentichiamo mai, o signore, che Vittorio Alfieri non considerò la potenza del suo teatro tragico e in genere la potenza dell'arte sua che come un mezzo per raggiungere una nobilissima meta: il rinnovamento del carattere degli italiani, il riscatto civile e politico d'Italia.

Nel preambolo del suo Misogallo, egli vi dice che vivendo, palpitando, fantasticando, scrivendo, ebbe sempre davanti a sè tre Italie: quella che fu, grande e gloriosa; quella che era al suo tempo, abbietta e divisa; quella che sarà un giorno, indubbiamente grande e gloriosa come l'antica. E da queste tre Italie egli attinse tutte le sue ispirazioni; e al culto di queste tre Italie egli dedicò e consacrò tutte le forze del suo ingegno fino al sacrifizio di ogni altro dilettevole fine.

Io so che questa missione civile e politica farebbe ridere certi nuovissimi poeti, i quali dicono che l'artista, se vuol essere davvero rispettabile, si deve chiudere dentro una “torre d'avorio,„ e là dentro vivere tutto nell'adorazione egoistica di sè e dell'arte sua, dimenticando che fuori di [342] quella benedetta torre vi è pur sempre il consorzio umano col suo patrimonio di dolori grandi e di gioie scarse, assetato di spirituali emozioni, affamato di verità e di giustizia. Però, a quel tempo, non soltanto l'Alfieri ma tutti la sentivano in modo diverso; e nel confronto non credo che noi abbiamo molto da vantarci, guardando anche solo alla eccellenza artistica delle opere compiute.

Quanto all'Alfieri, anche se il suo sacrificio fu grande, la ricompensa fu certo invidiabile. Ne' suoi ultimi tempi, in mezzo alla tristezza della vita che tramontava, in mezzo ai disinganni d'ogni genere, in mezzo ai crucci e agli sdegni che suscitavano in lui le condizioni miserrime d'Italia e la insolenza forestiera, giunto presso al momento d'entrare nella storia, il nostro poeta, come si legge dei guerrieri delle leggende, fu consolato da un superbo sogno, che potè esprimere in bellissimi versi. - Egli vide nel futuro gl'italiani redivivi e in armi contro la prepotenza straniera; e li vide (o gioia!) eccitati alle virtù militari e civili da due potenti stimoli: il ricordo delle virtù degli avi, e i versi di Vittorio Alfieri. Poi sentiva dalla Posterità venirgli una voce di plauso che diceva:

... O vate nostro, in pravi

Secoli nato, eppur create hai queste

Sublimi età che profetando andavi!

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Così egli raggiunse la meta più bella che un poeta, un artista possa mai domandare. Vide l'opera sua non limitata al puro campo delle lettere; vide dalla sua poesia scaturire una nobilissima corrente di forze redentrici in pro del suo paese; e la sua figura di poeta grande completarsi nella figura di grande cittadino.

Con l'Alfieri, infatti, l'Italia finalmente si ricorda che le lettere possono e debbono avere un nobile ufficio. L'Arcadia muore davvero con lui; ed egli diventa come il primo aureo anello di una nobilissima catena della quale fanno parte tutti i più insigni e forti e generosi spiriti ne' quali siasi poi compiacciuta e glorificata l'Italia.

Per questo il nome dell'Alfieri fu sempre invocato come un eccitamento e come un auspicio. Per questo i suoi versi, mentre arroventavano sotto il sole le plebi d'Italia, serpeggiavano nell'ombra delle congiure ed erano adoperati come un vino generoso a fortificare i combattenti nelle agonie delle prove supreme. Per questo Giuseppe Mazzini chiamò Vittorio Alfieri il primo italiano moderno; e Vincenzo Gioberti attestò che, solamente risorti a libertà e fatti virtuosi, gl'italiani sarebbero stati degni di sdebitarsi con la memoria di Lui.

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