V.

Ora, dovrei discorrervi delle diciannove tragedie di Alfieri; ma l'argomento chiederebbe per sè solo una serie di conferenze. Mi contenterò dunque di accennare a due sole: il Filippo e il Saul.

La prima fu composta dall'Alfieri quando il suo spirito giovanile non era ancora stato così rigidamente disciplinato dal rigore delle sue teorie e potè abbandonarsi con una certa spontaneità ai liberi impulsi dell'animo. Nel Saul, che fu invece una delle ultime, sentiamo uno spirito ed un soffio nuovo circolare per le scene e animare i personaggi. È lo spirito della Bibbia, dei Salmi, dei Profeti.

Quanto al Filippo, è certo che con poche altre tragedie l'Alfieri è riuscito ad espugnare più fortemente l'animo dei suoi spettatori. L'orditura dell'azione e la successione abilissima delle scene, dove l'interesse delle passioni è sempre più vivo e l'aspettazione è sempre più intensa, rendono questa tragedia tipica e indimenticabile. E il Filippo tenne per lungo tempo le scene italiane [334] gustato e ammirato senza contrasti. Ma quando Andrea Maffei, elegantissimo verseggiatore se non traduttore sincerissimo, intorno al 1840 ebbe voltato in italiano il Don Carlos di Schiller, parve che sul Filippo alfieriano si scatenasse una tempesta dalla quale non si sarebbe più rialzato. Quella tela più ampia e più varia, quella corrente di lirismo delizioso e geniale che il poeta tedesco gitta attraverso a tutta l'azione pietosa e terribile del dramma spagnuolo, doveva avere ed ebbe una presa fortissima nell'animo del pubblico italiano. Al primo confronto l'opera del nostro tragico parve spacciata. Ma al secondo esame, sbollito quel primo fervore, si cominciò a capire che la macchina della tragedia alfieriana aveva in sè tale una forza e tale una consistenza da sostenere senza tema il paragone col lavoro tedesco.

E non dubito che voi stesse, o signore, eliminando, per quanto è possibile, certe impressioni estranee e quasi profane al puro elemento tragico, emancipandovi dalla facile sensibilità eccitata da certe digressioni e da certe declamazioni, muterete il vostro primo giudizio. Dov'è infatti che vedrete più resa e scolpita quella Spagna del secolo XVI, inquisitoriale, sospettosa e dispotica? E dov'è che sentirete meglio inteso il carattere tiberiano di quel re spagnolo, che passò tutta la [335] sua vita in una cupa adorazione della sua regia maestà? E dov'è che trovate colorito più fortemente, più splendidamente il carattere cavalleresco ed amoroso del favoleggiato figlio di Filippo II?

Anzitutto Federico Schiller, che pure aveva tanto studiato la storia di Spagna, si mostra meno fedele allo spirito di essa che non l'Alfieri, il quale non pretese che di fare opera di poeta. Io perdono volentieri allo Schiller parecchie infedeltà storiche; quella, per esempio, d'aver messo il duca d'Alba alla corte di Madrid, mentre è ben noto che in quell'epoca stava nelle Fiandre a domare i ribelli; ma quel Marchese di Posa messo lì, in pieno secolo XVI, in piena inquisizione di Spagna, ad esprimere le idee di Gian Giacomo Rousseau mitigate dall'ottimismo del Condorcet, quel Marchese di Posa, o signore, come difenderlo dalla taccia di artificioso, di rettorico, di falso?

Quanto è più vero l'Alfieri, quanto non rispecchia più fedelmente l'ambiente storico con quelle sue linee semplici, austere, con quella sua azione dominante, incalzata da una cupa fatalità! L'amore di Don Carlos com'è più delicatamente e cavallerescamente reso dal poeta italiano! Il poeta tedesco, per esempio, non esita a rendere confidenti dell'amore di Don Carlos degli esseri spregevoli [336] come Fra Domenico; e poi, quando il principe ha ben discusso e dissertato di altissimi ideali umani con l'amico Marchese, non dubita di convertirlo in un messaggero d'amore, e di quale amore! Il Don Carlos di Alfieri invece conserva come una religione nel profondo dell'animo il segreto del grande e infelice amor suo. L'amico suo Perez - tanto più vero anche in questo di quel filantropo spostato del Marchese - l'amico suo Perez, è egualmente devoto all'Infante e all'uomo, è pronto sempre a morire per lui; ma non osa mai di esprimere nemmeno un motto per cui mostri di sospettare anche lontanamente nel figlio del re di Spagna l'amante della matrigna.

E Filippo? Più la storia si studia più si rimane convinti che il Filippo d'Alfieri è assai più vicino al vero Filippo della storia. È un uomo che più che colle parole parla coi cenni, colle occhiate, col silenzio. Al suo confidente Gomez impone di stare ben attento; nè una parola, nè un sguardo, nè un tremito, nulla deve sfuggirgli. E dopo la scena rivelatrice dell'Infante e della Regina, egli si limita a domandare: vedesti? udisti?... E subito tronca il dialogo con un gesto minaccioso. Mentre il sipario cala sul palcoscenico, l'animo nostro rimane perplesso e triste fantasticando le tristi cose che sapranno fucinare insieme quei due tetri personaggi.

[337]

Il Filippo di Schiller al paragone è appena una figura da melodramma. Alla prima, egli sembra l'uomo più cupo, più chiuso, più impenetrabile; ma intanto tutti conoscono i suoi segreti! Arriva fino, in piena notte, mentre è assalito da delle inquietudini molto naturali in lui - che il poeta si arbitra d'invecchiare di quasi trent'anni - egli arriva, dico, a chiamare un suo servo, il fedele Lerna, e a manifestargli lo stato doloroso dell'animo suo. Poi gli domanda come mai egli possa vivere tranquillo lontano dalla sua casa coniugale! E vorrebbe che il suo geloso furore passasse dall'animo suo in quello del confidente. A questo modo la sventura, vera o supposta, di Filippo II per la corte e per la città è omai diventata il segreto di Pulcinella.

Scusate se ho insistito su questo punto. Dopo che vennero di moda il teatro di Schiller e di Victor Hugo, se n'è detto tante del povero Alfieri, che credei mio dovere cogliere questa circostanza per dimostrare, con un esempio, come per confronti spassionati certe sue sconfitte potrebbero facilmente convertirsi in palme di vittoria. E, credete a me, questi luoghi nel teatro alfieriano sono assai più numerosi di quello che non si creda comunemente.

Dell'Alfieri tragico si mettono sempre avanti la durezza e l'aridità; ma anche su questa durezza [338] e su questa aridità io avrei delle grandi riserve a fare.

È vero; tutto preoccupato del suo ideale poetico e tutto invasato dal suo furore politico, l'Alfieri faceva volontieri sacrificio, come dicemmo, delle cose tenere e piacevoli. Ma dalla profonda essenza del suo animo buono non di rado egli seppe far anche scaturire dei getti di passione calda, intensa, gentile che sono veramente irresistibili. E dacchè ho nominato il Filippo lasciatemi ricordare quella prima bellissima scena del primo atto fra Don Carlos e Isabella. La delicatezza squisita, toccante, ineffabile, con cui il giovane principe prende argomento dai proprii dolori, dalla propria disgraziata condizione di figlio per aprire l'animo suo di amante alla matrigna, la ricordate voi, o signore? Se una sola volta l'avete o letta o udita in teatro, non credo che abbiate potuto dimenticarla.

......... Ei d'esser padre

Se pure il sa, si adira. Io d'esser figlio

Già non oblio per ciò; ma se obliarlo

Un dì potessi ed allentare il freno

Ai recessi lamenti, ei non mi udrebbe

Doler, no, mai, nè de' rapiti onori,

Nè dell'offesa fama, e non del suo

Snaturato, inaudito odio paterno;

D'altro maggior mio danno io mi dorrei....

Tutto ei m'ha tolto il dì che te mi tolse!

[339]

Percorrete i teatri di tutti i paesi e difficilmente troverete una scena d'amore ove la confessione dell'affetto prorompa in una forma più veemente insieme e più nobile, più delicata. Di questi passi il teatro d'Alfieri ne ha non pochi; e basterebbe cercarli con qualche sollecitudine per trovarli. Ne trovereste nella Virginia, nell'Oreste, nella Merope, nel Timoleone, nel Saul. Nel Saul specialmente. Ricordatevi, all'ultima scena, quando il re vinto, disperato, si accomiata da tutti i suoi e vuol rimanere solo, nella triste solitudine di Gelboè ad attendere la vendetta di Ieova. Pensate al modo con cui si congeda da Micol, l'amatissima figliuola, affidandola ad Abner. “Va' salvala!... Ma se mai cadesse nelle mani dei crudeli nemici, non dire che essa è figliuola di Saul. Di' ad essi invece che è moglie di David; e questo basterà perchè la rispettino!„ È del patetico insieme e del sublime, o signore. Questo re orgoglioso e magnanimo, che nella vita sua non ha avuto che un torto micidiale: la sua gelosa rivalità per David; ora, arrivato al tramonto tragico della sua esistenza, si rassegna all'idea che la cara figliuola celi il suo nome, nasconda d'esser nata da lui; si rassegna all'idea che essa meglio sarà rispettata e salva invocando il nome glorioso di David!...

Quanto a me, vi confesso che ogni volta ch'io [340] m'imbatto in uno di questi tratti di tenerezza alfieriana, esso esercita sopra di me una potenza di commozione indicibile. È come quando ci troviamo di fronte a due temperamenti. Se voi sapete che un uomo è proclive alla sentimentalità, che ha sempre sul ciglio la lacrimetta furtiva, anche se lo vedete intenerirsi e piangere, poco vi commovete. Ma se invece v'imbattete in un uomo fiero, abitualmente chiuso e burbero, e sentite nella sua voce il tremito momentaneo del singhiozzo, quel tremito passa come un guizzo elettrico per tutte le fibre del vostro cuore, perchè vi rappresenta il cozzo vittorioso della tenerezza umana sopra tutte le difese e tutti i pudori del temperamento. E allora voi vi commovete e piangete con lui.

[341]

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