III

La vittoria ottenuta nel 1249 dai Ghibellini contro i Guelfi in Firenze, era stata violenta e sanguinosa, ma non sicura. I Ghibellini avevano disfatto gli ordini della libertà; avevano cacciato in esilio un numero grandissimo dei loro nemici; con l'aiuto del conte Giordano Lancia, vicario di Federico II, e cogli 800 Tedeschi, erano divenuti padroni di Firenze; ma il popolo, la borghesia, tutto il maggior numero de' cittadini erano Guelfi. Inoltre papa Innocenzo IV sollevava in Italia tanti nemici all'Imperatore, che i trionfi di questo non potevano durare a lungo. Gli esuli fiorentini perciò s'erano annidati nei vicini castelli, specialmente in quello di Montevarchi, nel Valdarno superiore, ed in quello di Capraia, nel Valdarno inferiore. Di là facevano continue scorrerie, dimostrando chiaro di non avere perduto la speranza di tornare ben presto in Città. Bisognava dunque proseguire la guerra contro di essi, per non vederli da un momento all'altro tornare potenti.

Venne perciò assalito Montevarchi, con l'aiuto dei soldati tedeschi; ma furono quasi tutti uccisi o fatti prigionieri. Quella rotta fece veder piú chiaro ai Ghibellini di Firenze il pericolo in cui si trovavano, e decisero perciò di portare un regolare assedio al castello di Capraia, dove s'erano chiusi i principali Guelfi, capi della parte o Lega, come allora la chiamavano, i quali guidavano i movimenti degli altri. Sebbene circondati da forze maggiori, gli assediati si decisero ad un'ostinata difesa, ed i Ghibellini s'apparecchiarono a combatterli con l'armi e con la fame. Non sarebbero tuttavia riusciti nell'intento, se non fosse venuto aiuto di nuove genti, mandate dall'imperatore Federico, che allora appunto aveva dovuto abbandonare l'assedio di Parma, ed erasene venuto in Toscana. Ma anche dopo questi aiuti, solo la fame fece arrendere i Guelfi. I principali di essi furono mandati a Federico II, che si trovava a Fucecchio. Egli li menò seco nel regno di Napoli, e quivi li fece, dicono i cronisti fiorentini, barbaramente accecare, mazzerare, affogar nel mare, salvandone uno solo, cui concesse la vita, ma non la vista.

L'Imperatore era stanco, irritato dalla continua guerra mossagli dai papi. Non aveva avuto mai pace dacché Sinibaldo de' Fieschi, pigliando nome d'Innocenzo IV, era salito sulla sedia di S. Pietro, il 24 giugno 1243. In un concilio tenuto a Lione (1245), questi lo aveva condannato e deposto. Aveva poi segretamente promosse contro di lui molte cospirazioni, e si era sempre piú o meno adoperato a farle riuscire nell'intento. In una di esse i sospetti dell'Imperatore caddero perfino sul suo piú fedele segretario ed amico, Pier delle Vigne, che, chiuso nella torre di S. Miniato al Tedesco, fu colà condannato a perdere gli occhi, e menato poi a Pisa, si uccise battendo la testa ad un muro. Queste traversie ora irritavano ed ora piegavano l'animo di Federico, che, sebbene filosofo e scettico, pure temeva assai i fulmini del Vaticano. Voleva riconciliarsi col Papa, partire di nuovo per l'Oriente a combattere gl'infedeli; ed Innocenzo, invece, allora appunto sollevava contro di lui tutte le città guelfe, obbligandolo a prendere di nuovo le armi, per sostenere il partito ghibellino e la propria autorità in Italia. Il che egli non seppe fare, senza abbandonarsi, come abbiam visto, ad eccessi d'inaudite crudeltà, le quali naturalmente accrebbero per tutto il numero de' suoi nemici. In Germania già il partito guelfo non aveva voluto riconoscere l'autorità di Corrado, figlio dell'Imperatore, che lo aveva mandato colà per essere da lui rappresentato. A Parma l'esercito comandato da Federico in persona era stato disfatto. Bologna si mise alla testa di tutte le città guelfe di Romagna, e con forte esercito, andando incontro ai Ghibellini, comandati da re Enzo, altro figlio naturale di lui, li ruppe nella battaglia di Fossalta, il 26 maggio 1249. Lo stesso Enzo fu preso e portato trionfalmente nelle prigioni di Bologna, dove rimase sino alla sua morte, seguita nel 1271. Federico non visse però tanto da provar quest'ultimo dolore. Il 13 dicembre 1250 moriva in un castello presso Lucera, nelle Puglie, e la sua morte fu l'ultimo crollo del partito ghibellino in Firenze ed in tutta Italia.

Contro questo partito s'univa allora all'odio politico anche un odio religioso, non solo perché i Ghibellini combattevano il Papa; ma piú assai, perché le eresie che cominciavano a serpeggiare in Italia, trovavano fra di loro molti seguaci, come avevano spesso trovato nell'Imperatore tolleranza e favore. Questo veleno, che ora filtrava lentamente nella società italiana, teneva i Papi in grandissimo pensiero. Avevano dapprima cominciato a levar grido e trovare seguaci gli Albigesi nella Provenza, dove i poeti avevano attaccato con tutte le loro forze la Corte di Roma. Erano però sorti a combatterli, gli ordini religiosi di S. Francesco e S. Domenico. Innocenzo III aveva a questo fine fondata la Sacro-Santa Inquisizione, e S. Domenico, alla testa di moltitudini assetate di sangue eretico, aveva comandato la strage degli Albigesi, dilaniando tutta la Provenza. Ma gli esuli erano venuti in Italia a comunicare lo stesso odio contro Roma, a seminare il medesimo veleno. Infatti i Paterini, che combattevano il Papa e non credevano alla verginità della Madonna, né alla transustanziazione, né ad altri dommi della religione cattolica, trovavano seguaci per tutto, e si riunivano pubblicamente. Gli Epicurei, gli Avverroisti, altre sette filosofiche si propagavano con rapidità fra i dotti italiani. Per qualche tempo era parso, che il centro principale di questo tumulto intellettuale e religioso si formasse a Palermo, nei giorni piú felici della Corte di Federico II. Circondato da scolastici, da trovatori, da poeti d'ogni sorta, da Musulmani e da Greci scismatici, da Provenzali albigesi e da filosofi materialisti, egli che pure andò alla Crociata, e perseguitò gli eretici, s'era singolarmente compiaciuto di questa multiforme società, nella quale, fra il sarcasmo, il dubbio e l'odio ai preti, sorse quella poesia italiana, che nella Divina Commedia doveva mostrarsi piena di tanta vera fede e di cosí nobili aspirazioni. Ma intanto l'eresia e il dubbio s'eran diffusi per tutta la Penisola. I Paterini s'erano rapidamente moltiplicati tra i Ghibellini di Firenze, dove il Papa mandava l'Inquisizione ad iniziar processi e condanne. Nel 1244 fra Pietro da Verona, animato piú da furore che da zelo religioso, veniva dal pergamo ad infiammare lo spirito cattolico; istituiva una Società dei Capitani di S. Maria o della Fede, nella quale s'arrolavano uomini e donne a sterminio degli eretici. Le passioni s'accesero, e nel 1245 vi fu per le vie di Firenze una regolare battaglia fra cattolici ed eretici. A. S. Felicita ed alla Croce al Trebbio, dove una colonna rammenta ancora l'infausto giorno, i Capitani della Fede, vestiti di bianco, croce-segnati, e guidati da fra Pietro da Verona, alto, robusto, animoso, ruppero i Paterini e li costrinsero a lasciar Firenze. In premio di questa sanguinosa vittoria, esso fu nominato inquisitore di Toscana, e poi anche di Lombardia, dove finalmente, tra Milano e Como, trovò la morte, per opera di coloro che erano stanchi delle sue persecuzioni. Il che gli fece aver nome di santo e di martire, e fu d'allora in poi chiamato S. Pietro martire da Verona.

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