II

Corradino, figlio di Corrado e nipote di Federico II, era l'ultimo erede di casa sveva in Germania, e l'ultima speranza dei Ghibellini in Italia. A lui spettava per eredità il regno di Napoli, che Carlo d'Angiò aveva usurpato colle armi; ed era anche ritenuto da molti futuro imperatore. Giunto che fu alla età di 15 anni, si presentarono a lui molti fuorusciti di Napoli, di Sicilia, e d'altre parti d'Italia, invitandolo a riconquistare il suo regno, a sollevare la parte imperiale in Italia. Ed egli, che era d'animo precoce, pieno di ardore e di ambizione, appena che vide balenare una speranza, subito decise di passare le Alpi. Vendé i pochi beni che gli restavano, raccolse i suoi piú fidi amici, mise insieme un piccolo esercito, e giunse a Verona il 20 ottobre, con 3000 cavalieri e parecchi fanti. Di là spedi a tutti i principi cristiani lettere, che narravano le sue sventure; le ingiurie ricevute per le usurpazioni di Carlo d'Angiò, per l'odio di papa Urbano IV, il quale, non contento d'invitare un usurpatore francese a calpestare i diritti dell'Impero, aveva ancora scomunicato i legittimi eredi dell'Impero stesso. E papa Clemente, in risposta, rinnovava ora la scomunica contro Corradino; mandava per tutto lettere violenti, velenose contro di lui; sollecitava Carlo, che ancora se ne stava in Toscana ad aspettare ivi la battaglia, perché andasse a difendere il suo Reame dai pericoli imminenti. Infatti la cospirazione ghibellina si estendeva adesso in tutta Italia. Pisa e Siena sollevavano l'animo a grandi speranze, le città di Romagna, le città del Napoletano, quelle soprattutto della Sicilia, si ribellarono contro di lui. Nell'aprile del 1268 Corradino era già a Pisa, col suo esercito, che s'andava aumentando per l'accorrere di molti partigiani, sebbene la mancanza di danari avesse fatto tornare a casa parecchi Tedeschi. Carlo era già tornato nel Reame, per apparecchiarsi alla difesa, ed intanto assediava Lucera, dove i Saraceni di Manfredi avevano innalzato la bandiera di Corradino, che era pronto a partire, senza neppur fermarsi in Toscana ad incoraggiare le città che si sollevavano in suo favore, Pisa e Siena erano apertamente per lui; Poggibonsi si ribellò subito dai Fiorentini; altre terre s'apparecchiavano a far lo stesso. Intanto i soldati tedeschi s'avviarono subito verso Roma, dove il senatore Errico di Castiglia li attendeva. I Francesi, che erano in Firenze, uscirono per chiuder loro la via, e furono invece respinti con gravissime perdite, il che dette nuovo animo a Corradino ed ai suoi.

Ma la battaglia di Tagliacozzo, seguita il 23 d'agosto 1268, presso le rive del Salto, doveva decidere il suo fato. Dapprima l'esercito di Carlo, inferiore di numero, pareva disfatto, a segno tale che i Tedeschi già si davano da ogni lato ad inseguirlo. Ma quando s'erano sbandati, inseguendo e saccheggiando, Carlo, che s'era nascosto con una riserva di 800 cavalieri, piombò loro addosso, e la vittoria improvvisamente fu sua. La sera stessa, frenetico di gioia, annunziò il fatto al Papa, non meno di lui esultante. Inaudite furono le crudeltà commesse contro i prigionieri, amputati, decapitati, bruciati vivi. Corradino, con circa 500 de' suoi, in compagnia di Arrigo d'Austria, Galvano Lancia, il conte Gherardo Donoratico di Pisa, ed altri fidi, s'avviò verso Roma, di dove, abbandonato dai piú, dovette fuggire per la Maremma, ricoverandosi nel castello d'Astura. Ma ivi, mentre che s'apprestava ad andarsene con pochi de' suoi, sopra una barca in Sicilia, fu preso da Giovanni Frangipane signore del luogo, che lo consegnò a Carlo, e ne ebbe in premio alcuni feudi.

Questi adesso manifestava la sua grande gioia con sempre nuove crudeltà. In Corneto, si afferma, fu vista una torre incoronata di cadaveri dei piú cospicui e valorosi soldati ghibellini. Nelle città del Reame egli eccitava i piú crudeli furori della plebe contro i signori, che avevano parteggiato per Corradino. E i suoi ministri gareggiarono di crudeltà in Sicilia, dove, fra le altre barbarie, si racconta che in Augusta il carnefice dovette, in un sol giorno, ammazzare tanti infelici Siciliani, che ne rimase esausto, e, a forza di vino, lo rinfrancarono per farlo continuare nel macello. Ma l'animo feroce del Re si fermò piú particolarmente a decidere il destino, che voleva serbare a Corradino. Uccidere migliaia di cristiani, farli morire fra i piú crudeli tormenti, era cosa per lui di poco momento; ma dinanzi ad un uomo di sangue reale ed imperiale, egli doveva esitare alquanto. Dicesi infatti che chiedesse consiglio al Papa; ma poi, senza aspettar la risposta, cercò di coonestare la sua vendetta con le forme menzognere d'un giudizio legale. Egli presumeva di trattare un rivale, cui aveva usurpato il regno, come un ribelle al legittimo sovrano, e come reo d'alto tradimento un prigioniero di guerra, che voleva render colpevole ancora di tutti gli eccessi commessi nella guerra dai soldati tedeschi. E pure, sebbene il tribunale fosse composto di persone scelte dal Re fra i nemici di casa sveva, pare che non mancasse chi difese nobilmente Corradino. Si affermò, che Guido da Suzzara, nell'Emilia, giureconsulto al suo tempo riputato, adducesse la giovane età dell'accusato, i diritti che esso credeva d'aver sul Reame, le ragioni della guerra. Si affermò del pari che molti dei giudici si tacquero, e che uno solo si dichiarò apertamente per la condanna. Ma fu tutto invano. Carlo, che già aveva messo a morte alcuni dei baroni, e fra gli altri il conte Galvano Lancia, a cui, prima di morire, aveva fatto vedere il figlio strangolato sotto i proprî occhi, aveva iniziato il processo di Corradino per pura forma: interpetrò quindi il silenzio dei giudici come assenso alla condanna, che fu senz'altro pronunziata. E la sentenza venne subito comunicata nella prigione a Corradino, che giocava agli scacchi col cugino Federico d'Austria. Il 29 d'ottobre 1268 essi furono condotti al patibolo sulla piazza del Mercato di Napoli. Il protonotario Roberto di Bari, che aveva sostenuto l'accusa, lesse la sentenza, e Carlo volle esser presente. Dicesi che non pochi dei Francesi stessi fremevano di sdegno e di umiliazione dinanzi a questo crudele spettacolo. Una moltitudine immensa era nella piazza, e molti s'inginocchiarono commossi. Corradino si levò il mantello, dette uno sguardo alla folla silenziosa, gettò ad essa, in segno di futura vendetta, il guanto, e poi sottopose il capo alla scure. Cosí moriva l'erede di Federico II, l'ultimo degli Svevi. Federico d'Austria voleva baciarne il capo, ma fu subito preso, e la scure del carnefice fece a lui subire la stessa fine. Non pochi sono i particolari, storici o leggendarî, con cui i cronisti accompagnarono il racconto di questa lugubre tragedia. Il Villani, che pur era guelfo, prestò fede all'erronea voce (VII, 29), la quale affermava che Roberto conte di Fiandra, genero di Carlo, all'udire il Protonotario di Bari leggere la sentenza di morte, fu preso da tal furore che gli dette un colpo di stocco col quale lo finí sotto gli occhi del Re. Tutto ciò prova almeno quale era la impressione che il fatto universalmente produsse. Della parte avuta in questa tragedia dal Papa, s'è diversamente parlato. Il vero è che egli vide e tacque.

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