III

Ma sebbene questi fatti venissero da tutti in Italia con grande severità condannati, pure essi tornarono subito a vantaggio di Carlo e della parte guelfa. I Fiorentini ne profittarono per pronunziar nuove condanne contro i Ghibellini, e poco dopo s'apparecchiarono a ripigliare la guerra contro i vicini, massime contro Siena, desiderosi sempre di vendicare la rotta di Montaperti, ed ora piú che mai irritati dal vedere colà raccogliersi di nuovo, ed essere festeggiati i loro esuli. A Siena essi attribuivano anche la recente ribellione di Poggibonsi, il cui territorio andarono perciò a devastare, il che bastò a riaccendere la guerra. I Senesi, che per la passata di Corradino s'erano levati a grandi speranze, non volevano ora darsi facilmente per vinti. Prevaleva sempre nella loro città Provengano Salvani, uno dei promotori della battaglia di Montaperti, nella quale aveva fatto prova di gran valore. E molti fatti generosi a lui si attribuivano anche ora. Narrasi come, trovandosi un suo amico prigioniero di Carlo, che gl'impose una taglia di 10,000 scudi, sotto pena del capo, e non potendo la famiglia pagarli, né avendo Provenzano il danaro sufficiente ad aiutarlo, stendesse un tappeto sulla piazza, e, ponendosi pubblicamente a questuare pel prigioniero, raccogliesse la somma voluta e liberasse l'amico. Tutto ciò gli dava nel popolo una grandissima autorità; ed esso era ghibellino e nemico dichiarato di Firenze. A Siena v'era inoltre un buon numero di Spagnuoli e di Tedeschi avanzati alle battaglie ghibelline, e v'era il conte Guido Novello, che, sebbene assai poco valesse, pure eccitava di continuo gli animi alla guerra. Cosí fu raccolto un esercito, che il Villani dice di 1,400 cavalieri, e 8,000 pedoni, ed andò ad assediare il Castello di Colle in val d'Elsa, per vendicare il guasto dato al contado di Poggibonsi. I Fiorentini, guidati dal vicario di Carlo, con 800 cavalieri, uniti ad un numero non molto grande delle loro genti, si avanzarono subito, e sebbene con forze assai minori, andarono contro i Senesi, che accettarono la battaglia (17 giugno 1269) e furono disfatti. Il conte Guido Novello, secondo il suo solito, sparí dal campo; ma Provenzano Salvani, non smentendo mai sé stesso, morí combattendo. La sua testa, fitta sopra un'asta, fu portata in giro pel campo, verificandosi cosí una profezia, che gli aveva detto, prima che partisse: la tua testa fia la piú alta nel campo, parole che egli aveva interpretate, invece, come augurio di vittoria. I Fiorentini, che non dettero ora quartiere ai Senesi, se ne tornarono trionfanti a casa, e, credendo di avere finalmente vendicata l'ingiuria di Montaperti, cominciarono trattative di pace. E prima espressa condizione fu, che i Senesi non dovessero piú ricoverare gli esuli ghibellini, i quali se ne dovettero, infatti, ben presto partire, andando d'ogni parte raminghi, per tutto inseguiti, e crudelmente trattati. I Pazzi, fra gli altri, che avevano ribellato il castello d'Ostina, furono presi e tagliati a pezzi.

Dopo un guasto, dato dai Fiorentini e Lucchesi nel contado di Pisa, che aveva, nell'aprile 1270, fatta pace con Carlo, se ne conchiuse il 2 maggio un'altra anche tra essa e Firenze, nella quale si stipularono quasi gli stessi patti e la medesima alleanza politico-commerciale che nella pace del 1256. In quel momento erano di Siena partiti pel Casentino, Azzolino, Neracozzo e Conticino degli Uberti, con un cavaliere Bindo dei Grifoni, che caddero subito nelle mani de' Fiorentini. Questi interrogarono re Carlo in qual modo dovessero trattarli, ed egli rispose: punirli come traditori, inviando a lui Conticino, ch'era assai giovane. Gli altri tre vennero subito decapitati per ordine del podestà Berardino d'Ariano (8 maggio 1270). Si narra che, avvicinandosi al patibolo, Neracozzo domandasse ad Azzolino: dove andiamo? A che l'altro avrebbe tranquillamente risposto: a pagare un debito che ci lasciarono i nostri padri. Conticino morí nelle prigioni di Capua. Tutto ciò dimostra chiaramente quanto grande fosse divenuta l'autorità di Carlo nella Repubblica. Ma i Fiorentini tolleravano ogni cosa, pur di arrivare col suo aiuto a rendersi temuti in Toscana, ed a rialzare in essa il nome del partito guelfo, nel che si può dire che erano già riusciti. Tutta Toscana era infatti ridotta al partito guelfo; le antiche e le nuove ingiurie erano vendicate. Disfecero adesso anche il castello di Pian di Mezzo in Val d'Arno, e le mura di Poggibonsi.

Nello stesso tempo era però cresciuta la potenza, e s'era resa temibile l'autorità degli Angioini. Carlo, sicuro padrone del reame di Napoli; nominato dai Papi, durante l'interregno, Senatore di Roma e Vicario, non solo in Toscana, ma anche in Romagna, aveva, nel rendere potente il partito guelfo, reso piú potente assai ancora sé stesso. Si vedeva chiaro, che già balenava in lui l'ambizione di farsi signore d'Italia, ed ai Fiorentini cominciava perciò a puzzare quel suo inframmettersi per tutto; quel tenere in ogni Comune i suoi Podestà, che in suo nome e sotto la sua autorità, comandavano e condannavano. E quasi ciò non bastasse, vi doveva essere in Toscana ancora un Maresciallo o Vicario del Re, che insieme cogli altri vessava le città con domande sempre insistenti e minacciose di nuovi danari. Ma piú di tutti s'ingelosiva ora anche la Corte di Roma. I Papi avevan chiamato gli Angioini ad abbassare la potenza degli Svevi, non tanto perché questi erano ghibellini e quegli guelfi; quanto perché gli Svevi avevano avuta quella medesima ambizione, che ora cominciava a nascere anche nell'animo di Carlo. V'erano dunque le stesse ragioni per combatterlo. Niccolò Machiavelli ha piú volte ripetuto, che i papi «temevano sempre colui, la cui potenza era divenuta grande in Italia, ancora che la fosse con i favori della Chiesa esercitata. E perché e' cercavano di abbassarla, ne nascevano gli spessi tumulti e le spesse variazioni, che in questa seguivano, perché la paura di un potente faceva crescere un debole, e cresciuto che gli era, temere, e temuto, cercare di abbassarlo. Questo fece torre il governo di mano a Manfredi e concederlo a Carlo, questo fece poi aver paura di lui, e cercare la rovina sua». Infatti Urbano IV aveva invitato Carlo a prendere il regno di Napoli, Clemente IV lo aveva nominato Vicario, Gregorio X cominciava ora ad avversarlo, ed i suoi successori seguirono l'esempio dato da lui. Cosí nel centro d'Italia venivano ora in gioco tre politiche diverse: quella degli Angioini, che già vagheggiavano il dominio d'Italia; quella dei Fiorentini, che volevano servirsi della potenza di Carlo d'Angiò, per divenire padroni di Toscana; e quella dei Papi, che volevano frenare l'ambizione angioina, e ripigliare il loro antico ascendente in Toscana.

Share on Twitter Share on Facebook