V

Niccolò III infatti cominciava col mandare a pacificar la Romagna, suo nipote il cardinale Latino dei Frangipani, domenicano, che aveva reputazione di grande oratore, perché in questo modo si cominciasse a far sentire la nuova autorità della Chiesa, e con lui mandò anche il conte Bertoldo Orsini. Dopo una breve dimora colà, il Cardinale fu inviato a Firenze, per tentare una seconda volta e con migliore successo, quella pace fra i partiti, che Gregorio X non era riuscito a concludere. Questa volta i Fiorentini stessi ne avevano mostrato vivo desiderio. Liberati dalla troppo grave protezione di Carlo, sentivano ora le tristi conseguenze della sua politica. I Grandi, sempre irrequieti, erano cresciuti di numero e di potenza, e minacciavano di dividere lo stesso partito guelfo. «Riposati», dice il Villani, «dalle guerre di fuori con vittorie e onori, e ingrassati sopra i beni de' Ghibellini usciti, e per altri loro procacci, per superbia e invidia cominciarono a riottare tra loro; onde nacquero in Firenze piú brighe e nimistadi tra' cittadini, mortali e di ferite». Avevano cominciato gli Adimari, per odio contro i Tosinghi, poi i Pazzi e i Donati, a far nascere subbuglio; e si vedeva che questo era un principio di mali maggiori. Fu perciò che i Guelfi inviarono messi a pregare il Papa, che mandasse a pacificare la Città, se non voleva vedere lacerata la stessa parte guelfa. Uguale desiderio dimostravano i Ghibellini, stanchi del lungo esilio, delle confische continue, e per la speranza avevano, che l'odio popolare, essendosi ormai acceso anche contro i Grandi guelfi, potesse essere divenuto piú mite contro di loro.

Il cardinale Latino adunque entrò in Firenze il dí 8 ottobre 1279, con 300 fra cavalieri e prelati, e fu accolto con ogni specie di onori. Gli venne incontro il clero fiorentino, e la Repubblica mandò anche il carroccio con gran numero d'armeggiatori. Egli, come domenicano, prese alloggio nel convento di S. M. Novella, dove pose la prima pietra per la fondazione della celebre chiesa di quel nome. E incominciò subito le pratiche per la pace. Il 19 novembre furono costruiti alcuni palchi sulla piazza di S. M. Novella Vecchia, e fatto in essa, presenti i magistrati ed i Consigli, radunare il Parlamento, il Cardinale chiese ed ottenne di poter concludere la pace con l'autorità stessa che aveva il popolo, il che voleva dire facoltà di por taglie, fare confische, occupare castelli, per sicurtà dei patti che sarebbero stati giurati. Incominciò poi a tentare accordi fra quelli che piú s'odiavano, tra quei Guelfi che eran fra loro divisi, tra i Ghibellini, tra Guelfi e Ghibellini. E la cosa riuscí fino a che non si venne ai Buondelmonti ed agli Uberti, tra i quali i vecchi odî erano cosí profondi, che non vi fu modo a conciliarli, essendosi alcuni di loro sdegnosamente ricusati. Laonde il Cardinale dovette risolversi a scomunicare ed a far bandire dal Comune i piú renitenti. Finalmente il 18 gennaio 1280 fu stabilito di concludere la pace generale. Nella piazza di S. Maria Novella Vecchia era grande apparecchio di palchi, di arazzi, di teli che ricoprivano la piazza stessa. Vennero i Dodici, il Podestà, il Capitano del popolo, che allora chiamavasi della Massa di parte guelfa, coi loro Consigli; vennero tutti gli altri magistrati e grandissimo popolo. Il Cardinale comparve finalmente in mezzo ai suoi prelati, da tutti aspettato, anche perché doveva parlare, ed aveva voce d'essere uno dei piú eloquenti oratori del suo tempo. Parlò sulla utilità e necessità della pace, che finalmente fu letta. Con essa si poneva fine a tutti gli odî antichi; si ordinava che fossero resi ai Ghibellini i beni confiscati, capitale e parte anche degl'interessi; che si cancellassero le sentenze, i giuramenti, le leghe o consorterie fatte da una parte a danno dell'altra, levando dagli Statuti tutto ciò che poteva alimentare questi odî. Richiese 50 mallevadori da ciascuna delle parti, con obbligo di pagare 50,000 marchi d'argento, quando la pace fosse violata. Volle alcuni castelli per maggiore sicurezza, e si riserbò di chiedere anche altri mallevadori. Seguiva un numero assai grande di minute condizioni tutte intese allo stesso fine. Molte delle principali famiglie restavano confinate fino a che non avessero fatta pace coi loro avversarî, e data, con danaro e con ostaggi, sicurtà di mantenerla. I sindachi delle parti si baciarono in bocca, gli atti dell'accordo furono solennemente rogati, e i bandi e le condanne delle parti furono cancellati o arsi. Gli esuli poterono tornare; il Capitano e le Capitudini ebbero, senza pregiudizio del Podestà, l'incarico di mantenere inalterate le condizioni della pace. E per questa ragione il Capitano non doveva piú d'ora innanzi essere chiamato Capitano della parte guelfa, ma della Città, e Conservatore della pace. Essendo poi cessato l'ufficio di Vicario imperiale concesso a Carlo, veniva ordinato del pari, che d'ora innanzi Podestà e Capitano sarebbero per due anni eletti dal Papa, e avrebbero ciascuno a loro comando 50 uomini a cavallo e 50 a piedi. Dopo due anni, l'elezione tornerebbe al popolo, con l'obbligo di non nominare alcuno contrario a Santa Chiesa, la quale doveva anzi approvare la scelta. Avrebbero ciascuno a loro comando 100 uomini a cavallo e 100 a piedi, che non dovevano essere né della Città né del distretto, per potere cosí meglio riuscire a mantener la pace. A questo fine dovevano contribuir pure le Arti, che anch'esse giurarono. Si dovevano rivedere gli Statuti, riformare il governo della Città, fare un estimo dei beni di coloro i quali erano condannati a multe o a risarcimenti di danni.

Da tutto ciò parrebbe, che al Cardinale fosse stata concessa quasi una dittatura temporanea di fare e disfare a suo arbitrio. Ma molte di queste condizioni di accordi egli le propose dopo aver consultato i magistrati, e di molte altre i Fiorentini tennero poi il conto che vollero. La pace si desiderava dal popolo, per le ragioni che abbiamo accennate, e si dette piena balía al Cardinale, perché, con l'autorità sua e della Chiesa, la conducesse a termine. Ma egli ottenne in realtà meno assai che non parrebbe. Continuò infatti la costituzione della Parte guelfa; continuarono le divisioni a lacerare la Città, appena che il 24 d'aprile egli fu partito, non senza aver prima ricevuto Mille floreni auri in pecunia numerata, et alie zoie empte pro Comuni Florentie .

Tuttavia nel febbraio e nei primi di marzo, egli, contento assai del buon successo che si lusingava d'avere ottenuto, attese a concludere molte amicizie anche fra quelli che erano rimasti confinati; cercò d'attuare le riforme della costituzione, accennate nella pace, e principalmente sostituí ai Dodici, Quattordici Buoni uomini, otto dei quali dovevano esser Guelfi e sei Ghibellini. Essi, che insieme col Capitano e coi Consigli, ebbero il governo della Città, mutavano ogni due mesi. Continuarono però a durare un anno l'ufficio del Podestà e del Capitano. L'autorità del primo era stata, sotto il dominio di re Carlo, che lo nominava, diminuita assai; e però si cercava adesso accrescere quella del Capitano e dei Dodici, che divenuti ora Quattordici, formavano la Signoria vera e propria.

Su questa mutazione della Signoria ogni due mesi, che continua sino agli ultimi tempi, si è molto ragionato in senso diverso. Certo la Repubblica non poteva aver pace in un cosí rapido alternarsi del supremo magistrato; ma noi abbiamo già piú volte osservato, che la nuova costituzione delle Arti aveva ridotto a ben poca cosa le attribuzioni del governo centrale. E da un altro lato, la tendenza, che sembrava manifesta in tutte le repubbliche italiane, di cadere nella tirannide, rendeva i Fiorentini sospetti d'una Signoria che durasse piú lungo tempo. Specialmente ora che tornavano i Ghibellini, si temeva che essa fosse spinta a cospirare per sostenere l'ambizione di qualche tiranno, che da un momento all'altro poteva sorgere. Furon queste le ragioni per le quali si volle da un lato scemare l'importanza del Podestà, e da un altro mutare cosí spesso non solo i capi del governo, ma, come vedremo, anche altri ufficî politici; e piú tardi si ricorse alla elezione a sorte, sempre per evitare che in nessun caso riuscisse possibile l'attuazione di un disegno prestabilito a danno della libertà.

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