VI

Intanto il Re dei Romani mandava in Italia un suo Vicario con soli 300 uomini, per vedere in quali disposizioni fosse il paese, e se le città riconoscevano ancora la loro soggezione all'Impero. Il Vicario, arrivato in Toscana, si fermò a S. Miniato al Tedesco, e trovò i Pisani, sempre ghibellini, pronti a fare subito atto d'obbedienza; ma le altre città toscane ricusarono; i Fiorentini, per mezzo di danaro, lo corruppero, e mostrandogli l'inutilità della sua impresa, lo persuasero d'andarsene, riconoscendo i privilegi che essi avevano ottenuti dal Papa. In questo modo, la mutata politica di Roma riusciva a loro vantaggio, di che seppero abilmente profittare, e a danno di Carlo d'Angiò, che perdette ogni autorità nell'Italia centrale. Niccolò III, rievocando l'Impero, incoraggiando Rodolfo di Asburgo, e mettendolo di fronte a Carlo, aveva saputo indebolire l'uno e l'altro, accrescendo forza al papato. E i Fiorentini, con non minore accortezza, s'erano valsi di Carlo per dominare la Toscana; del Papa per indebolire Carlo; e finalmente dell'uno e dell'altro, per non sottomettersi a Rodolfo.

Niccolò III moriva nel 1280. Egli aveva costretto Carlo a lasciare la Toscana, a contentarsi di ricevere l'investitura della Provenza e del Reame da Rodolfo. E perché questi accordi ricevessero una qualche sanzione, s'era anche stretto un parentado, avendo Rodolfo dato la propria figlia in moglie ad un nipote di Carlo. Ma questi, come era naturale, assai di mal'animo accettava tutto ciò, anzi non tralasciava mai di sobillare in segreto i Guelfi di Toscana contro i Ghibellini, che ora alzavano la testa. E conoscendo già per lunga esperienza che grande differenza vi fosse tra l'avere amici o nemici i Papi, corse ad Orvieto, dove s'era adunato il nuovo Conclave, deciso a far di tutto per avere una elezione a lui favorevole. Secondo il suo solito, egli operò senza scrupoli e senza esitare. Visto che i cardinali temporeggiavano, né avendo tempo da perdere, promosse una rivoluzione, per la quale il popolo s'impadroní di due cardinali di casa Orsini, parenti del Papa defunto ed avversissimi agli Angioini. Dopo di che, l'elezione ebbe luogo, ed il 22 febbraio 1281 fu proclamato papa Martino IV, il quale, francese e di re Carlo amicissimo, si dette subito a favorirne la politica ed a sostenere i Guelfi.

Ma le condizioni generali dell'Italia erano assai mutate, e però il trionfo ottenuto da Carlo a Viterbo, non valse ad impedire che le conseguenze già preparate dalle sue crudeltà nel Reame e dalla politica di Niccolò III, avessero il loro effetto. L'accordo concluso da questo con Rodolfo fu continuato anche dal nuovo Papa, che raccomandò alle città italiane di fare buona accoglienza alla figlia di lui, la quale veniva sposa al nipote del Re. Ed anche Firenze dovette accoglierla con onore, sebbene fosse accompagnata da un Vicario imperiale, che al solito si fermava a S. Miniato, per cercare di far rivivere in Toscana i diritti dell'Impero. Ma un mutamento assai piú grave avvenne quando nel marzo 1282, i Siciliani, stanchi della mala signoria, raccolsero il guanto gettato al popolo da Corradino, e coi Vespri cominciarono quella sanguinosa rivoluzione, che, dopo una lunga e gloriosa guerra, doveva per sempre togliere l'Isola agli Angioini. I Fiorentini, per tenersi fedeli al partito guelfo, e non irritar troppo né il Papa né Carlo, mandarono a questo 500 cavalieri, i quali, sotto il comando del conte Guido di Battifolle de' conti Guidi, con la bandiera del Comune, andarono all'assedio di Messina. Ma la rivoluzione superò tutto, ed essi vennero come gli altri battuti, lasciando anche la bandiera in mano del nemico. L'Isola fu inevitabilmente perduta dai Francesi.

Era assai naturale che i Fiorentini, prima ancora che scoppiasse la rivoluzione dei Vespri, avessero aperto gli occhi, e pensato ai casi loro. Vedendo che il Vicario imperiale era venuto con poca gente, e non trovava gran seguito, cercarono subito contentarlo con danari, ed ottennero che, riconosciute le antiche concessioni fatte loro, se ne partisse. Nello stesso tempo, profittando della debolezza di Rodolfo, combattuto in casa sua, e della lontananza di Carlo, già nel Reame turbato dal pensiero dei gravi avvenimenti che s'apparecchiavano in Sicilia, posero mano a riformare la loro costituzione. E prima di tutto, ora che il Podestà ed il Capitano erano eletti non piú dal Re, ma dal Papa, vollero accrescerne la forza, per mantenere la Città tranquilla, mettendo un freno alle prepotenze dei Ghibellini, ed all'arbitrio dei Grandi, che ogni giorno divenivano piú minacciosi. Questi ultimi specialmente facevano colla violenza cancellare i bandi dei magistrati, impedivano l'esecuzione delle leggi, commettevano o promovevano gli omicidi per vendette partigiane, e tenevano perciò la Città continuamente perplessa. Quindi s'ordinò che il Podestà avesse mano piú libera a procedere severamente contro tutti i delitti, e che il Capitano avesse maggior forza a mantenere la pace, a punire coloro contro i quali il Podestà non usasse subito il dovuto rigore. E i Grandi dovettero dare non solo promessa di sottostare alle leggi, ma anche sicuri mallevadori, affinché se, commesso il delitto, riuscissero ad evadere, vi fosse sempre in Città chi scontasse la pena, o pagasse la somma, cui veniva condannato colui pel quale s'era dato mallevaria o sodato, come allora dicevasi. Tutti i vagabondi e gli oziosi furono cacciati dal territorio della Repubblica, e coloro che avevano dimostrato odio contro qualche privato cittadino, dovettero far promessa di rinunziare alla vendetta, dandone anch'essi mallevaria. E perché a tutti questi ordini si desse esecuzione, furono scelti dalla cittadinanza mille uomini armati, 200 del Sesto di S. Piero Scheraggio, 200 di quello di Borgo, e 150 dagli altri, che, divisi in compagnie, con un gonfalone per Sesto, furono messi, 450 sotto gli ordini del Podestà, e 550 sotto quelli del Capitano. Le insegne eran loro date da quei due magistrati in presenza di pubblico Parlamento, e quando la campana sonava per raccoglierli, non era permesso tenere radunanze in Città.

Questa riforma parve necessaria anche perché, durante la signoria di Carlo, era andato in disuso l'ordinamento del popolo armato sotto i Gonfalonieri delle Compagnie, e la tranquillità cittadina si era mantenuta con l'aiuto dei soldati stranieri, per la qual cosa anche il Capitano aveva perduto una parte di quella importanza, che gli veniva ora restituita. Ma oltre di ciò noi troviamo che i Quattordici governavano senza adunare il Consiglio dei Cento, il quale nei documenti sembra infatti scomparso. Da ciò e anche dal trovarsi essi fra loro divisi, perché otto dovevano esser guelfi e sei ghibellini, ne venne che la loro autorità, invece di crescere, s'andava indebolendo. Si pensò quindi ad un'altra riforma, quando la notizia dello scoppio dei Vespri lasciava ai Fiorentini le mani piú libere. Tre cose essi avevano sopra tutto di mira. Rendere la Repubblica indipendente dal Papa, dall'Imperatore e da Carlo; farla finita coi Ghibellini, perché nobili e aderenti sempre all'Impero, che riaffacciava le sue pretese in Toscana; abbassare la superbia dei Grandi, guelfi o ghibellini che fossero, perché colle loro prepotenze turbavano di continuo la Città. Ed anche per questa ragione si era finito col non piú osservare neppure i patti della pace del cardinale Latino; specialmente non si erano pagate le somme promesse ai danneggiati ghibellini. Inoltre il di 8 febbraio 1282 si strinse una lega guelfa con Lucca, Pistoia, Prato, Volterra, e Siena, che dovette per forza aderirvi; e si lasciò luogo d'entrarvi anche a S. Gimignano, Colle e Poggibonsi. Si giurò di restare per 10 anni uniti a difesa comune, con obbligo di prendere a soldo 600 cavalieri col loro seguito, e s'aggiunse al solito una specie d'unione doganale fra gli alleati.

Ma ciò che per Firenze ebbe piú grande importanza fu la riforma interna. Le Arti, massime alcune delle maggiori, andavano acquistando un ordinamento sempre piú vigoroso, e con esso aumentava il loro potere politico. Le Capitudini infatti compariscono nei documenti sempre piú spesso, accanto ai Quattordici, al Capitano, al Podestà. Ed ora appunto (1282-3) noi troviamo anche un Defensor Artificum et Artium con due Consigli, il che dimostra di certo la cresciuta potenza di queste. Esso, è vero, piú tardi scomparisce e si fonde col Capitano; ma ciò avvenne dopo che le Arti stesse salirono addirittura al governo della Repubblica. Intanto già partecipavano alla elezione dei Quattordici, e li consigliavano. I cronisti ci dicono che, con una riforma del giugno 1282, i Priori delle Arti, pigliando il luogo dei Quattordici, salirono finalmente al Governo; ma in verità ciò non avvenne ad un tratto, come apparirebbe dalle loro parole. Noi troviamo invece, che per qualche tempo, i Quattordici (come seguiva sempre nelle riforme fiorentine) continuarono a governare insieme coi nuovi Priori, sino a che, dinanzi all'importanza crescente di questi, finalmente scomparvero. Certo è che il 15 giugno del 1282 furono messi a capo della Repubblica tre Priori delle Arti, uno dell'Arte di Calimala, il secondo dei Cambiatori, il terzo della Lana. Ebbero sei berrovieri e sei messi, per chiamare i cittadini a Consiglio; abitavano nella casa della Badia, donde non uscivano mai, e deliberavano di regola insieme col Capitano. I Quattordici continuarono ancora qualche tempo, piú che altro pro forma, a comparire accanto ad essi. Passati i primi due mesi, si vide la necessità d'aumentare il numero dei Priori, non solo perché quello di tre appariva troppo ristretto; ma ancora perché, dovendo essere scelti ora in una metà, ora in un'altra dei sei sestieri, pareva che il loro governo rappresentasse sempre una parte sola dei cittadini. E cosí nell'agosto di quell'anno, senza metter tempo in mezzo, alle tre Arti già menzionate furono aggiunte quelle dei Medici e Speziali, dei Setaioli e Merciai, dei Vaiai e Pellicciai. Piú tardi ve ne furono aggiunte anche altre, ma il numero dei Priori restò fermo a sei, uno per Sesto. «Le loro leggi... (dice il Compagni) furono, che avessino a guardare l'avere del Comune, e che le Signorie facessino ragione a ciascuno, e che i piccoli e impotenti non fossino oppressati dai grandi e potenti». Quelli che uscivano d'ufficio, insieme con le Capitudini e con alcuni cittadini aggiunti, cui si dava nome d'Arroti, eleggevano ogni due mesi i successori.

Il Villani afferma che il nome di Priori fu preso dal Vangelo, là dove Cristo dice ai discepoli: Vos estis priores. Certo è però che con questa riforma le Arti o sia il commercio e l'industria salirono addirittura al governo della Repubblica; ed è pur notevole che, sebbene quelle che abbiamo qui sopra nominate, costituissero, insieme con i giuristi e notai, le sette Arti maggiori, pure di questi, forse perché non rappresentavano né l'industria né il commercio, non si fa qui dai Cronisti menzione alcuna. Certo d'ora in poi la Repubblica è proprio una repubblica di mercanti, e solo chi è ascritto alle Arti può governarla: ogni grado di nobiltà antica o nuova è piú un danno che un privilegio.

Infatti molte delle piú grandi famiglie cominciarono a mutare i loro nomi, per nascondere l'antica e nobile origine. I Tornaquinci si divisero in Popoleschi, Tornabuoni, Giachinotti, ecc.; i Cavalcanti in Malatesti e Ciampoli; altri presero altri nomi. Ciò nonostante, molti ritennero con orgoglio i nomi e i titoli antichi, e quando il principe di Salerno, figlio di re Carlo, chiamato a Napoli dalla Provenza, passò per Firenze, egli, imitando l'uso paterno, vi si fermò per crear nuovi cavalieri. Cosí cercavasi, con mezzi artificiali e vani, perché contrarî affatto all'indole della costituzione e della società fiorentina, di ridonar forza a quella aristocrazia, che il cammino naturale delle cose distruggeva continuamente. Liberi ormai dal Papa e dall'Imperatore, liberi dalla uggiosa protezione di re Carlo, tutto occupato nelle faccende della Sicilia, i Fiorentini avevano ordinata a lor modo la costituzione, dando la Repubblica in mano delle Arti maggiori; avevano ottenuto in Toscana un grande predominio, di cui seppero giovarsi mirabilmente per aumentare il loro commercio. A questo infatti giovò moltissimo la lega politico-commerciale, conclusa nel marzo dell'82, cui abbiamo piú sopra accennato, come aveva giovato la sottomissione delle terre o città vicine.

Restavano però sempre nemiche Arezzo e Pisa, ambedue ghibelline. La prima minacciava nella valle superiore dell'Arno; la seconda, ricca, potente, signora del mare, minacciava nella valle inferiore, e teneva in mano la chiave del commercio marittimo dei Fiorentini, trovandosi nella via che mena a Livorno ed a Porto Pisano. Bisognava quindi che Firenze prima o poi pensasse, con le forze riunite de' suoi amici, con nuove alleanze, a liberarsi da questi nemici, soprattutto dal secondo, che, chiudendole il mare, divenuto ora piú che mai necessario al suo commercio, poteva render vani tutti i trionfi già ottenuti.

Intanto vi furono due anni tranquilli, nei quali i Fiorentini poterono godersi i benefizî della pace. Vennero accolti in Città, con pompa ed onore, il principe di Salerno figlio di re Carlo, ed altri della casa reale. Nel marzo del 1283 venne il Re stesso, che andava in Francia, per battersi in singolar tenzone a Bordeaux con Pietro d'Aragona, il quale dal popolo di Sicilia era stato proclamato signore dell'Isola. Con questo duello, di cui fu molto parlato, ma che non ebbe poi luogo, doveva finir la guerra che desolava l'Italia meridionale. Ed anche ora il Re, sebbene dovesse aver l'animo turbato da molti e gravi pensieri, sebbene ricevesse in Firenze una clamorosa accoglienza, pure, non curando punto la noia che dava al popolo, volle creare altri cavalieri. Tuttavia, partito che fu, le feste continuarono con piú ardore che mai. In occasione del giorno di S. Giovanni, sempre solennemente celebrato in Firenze, si formò una compagnia di mille giovani, i quali, vestiti di bianco, avendo alla testa uno di loro che rappresentava l'Amore, si dettero a giuochi e sollazzi d'ogni sorta, con balli di dame, cavalieri e popolani nelle vie e nelle case. Questa specie di corte d'amore era una imitazione dei costumi francesi, che s'erano cogli Angioini introdotti in Firenze. Ora vi si numeravano 300 cavalieri di corredo, creati in massima parte, secondo l'usanza francese, dal re Carlo. Essi imbandivano tavole con donzelli, cortigiani e buffoni, che venivano da molte parti d'Italia e di Francia. Ma tutto ciò era uno sforzo vano, per introdurre nella Città costumi contrarî alle sue tradizioni; un desiderio puerile di far credere all'esistenza d'una nuova aristocrazia. Il basso popolo godeva di questi passatempi; ma la cittadinanza piú operosa, che teneva il governo e costituiva la forza della Repubblica, li disapprovava altamente, e s'accorgeva che, dopo tante guerre fatte ai nobili, v'era pur sempre da combattere ancora, per distruggerne gli ultimi avanzi. E v'era anche da combattere in tutta Toscana il partito imperiale, che dopo i Vespri pareva volesse alzare la testa. Il 26 febbraio 1285, Corso Donati aveva perciò esclamato in una delle Consulte, che tutte le terre, le quali erano de Imperio, e confinavano col territorio fiorentino, dovevano essere sottoposte ad iurisdictionem Comunis Florentiae . Ed a questo fine si fecero nuovi accordi con le città guelfe. Innanzi tutto era però urgente il pensare a domare la potenza e l'orgoglio di Pisa, sempre ghibellina, contro cui s'era sempre dovuto, e si doveva ora combattere di nuovo. Ma per venirne veramente a capo, quando non si poteva né si voleva fidare piú negli aiuti di re Carlo, tutte le forze unite della Repubblica e de' suoi alleati non erano sufficienti. Bisognava, coll'ingegno o coll'accortezza politica, saperle moltiplicare; ed in questa occasione si vide di che cosa i Fiorentini erano capaci.

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