I

La fine del secolo xiii segna il principio d'un'era nuova nella storia dell'Italia e dell'Europa. Da Carlo Magno in poi v'era stato nell'Europa settentrionale un periodo di disordine politico, ma d'una cultura letteraria, che, poco studiata in passato, è stata oggi messa in grandissima luce dagli eruditi. La letteratura provenzale e cavalleresca; quei poemi che si dividono nei cicli di Carlo Magno e d'Arturo; i Nibelungen; le mille canzoni; le splendide cattedrali, che si trovano da un lato e l'altro del Reno, e costituiscono un'arte mille volte imitata, non mai superata; tutto ciò fu l'effetto d'una prima e grande cultura nel Medio Evo, alla quale l'Italia, per molto tempo, non partecipò. Nel settentrione d'Europa i vinti ed i vincitori s'erano piú facilmente mescolati fra di loro, e cosí vi poteron sorgere piú presto una letteratura ed un'arte nazionale. In Italia, invece, i vinti furono oppressi, ma non si confusero mai del tutto coi vincitori. Essi anzi, a poco a poco, cominciarono a risorgere ed a resistere. La prima storia dei Comuni è la conseguenza di questa lotta; laonde, nel tempo in cui la Francia cantava le sue canzoni ed i suoi poemi cavallereschi, l'Italia pensava solo a gettar le basi delle sue istituzioni politiche e della sua libertà.

Col principio del secolo xiv la scena si muta totalmente. Quelle letterature sono come colpite da subita decadenza, la fantasia e l'immaginazione settentrionale sembrano a un tratto inaridirsi. Comincia anche colà un lungo, lento e penoso lavoro per ordinarsi politicamente. Ed in questo momento, invece, essendo già costituiti i municipî italiani, sorge fra noi la letteratura nazionale, che, colla sua splendida luce, fa scomparire dall'orizzonte, e per molti secoli rende invisibili e dimenticate le altre letterature, che l'avevano preceduta. Ed è questo appunto il tempo in cui Firenze, che diviene il centro e la sede principale della nuova cultura italiana, trovasi governata dalle Arti Maggiori. L'Impero sembra abbandonare le sue pretensioni sull'Italia; il Papato, combattuto e indebolito, non osa piú comandare la società laica col medesimo ardire d'una volta; le lotte fra i vincitori ed i vinti son cessate, perché ogni differenza tra sangue germanico e sangue latino è del tutto scomparsa, ed in Italia non vi sono ora che Italiani.

Nel seno del Comune fiorentino, la lunga lotta della democrazia contro l'aristocrazia feudale, è vicina a cessare col trionfo della prima, e la Repubblica si può già chiamare una repubblica di mercanti, la quale in poco tempo, col suo commercio, accumula tesori che sembrano favolosi. Tutto parrebbe annunziare un'era novella di pace, di concordia e di prosperità. Ma invece, se noi gettiamo uno sguardo all'avvenire, vediamo che le discordie civili continuano ancora fieramente a lacerar la Repubblica; vediamo che, fra lo splendore delle Arti e d'un commercio fiorente, le istituzioni politiche decadono, e si cammina quasi fatalmente alla perdita della libertà. Per qual ragione, adunque, un municipio che, sorto nel principio del secolo xii, in mezzo a tante difficoltà, ha saputo continuamente progredire, comincia ora, fra tanta prosperità, a decadere? Per qual ragione le guerre civili durano ancora, quando sembra cessato ogni pretesto di discordia, con la vittoria del partito popolare, che ora ha in mano il governo? Noi troveremo la soluzione di questo problema, esaminando un poco piú da vicino le nuove condizioni della società fiorentina, specialmente le Arti maggiori e minori, che ne formano il nucleo e la forza principale.

Le Arti, costituite in associazioni, dopo avere piú volte variato di numero, furono in Firenze ventuna, sette maggiori e quattordici minori, sebbene spesso le dividessero ancora in dodici maggiori e nove minori. In ogni modo le prime ed assai piú importanti erano le seguenti:

1. dei Giudici e Notai,

2. di Calimala o dei panni forestieri,

3. della Lana,

4. della Seta o di porta S. Maria,

5. dei Cambiatori,

6. dei Medici e Speziali,

7. dei Pellicciai e Vaiai.

La prima di esse, come ognun vede, è propriamente fuori dell'industria e del commercio, avvicinandosi assai piú alle professioni liberali. Pure è bene osservare, che i giudici ed i notai contribuivano allora moltissimo al progresso delle Arti, nelle quali venivano continuamente adoperati. Erano essi che, insieme coi Consoli, sedevano nella Corte o tribunale di ciascuna delle Arti, e decidevano tutte le liti commerciali che si presentavano; componevano i dissensi; pronunziavano o proponevano le pene. I notai poi erano piú specialmente destinati all'importante ufficio d'apparecchiare i nuovi Statuti ed a riformarli di continuo; essi ne sorvegliavano la esecuzione, stendevano i contratti, e nei maggiori e minori Consigli delle Arti, pigliavano spesso la parola in nome dei Consoli. I buoni giudici e buoni notai erano molto ricercati in Italia, e riccamente pagati, come un mezzo necessario di prosperità. Essi quindi divennero un'Arte delle piú autorevoli in Firenze, i cui notai avevano reputazione d'essere i piú abili nel mondo. Goro Dati, nella sua Storia di Firenze, dice di quest'Arte, che essa «ha un Proconsolo sopra i suoi Consoli, e reggesi con grande autorità, e puossi dire essere il ceppo di tutta la notaria, che si esercita per tutta la Cristianità, e, indi sono stati i gran maestri, autori e componitori di essa. La fonte dei dottori delle leggi è Bologna, e la fonte dei dottori della notaria è Firenze». Nelle pubbliche funzioni il Proconsolo andava innanzi a tutti i Consoli, e veniva subito dopo il supremo magistrato della Repubblica. Capo dei giudici e notai, egli aveva come un'autorità giuridica su tutte le Arti.

Le quattro altre che seguono, cioè di Calimala, della Lana, della Seta e del Cambio, son quelle che avevano in mano la piú gran parte dell'industria e del commercio fiorentino. Esse erano molto antiche. L'Ammirato osserva che dei Consoli delle Arti è fatta menzione in un diploma del 1204, ma ne parlano anche documenti assai anteriori. Le Arti però, sebbene antichissime, ebbero un lungo periodo di lenta formazione, e vennero in fiore molto piú tardi, ciascuna in tempo diverso. Piú antiche e prime a progredire furon quelle di Calimala e della Lana, che si potrebbero quasi ritenere come un'industria sola, perché ambedue lavoravano panni di lana, e ne facevano largo commercio. Questo traffico però era fatto in modo affatto speciale da ciascuna di esse, ed acquistarono perciò tale e tanta importanza propria, che restarono sempre divise in due Arti separate.

Sino dai primi tempi del Medio Evo, gl'Italiani avevano avuto costumi e vivere piú delicato, e civile dei barbari, industrie assai piú avanzate. Un cronista citato dal Muratori, racconta che Carlo Magno, venuto in Italia, volle un giorno andare a caccia, e mandò a chiamare improvvisamente i suoi cortigiani, che si trovavano a Pavia. Ivi già i Veneti avevano cominciato a portare i preziosi prodotti dell'Oriente, e però i cortigiani poterono presentarsi all'Imperatore vestiti in grandissima gala. Andati a caccia, le penne e le stoffe preziose dei cortigiani furono dalla pioggia e dalle spine interamente sciupate; ma l'abito dell'Imperatore, ch'era d'una semplice pelle di capretto, rimase intatto. Laonde egli, rivolto ai suoi cortigiani, quasi deridendoli, disse: a quale scopo gettate voi cosí inutilmente il danaro, quando avete le pelli, che sono l'abito piú conveniente, piú resistente e meno costoso? Si può certamente dubitare dell'autenticità storica di questo fatto; ma la narrazione del cronista proverebbe in ogni modo due cose: che nel secolo ix, cioè, l'uso di vestir pelli di capretto o agnello era cosí generale, che si poteva supporre non le sdegnasse un imperatore; e che, sebbene le industrie italiane fossero allora assai povere, pure già stoffe di lusso venivano dall'Oriente, per mezzo dei Veneti.

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