V

Le sette Arti, che noi abbiamo sino ad ora esaminate, si chiamavano maggiori, appunto perché erano le piú importanti, ed avevano in mano la ricchezza ed il commercio principale della Repubblica. Non poche di esse potevano, come vedemmo, dirsi piú una riunione di mestieri diversi, che un'industria sola; occupavano moltissime braccia, raccoglievano e adoperavano ingenti capitali. Tuttavia c'erano in Firenze parecchie altre Arti, che si chiamavano minori, ed arrivavano a quattordici:

Linaioli e Rigattieri - Calzolai - Fabbri - Pizzicagnoli - Beccai e Macellai - Vinattieri - Albergatori - Correggiai - Cuoiai - Corazzai - Chiavaiuoli - Muratori - Legnaiuoli - Fornai.

Anche alcune delle minori industrie fiorentine avevano molta reputazione in Italia, come, per esempio quella degl'intagliatori in legno o in pietra, che erano stimati fra i primi nel mondo. Ogni volta che all'opera dell'artigiano s'univa, poco o molto, l'arte del disegno, i Toscani non avevano piú rivali. Cosí pure i lavoratori fiorentini d'immagini in cera (lo nota anche il cronista Dei), erano tenuti inarrivabili per la loro perizia. Gli uni e gli altri non s'erano però costituiti in associazione, e si potrebbero dire piú artisti che operai. Comunque sia di ciò, le Arti minori, sebbene numerose ed operose, non poterono mai acquistare una grande importanza. Esse differivano dalle Maggiori, principalmente perché provvedevano solo al commercio interno della Repubblica, e quindi restavano chiuse in una cerchia assai angusta d'affari e d'interessi, a differenza delle altre, che, facendo il commercio dell'Oriente e dell'Occidente, poterono salire ad una grande importanza, anche politica, ed impadronirsi addirittura del governo.

Se ci riconduciamo per poco a quel tempo, in cui le Arti Maggiori arrivarono al potere, noi le vedremo, in una medesima ora, aver nelle mani il commercio, la ricchezza ed il governo della Repubblica fiorentina. E ci sarà facile capire con quanta energia esse dovessero adoperarsi per far servire la politica all'aumento della ricchezza, che nelle nuove condizioni d'Italia, era divenuta la forza maggiore dei nostri Comuni. I mercanti fiorentini, i quali da lungo tempo avevano compreso, che l'avvenire apparteneva ad essi, furono sempre i piú tenaci sostenitori del partito guelfo contro il ghibellinismo imperiale dei nobili, cui avevano giurato un odio eterno. Noi possiamo ora immaginarci Firenze come una grossa casa di commercio, la quale posta nel centro della Toscana, era circondata da altre, che tutte le facevano concorrenza. Il Medio Evo non conosceva le leggi e l'equità del diritto internazionale; quindi nulla era piú naturale ad uno Stato geloso del suo vicino, che chiudergli il passaggio sul proprio territorio, ponendo sui prodotti dell'emulo temuto, dazi incomportabili. E cosí Firenze, che pel continuo aumento del suo commercio destava ogni giorno gelosie maggiori, e per la mancanza del mare si sentiva come mancar l'aria da respirare, sarebbe stata subito ridotta all'impotenza, se non avesse ricorso alla forza delle armi contro i suoi vicini. La necessità di difendere la propria esistenza, la condusse perciò ad una serie non interrotta di guerre, che si concludevano sempre con vantaggiosi trattati di commercio, nei quali essa dette prova della sua non mai smentita accortezza.

Noi l'abbiam vista, sin dal principio, combattere i vicini baroni, per assicurare il suo nascente commercio; aprirsi poi, pel Mugello, la via ai maggiori traffici con la Romagna e la Lombardia. Piú tardi la vedemmo combattere fieramente e, dopo varia fortuna, vincere quasi tutte le città ghibelline della Toscana, come Volterra, Siena, Arezzo. E quando chiedemmo, perché Firenze, con tanta ostinazione d'animo, restasse sempre guelfa, anche se minacciata dal Papa, e ripetemmo la domanda medesima, che il ghibellino Farinata faceva a Dante:

Dimmi, perché quel popolo è sí empio

Incontro a' miei in ciascuna sua legge?

la risposta fu sempre che, oltre le ragioni politiche di un ordine piú generale, bisognava ricordarsi che quest'aristocrazia del danaro, salita al potere, s'era cominciata ad arricchire facendo con Roma i suoi piú grossi affari. Siena, Arezzo, Volterra, che si trovavano sulla via di Roma, e ad essa piú vicine, venute una volta in gara con Firenze, dovettero inevitabilmente soccombere. Sicura che fu la Repubblica degli affari di Roma e del commercio di Lombardia, noi vedemmo il bisogno d'arrivare al mare divenuto irresistibile, e una guerra di sterminio con Pisa, inevitabile. Supporre che la lunga, eterna, sanguinosa guerra pisana nascesse solo da un odio cieco ed istintivo, quando vi sono altre cagioni manifeste e gravissime, sarebbe un voler rinnegare l'evidenza dei fatti. Era un vero e violento conflitto d'interessi. I Pisani sapevano bene che il concedere libero il passo a chi faceva già il principale commercio nell'interno d'Italia; a chi, senza avere ancora una sola galea sul mare, era già penetrato in tutti gli scali d'Oriente; a chi, con tanto ardore, mirava all'assoluto primato in Toscana, era un volersi mettere per sempre alla sua dipendenza. Quindi essi resisterono con tutte le loro forze. Queste forze veramente eran tali, e cosí grande era il numero di coloro i quali mal tolleravano il predominio dei Fiorentini, che questi non avrebbero mai potuto sottomettere i Pisani, se, oltre alle arti della guerra, non avessero saputo costantemente adoperare tutta la loro accortezza. Niuna cosa, infatti, dimostra tanto il genio politico dei Fiorentini, quanto il modo che tennero in questa guerra, e le vie che presero per raggiungere uno scopo, che, in tutta la loro storia, ebbero costantemente in mira. Noi li vediamo sempre amici di Lucca, sempre pronti a soccorrerla con ogni sacrifizio, perché Lucca non fu mai amica dei Pisani, e perché la sua alleanza poteva essere d'una grandissima utilità in una guerra contro di questi. Noi li vediamo sempre amici di Genova, fuggire ogni occasione di mal umore con essa, che era la rivale naturale di Pisa sul mare. E questa rivalità i Fiorentini cercarono, con ogni arte, di tener sempre viva, giacché fino a quando non trovavano chi avesse per loro distrutta la potenza dei Pisani sul mare, non sarebbe mai stato ad essi possibile domarli. E il giorno venne, in cui i Pisani furono disfatti alla Meloria dai Genovesi (6 agosto 1284). D'allora in poi la vittoria dei Fiorentini su Pisa, sebbene ancor lungamente contrastata, era pur certa, e da quel momento la loro amicizia pei Genovesi cominciò ad intiepidirsi. Volevano essere aiutati a domar Pisa; ma non volevano accrescere la preponderanza d'un'altra repubblica, ghibellina e già potentissima sul mare. Quindi li vediamo, dopo che hanno con tanto ardore assalito ed indebolito Pisa, aiutarla a reggersi in piedi contro i Genovesi, fino a che questi, avendo abbandonato il pensiero di conquistarla, poterono provarsi a conquistarla essi per proprio conto, e vi riuscirono.

La stessa via, con uguale accorgimento, tennero negli anni in cui si videro minacciati dalla potenza dei duchi di Milano, i quali volevano impadronirsi di tutta Italia, ed in quelli in cui ebbero a mezzogiorno nemico il re Ladislao di Napoli. E quando le armi non bastavano, allora appare straordinario davvero l'accorgimento politico, col quale seppero salvarsi da avversarî che avevano forze assai maggiori. L'arte di rivolgere i loro nemici gli uni contro gli altri, di sostenere i deboli contro i piú orgogliosi vicini, di trovar sempre modo di raccoglier mezza Italia contro chi saliva a tanta potenza da minacciar la Repubblica, fu costantemente quella con cui l'indipendenza e la libertà fiorentina poterono esser salvate in mezzo a Stati che da ogni lato le andavano perdendo, in mezzo a nemici molteplici e potenti, che da ogni lato la circondavano. E tutto ciò fu l'opera delle Arti maggiori o sia dei popolani grassi.

Questa aristocrazia mercantile governò la Repubblica con tanta energia e con tanto ardore, perché essa accresceva nello stesso tempo la potenza fiorentina e la propria ricchezza, il proprio commercio. Cosí fu che una città, la quale di rado superò i 100 mila abitanti, e molte volte ne ebbe assai meno, con un territorio ristretto e circondato da tanti nemici, poté divenire uno Stato minaccioso in Italia e rispettato in Europa. Questi mercanti erano cosí gelosi della loro libertà, che non conoscevano limiti ai sacrifizî necessarî a sostenerla, né si lasciavano illudere o spaventare da pericoli di sorta, neppure quando si minacciava il loro proprio commercio. Noi li vediamo, infatti, sebben guelfi tenacissimi, con tante relazioni ed interessi commerciali in Roma, pronti a combattere anche il Papa, quando esso combatteva la loro libertà, e chiamare Otto Santi quei magistrati che dovevano condurre la guerra contro Gregorio XI (1376). E li vediamo del pari sostenere contro i Visconti di Milano una guerra, che costava ogni anno milioni e milioni di fiorini, senza che le forze della Repubblica si esaurissero mai, senza che l'animo de' suoi reggitori si stancasse mai.

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