I

La storia delle libertà italiane, dal Medio Evo fino alle nuove invasioni straniere, che incominciarono con Carlo VIII nel 1494, si riduce principalmente alla storia dei nostri Comuni. Questa storia non è anche scritta, e quel che è peggio non potrà scriversi fino a che non saran messi in luce, ordinati, illustrati i materiali su cui lo storico deve lavorare. Quali erano i piú antichi Statuti politici, e quelli delle associazioni d'Arti e mestieri, quali le leggi penali e civili, lo stato delle persone, le entrate e le uscite, il commercio, l'industria di quelle repubbliche, sono tutte domande alle quali noi possiamo assai imperfettamente rispondere, e qualche volta non possiamo rispondere punto. E senza rispondervi, la storia civile dei nostri Comuni rimane oscura.

L'Italia, col Machiavelli e col Giannone, dette al mondo i primi esempi della storia civile, e coi lavori giganteschi del Muratori iniziò quella grande scuola di erudizione storica, che è l'unica base sicura della storia moderna, massime della storia civile. Ma noi ci lasciammo ben presto strappar di mano lo scettro, che avevamo conquistato. Non ci sono, è vero, mancati mai grandi eruditi e scrittori di storie; ma a compiere la storia nazionale d'un popolo, non basta il lavoro d'uno o di pochi; essa deve, in qualche modo, essere l'opera della nazione stessa. Solo il lavoro coordinato di piú dotti e di piú generazioni può riuscire a mettere insieme e studiare l'infinita massa di materiali, che è necessaria a ritrovare nella storia di tanti municipii, che sono cosí diversi ed in continua guerra fra loro, la storia del popolo italiano. Fra noi da lungo tempo si lavora ognuno per conto proprio; mancano quell'accordo e quella corrispondenza tanto necessari a fare, col lavoro degl'individui, progredire di pari passo quello di tutta la nazione.

Io certo non dimenticherò qui di citare l'esempio delle Deputazioni e Società di storia patria, sussidiate dal Governo, delle quali fanno parte uomini benemeriti e dottissimi. Ma esse ancora non lavorano secondo un disegno generale e comune; anzi nel seno delle stesse Deputazioni si vedono qualche volta i vari membri attendere a lavori importanti, se si vuole, ma che pure non hanno fra loro alcuna relazione. Cosí si dovrà aspettare un gran tempo, prima che qualche periodo della nostra storia venga da tanti dotti compiutamente illustrato. Eppure noi non avremmo bisogno d'andar fuori di casa a cercar le norme da seguire, perché queste norme noi fummo i primi a trovarle, né le abbiamo dimenticate. Né solamente le Deputazioni e Società pubblicarono raccolte importantissime di documenti. Chi non ricorda le fatiche indefesse del benemerito Vieusseux e de' suoi amici, nel dirigere l'Archivio Storico Italiano? A mostrare quanto possa giovare la pubblicazione d'una sola serie di documenti, basterebbe citare le Relazioni degli ambasciatori veneti, date alla luce per opera dell'Albèri, con tanto profitto della storia non solamente d'Italia, ma d'Europa. Che progresso non si farebbe, se il lavoro di tutti gli eruditi italiani si potesse, per consenso unanime, coordinare ad uno scopo comune? Si guardi che cosa ha potuto fare a Berlino il Pertz, sussidiato dalla Confederazione, e aiutato da tutti i dotti tedeschi. I suoi Monumenta sono davvero un monumento immortale alla storia nazionale della patria tedesca, intorno al quale s'è potuto fondare una nuova scuola di eruditi e di storici.

Ora che l'Italia s'è unita, e di tanti Stati ha fatto uno Stato solo, è necessario che essa sappia nella storia de' suoi Comuni ritrovare la storia del suo popolo. Oltre di che bisogna considerare, che il Comune è la istituzione con la quale dal Medio Evo esce la società moderna. Sorto in mezzo ad una moltitudine di schiavi, di vassalli, di baroni, di duchi e marchesi, seppe creare quel terzo stato e quel popolo, che distrusse il feudalismo in Italia, e con la rivoluzione francese, lo distrusse poi in tutta Europa. Cosí si formò, osserva anche Agostino Thierry, quella immensa riunione di uomini liberi, che nel 1789 intraprese, per la Francia intera, ciò che avevano compiuto nei municipi i suoi antenati del Medio Evo. Ora, siccome l'Italia appunto è stata il centro e la sede delle libertà comunali, cosí si tratta, con questi studi, non solo di conoscere la nostra storia civile, ma di porre in evidenza la parte che noi avemmo nel ritrovare i principii della società e della civiltà moderna. Chi studia attentamente la storia del diritto romano nel Medio Evo, può osservare che i nostri glossatori, mentre che facevano rinascere la vecchia giurisprudenza, inconsapevolmente la modificavano, adattandola ai nuovi tempi. E Francesco Forti affermava, che chi studia i nostri Statuti s'accorge che molte di quelle norme, le quali si trovano nel Codice Napoleone, e che si credono opera della rivoluzione francese, erano già nelle antiche legislazioni italiane. Io credo che la nostra storia dovrà in ogni parte della vita civile degl'Italiani, confermare osservazioni simili, perché in essa sono le prime origini delle libertà moderne. Ma questo lavoro aspetta ancora chi sarà capace d'intraprenderlo, e non basterà, come dissi, un uomo solo. Noi vogliamo occuparci ora d'un soggetto assai piú modesto. Il nostro scopo è di far vedere, con un rapido sguardo alla storia d'un Comune solo, quante nuove ricerche ancora ci restano a fare, e quante quistioni restano ancora insolute.

Le vicende della repubblica fiorentina trovano qualche riscontro solamente nei tempi piú floridi della libertà ateniese. Invano cercheremmo in tutta la storia moderna un'altra città piena, ad un tempo, di tanto tumulto e di tanta ricchezza, dove, versandosi tanto sangue civile, potessero le arti, le lettere, il commercio, l'industria fiorire del pari. Lo storico quasi non crede a sé stesso, quando egli deve descrivere un pugno di uomini che, raccolti sopra un palmo di terra, stendono i loro traffici in Oriente ed in Occidente; aprono le loro banche in tutta Europa; accumulano tesori cosí vasti, che le private fortune bastano qualche volta a sostenere sovrani vacillanti sui loro troni. Egli deve dire ancora, che questi ricchi mercanti fondarono con Dante la poesia moderna, e con Giotto la pittura; con Arnolfo, con Brunellesco, con Michelangiolo, che fu poeta, pittore, scultore e architetto ad un tempo, innalzarono quelle stupende moli che il mondo continuerà sempre ad ammirare. I primi e piú accorti diplomatici d'Europa erano fiorentini, la scienza politica e la storia civile nacquero in Firenze col Machiavelli. In sul finire del Medio Evo quell'augusto municipio somiglia ad un piccolo punto di luce che illumina il mondo.

Parrebbe che a conoscere la storia di questo Comune, le difficoltà dovessero essere già tutte superate, perché di esso i piú grandi scrittori italiani, i piú grandi storici moderni si occuparono da lungo tempo e lungamente. Quale altra città può, infatti, vantare i suoi annali descritti da uomini come il Villani, il Compagni, il Machiavelli, il Guicciardini, il Nardi, il Varchi? Ed alle storie o cronache bisogna aggiungere una serie infinita di Diari, Prioristi, Ricordi, senza parlare per ora dei moderni scrittori. Era tra i Fiorentini comunissimo l'uso di registrare, di giorno in giorno, i fatti che seguivano; e cosí si andò sempre piú aumentando la loro ricca e splendida letteratura storica. Eppure, con tutto ciò, non v'è storia che presenti tante difficoltà, e che sia come questa, piena di tante, che sono o paiono insolubili contraddizioni. Gli avvenimenti passano dinanzi ai nostri occhi, descritti, dipinti con splendidi colori; si succedono con rapida e non mai interrotta vicenda; ma sembra che, senza tregua e senza legge, obbediscano solo al caso. Odii personali, gelosie e private vendette sono cagione di rivoluzioni politiche, le quali contaminano la Città di sangue civile; durano dei mesi e qualche volta degli anni, per finire in leggi arbitrarie, che si tenta di violare o disfare appena che sono sanzionate dai magistrati. E cosí spesso vien fatto di chiedere: questa è dunque l'opera degli accorti diplomatici, dei grandi politici? O sono bugiarde le lodi di senno e di accortezza politica, prodigate ad uomini che non seppero mai dar sicure leggi e ferme istituzioni alla patria, e nelle piú gravi faccende di Stato si lasciarono dominar solo dagli odii e dalle passioni personali; o sono bugiarde le lodi che da secoli noi diamo a questi storici, i quali coi piú splendidi colori ci descrivono fatti impossibili. È egli possibile, in vero, che da tanto senno nasca tanto disordine? E come poi, in mezzo a tanto disordine, su questa nave della Repubblica, abbandonata all'arbitrio di ogni vento, poterono tanto splendidamente fiorire le arti, le lettere e le scienze?

Certo la storia, quale la vogliamo oggi, era ignota agli antichi. Noi cerchiamo le cagioni di fatti, che gli antichi descrivevano solamente. Noi vogliamo conoscere le leggi, i costumi, le idee, i pregiudizi degli uomini, e gli antichi s'occupavano esclusivamente delle azioni e delle passioni umane. La scienza politica del secolo xv era principalmente uno studio dell'uomo, e la nostra è principalmente uno studio delle istituzioni. La storia moderna cerca di essere uno studio dell'uomo e della società, in tutte le sue forme, sotto tutti gli aspetti. Per queste ragioni ci è stato necessario rifar tante volte il lavoro, che pure cosí splendidamente avevano fatto gli antichi.

Lasciando da parte quei raccoglitori di favole e leggende sulle origini di Firenze, le quali si ripetono anche negli scritti posteriori, noi possiamo dividere gli storici fiorentini in due grandi scuole. Primi sono gli autori di Cronache o Diari, i quali fiorirono, piú che altro, nel Trecento, sebbene continuassero per lungo tempo di poi. Lo scrittore registra, giorno per giorno, i fatti di cui fu spettatore, e spesso anche attore; animato dalle medesime passioni che descrive, egli diviene non di rado eloquente, e la sua eloquenza passionata gl'impedisce di fermarsi a fare considerazioni astratte. Egli suppone sempre nei suoi lettori la piena conoscenza di quelle istituzioni politiche, nelle quali era nato e vissuto, che a noi sono ignote, e che piú di tutto vorremmo conoscere. Nondimeno il cronista del Trecento, come spesso avviene a Giovanni Villani, osservatore impareggiabile, si ferma a descrivere cosí minutamente i fatti, raccoglie tante notizie, che, senza quasi avvedercene, noi ci troviamo trasportati in mezzo alla società dei suoi tempi. E nello scendere a questi particolari, egli qualche volta si scusa col lettore d'averlo fermato su cose di sí piccolo momento, tanto era lontano dal supporre quanto preziose piú tardi sarebbero state per noi appunto quelle notizie sul commercio, sulla pubblica istruzione, sulle entrate e sulle uscite della Repubblica, e quante altre dovevamo desiderarne invano. Appena però che questi scrittori s'allontanano dai loro tempi e dai fatti che hanno veduti, essi o debbono copiare letteralmente da altri cronisti, o la loro narrazione perde ogni pregio ed ogni autorità, ogni calore ed ogni colore. Noi passiamo, a un tratto, dalla piú vera e vivace descrizione alle favole piú strane, al piú grande disordine, perché essi, anche nel copiare letteralmente dagli altri, lo fanno senza il piú piccolo discernimento. Ne sono un esempio i loro puerili racconti sulle origini di Firenze. La critica storica allora non era neppure in culla.

Colla erudizione del secolo xv incominciò la lettura e l'imitazione di Sallustio, di Livio, e gli scrittori italiani non si contentarono piú di registrare i fatti alla giornata, senza nesso, senza ordine. Molti scrissero in latino, altri in italiano; ma tutti volevano comporre una narrazione storica piú artistica o piú artificiale. Facevano esordi e considerazioni generali, descrivevano a lungo e con molto aiuto della fantasia guerre che non avevano visto, e di cui poco o punto sapevano; ponevano in bocca ai loro personaggi discorsi immaginari, qualche volta perfino scrivevano in forma di dialogo la loro narrazione, pur di allontanarsi dai loro padri del Trecento. Fu un tempo di esercizi retorici e d'imitazione servile dei classici, nel quale la storia e la letteratura italiana decaddero, apparecchiandosi però a risorgere nel secolo seguente. Ed infatti nel Cinquecento noi troviamo un'arte storica assai progredita. Il Machiavelli, che se ne potrebbe dire il piú illustre fondatore, comincia appunto col fare un rimprovero agli storici precedenti, perché «delle civili discordie e delle intrinseche inimicizie e degli effetti che da quelle sono nati, avevano una parte al tutto taciuta, e quell'altra in modo brievemente descritta, che ai leggenti non puote arecare utile o piacere alcuno». Queste parole ci danno indirettamente il ritratto fedele del suo libro, col quale ha lasciato un monumento immortale alla propria fama. Egli cerca le cagioni dei fatti, l'origine dei partiti e delle rivoluzioni seguite nella Repubblica: cosí un nuovo metodo è trovato, una nuova via è aperta. Egli abbraccia in una mirabile unità tutta la storia della Repubblica; lascia da un lato, con profondo disprezzo, tutte quelle favole che i cronisti avevano accumulate sulla fondazione di Firenze, e getta uno sguardo di aquila sul gioco dei partiti, dalla loro origine fino ai suoi tempi. Fu il primo a intraprendere questa ricerca, e dopo di lui, dopo tante nuove indagini, il suo concetto fondamentale rimane fermo.

Ma delle istituzioni il Machiavelli s'occupò assai poco, delle leggi, dei costumi, quasi punto. E quello che è piú, egli era cosí fattamente in balìa del suo genio divinatore, che curò assai poco anche la esattezza storica dei fatti particolari. A persuadersi del numero infinito d'inesattezze e di errori, che per noi sarebbero imperdonabili, e che pure si trovano nel suo libro, bisogna paragonare la sua narrazione con le narrazioni contemporanee degli antichi cronisti, alcuni dei quali egli conosceva. Non solo le date sono spesso sbagliate, ma ancora il nome, il numero dei magistrati, la forma delle istituzioni. Sembra che nel tempo medesimo in cui divinava lo spirito dei fatti, raffazzonasse a suo capriccio i fatti stessi. Qualche volta egli prende pagine e pagine intere dalle storie del Cavalcanti, copiando perfino i discorsi immaginari che questi poneva in bocca dei personaggi storici, e con pochi tocchi infonde vita nuova nella pesante narrazione che gli sta dinanzi, senza punto occuparsi di far nuove ricerche. Cosí il suo libro divenne una guida preziosa e pericolosa nello stesso tempo. Egli qualche volta non si asteneva dal porre un fatto vero là dove meglio tornava al suo ragionamento, riempiendo cosí, senza troppo scrupolo, le lacune che trovava. Suo scopo, come egli stesso ci dice, era d'indagar le cagioni dei partiti e delle rivoluzioni. Quello che alcuni chiamano oggi il colorito locale, il colorito storico dei fatti, scomparisce del tutto nella sua narrazione, massime dei primi avvenimenti della Repubblica. Gli uomini appartengono a diversi partiti, commettono azioni ora tristi ora generose, ma in tutti i tempi sono per lui sempre i medesimi. E quanto ciò debba nuocere ad una chiara conoscenza dei fatti è facile immaginarlo. A misura poi che il Machiavelli s'avvicina ai suoi tempi, vede la costituzione della Repubblica alterarsi e corrompersi, la libertà allontanarsi, e mille passioni personali sorgere ad affrettare la rovina delle istituzioni che decadono. La conoscenza dei piú minuti particolari sarebbe allora tanto piú necessaria a farci intendere la trasformazione della società; ma egli, che pure restò sempre un Fiorentino del secolo xv, aveva dinanzi a sé l'esempio di Tito Livio e degli altri scrittori romani, i quali, a lui come a tutti gli eruditi di quel secolo, ispiravano un grande disprezzo dei troppo minuti particolari, che fanno perdere l'epica unità della storica narrazione. E quando piú tardi s'avvicina la prevalenza inevitabile dei Medici, sotto i quali anch'egli visse, rivolge allora, con mal celato disgusto, il suo occhio dai fatti interni della Repubblica, per occuparsi solo dei fatti esterni. Ci parla allora di guerre e di quella politica italiana, che fu la passione di tutta la sua vita. In mezzo agl'intrighi delle Corti, alla prevalenza contrastata degli uni o degli altri, noi ci accorgiamo che esso va cercando il modo con cui un principe nuovo avrebbe potuto riunire le sparse membra della patria italiana, lacerata, calpestata, e questo nobile pensiero gli fa spesso dimenticar la storia di Firenze.

Quando noi leggiamo le antiche cronache contemporanee, vediamo sorgere dinanzi a noi vive e parlanti le immagini di Giano della Bella, Farinata degli Uberti, Corso Donati, Michele di Lando. Le loro passioni, i loro amori e i loro odii ci sono noti, quasi familiari; ma noi siamo in mezzo al tumulto irrequieto e irrefrenabile delle passioni, senza sapere donde spiri il vento che agita e confonde in un solo turbine uomini e cose, senza dar mai tregua. Appena che usciamo dal raggio visuale dello scrittore, le immagini si confondono, e la nostra vista insieme colla sua si oscura. Anche nei momenti della piú eloquente descrizione, udiamo il nome d'istituzioni e di magistrati, che non possiamo comprendere, e che vediamo ora alterarsi, ora scomparire, ora riapparire di nuovo, senza saperne il perché. Ma dall'altro lato, quando, invece, per lo studio e l'imitazione degli antichi scrittori, l'arte di abbracciare una piú vasta cerchia di fatti incomincia, e si cercano le cagioni e le relazioni di questi fatti, per raccoglierli in una visibile unità, manca ancora quella critica storica che accerta i fatti stessi, ricerca, definisce le istituzioni e le leggi, colorisce e quasi ridesta il passato nella sua varia, mutabile fisonomia. Lo storico manda col suo genio come dei lampi di luce, che, di tratto in tratto, illuminano le età trascorse; ma esse restano pur sempre incerte e confuse nella nostra mente. Noi abbiamo bisogno di conoscere gli uomini, le istituzioni, i partiti e le leggi quali veramente furono; né ciò basta, perché bisogna comprendere ancora come tutto ciò si costituí in una sola unità, e da quegli uomini, da quei tempi nacquero quelle istituzioni e quelle leggi.

Questo è ciò che gli scrittori moderni avrebbero dovuto fare, ma che non hanno fatto per molte ragioni. E prima di tutto, il fiorire delle lettere e delle arti nei tempi in cui la libertà s'allontanava da Firenze, e la loro grande efficacia su tutta quanta la cultura moderna, richiamarono l'attenzione degli scrittori principalmente su questa parte della storia fiorentina, che aveva una importanza assai generale, ed era piú intelligibile a tutti. Cosí fu che la piú parte dei moderni, massime gli stranieri, non studiarono, non conobbero quei tempi nei quali s'erano pure formate tutte le qualità piú nobili del carattere fiorentino, e s'erano svolte, educate quelle forze intellettuali, che piú tardi divennero visibili nelle lettere e nelle arti, tanto universalmente ammirate. E molti stranieri sembrarono persuadersi non solamente che le arti e le lettere italiane fossero fiorite quando i costumi erano piú corrotti, ma quasi risultassero da essi, fossero immedesimate con quella corruzione, la quale invece corruppe le arti stesse, che furono figlie della libertà e della moralità, e poterono ad esse solo per qualche tempo sopravvivere.

Vi è inoltre da osservare, che finora non s'è visto nessun libro di grande scrittore moderno, il quale tratti di proposito la storia politica e costituzionale di Firenze. Qualche cosa, bisogna riconoscerlo, anche piú dei moderni fecero i due Ammirato, i quali nel secolo xvii avevano già cominciato a ricercare gli archivi, e composero un lavoro, per quei tempi, veramente nuovo e notevole. Se non che, né essi s'erano proposto di scrivere una storia della costituzione fiorentina, né la loro critica storica era sufficiente a raggiungere un tale scopo, quando pure se lo fossero proposto. Accanto a notizie nuove e preziose sui fatti ed anche sulle istituzioni, ci danno spesso una congerie di particolari inutili, che fanno smarrire l'unità generale della narrazione.

È inutile poi aggiungere che gli scrittori moderni, i quali parlarono di Firenze solo nelle storie generali di tutta Italia, dovettero, di necessità, trattare fuggevolmente ciò che era secondario nei loro lavori. Spesso s'affidarono troppo ciecamente all'autorità ed al gran nome degli antichi, senza neppur distinguere abbastanza nelle opere di essi, quelle parti il cui valore è certo incontrastabile, da quelle in cui copiano narrazioni lette altrove, o ripetono solo tradizioni favolose. Basta paragonare il Villani col Malespini, per vedere come uno dei due ha certamente copiato dall'altro molti e molti capitoli. E non è il solo esempio. Il Machiavelli, come dicemmo, copiò capitoli interi dal Cavalcanti; il Guicciardini tradusse piú volte Galeazzo Capra, piú noto col nome di Capella; il Nardi riprodusse di sana pianta il Buonaccorsi. Senza dunque una critica degli scrittori ed un giusto giudizio del valore relativo che hanno, della fede che meritano le varie parti delle loro opere, nulla è piú facile che lasciarsi trarre in inganno. Per questa e per non poche altre ragioni, molte sono le sorgenti d'errori nei moderni storici dell'Italia, quando parlano delle cose fiorentine. Noi li vediamo, di tratto in tratto, fermarsi, dietro la scorta dei piú reputati cronisti, a definirci che cosa era il Capitano del popolo o il Podestà o il Consiglio del Comune, e poi durare una gran fatica, per mettere d'accordo queste definizioni colla realtà dei fatti, ogni volta che quei nomi ricompariscono nella storia. In tutto ciò v'è quasi sempre una doppia sorgente di errori. Le definizioni che gli antichi ci dànno dei magistrati, sono appena accennate, quando essi parlano dei loro tempi, e sono spesso inesatte quando se ne allontanano. I moderni poi cercano generalmente una definizione precisa e determinata di istituzioni, che incominciarono a mutare il giorno stesso in cui nacquero, e che d'immutabile non ebbero altro che il nome. Questo nome non solo resta inalterato quando l'istituzione è divenuta affatto diversa da ciò che era stata in origine, ma spesso per lungo tempo sopravvive alla istituzione stessa. Ed è singolare allora veder le ingegnose ipotesi che si fanno, per dar corpo e realtà a questi nomi, che son divenuti ombre d'un passato che s'è dileguato. Per uscire da un simile laberinto non v'è altro mezzo, che provarsi a ricostruire la serie dei mutamenti principali, che ciascuna di siffatte istituzioni ebbe, e non perder mai di vista le relazioni che esse serban fra loro nelle continue vicende cui vanno soggette. Solo cercando la legge che regola e domina questi mutamenti, è possibile ritrovare il concetto generale della Repubblica, determinare il valore delle sue istituzioni.

Ma come fare, se molti degli elementi piú necessari a compiere un tale lavoro ci mancano? L'erudito ancora non ha ordinata, studiata, illustrata la serie infinita delle Provvisioni, degli Statuti, delle Consulte e Pratiche, delle Relazioni degli ambasciatori, in una parola degli atti ufficiali della Repubblica, molti dei quali non furono neppure cercati o trovati. Noi tuttavia crediamo che, senza volere ora scrivere una vera e propria storia di Firenze, resti pure a fare un lavoro non del tutto inutile. Possiamo di certo prendere a guida gli antichi storici e cronisti, in quelle parti solamente nelle quali parlano come testimonii oculari, cercando dove è necessario, di temperare il loro spirito partigiano, col metter loro a riscontro gli scrittori d'avverso partito. La serie dei documenti pubblicati alla spicciolata, e di erudite dissertazioni, è pure vastissima, sebbene non ancora compiuta; nelle difficoltà e lacune principali si può agevolmente ricorrere all'Archivio fiorentino. E dopo siffatte indagini a noi è sembrato, che sia agevole dimostrar chiaramente come tutta quanta la storia di Firenze possa rischiararsi d'una nuova luce, e il suo apparente disordine possa scomparire. Le rivoluzioni politiche di Firenze, infatti, per poco che uno le esamini attentamente, cercandone le cagioni vere e reali, al di sotto delle apparenti, che spesso ingannano, si succedono con un ordine logico maraviglioso. Al piú strano disordine, sembra allora che venga rapidamente a sostituirsi una successione e connessione matematica di cause e di effetti. Gli odii e le gelosie personali non sono cagioni, ma occasioni che accelerano il rapido e febbrile avvicendarsi di quelle riforme, per le quali il Comune fiorentino, percorrendo tutte le costituzioni politiche allora possibili, arrivò, di grado in grado, alle piú larghe libertà di cui il Medio Evo era capace. Ed è questo scopo cosí nobile, questa libertà cosí larga, ciò che ridesta tutte quante le forze intellettuali e morali nel seno della Repubblica, che produce un maraviglioso acume politico, ed in mezzo ad un apparente disordine, fa fiorire cosí splendidamente le lettere, le arti e le scienze. Quando poi gli odii e le passioni esclusivamente personali prevalgono, allora il disordine comincia davvero, la costituzione si corrompe, e la libertà precipita al suo fine.

Con questo scritto non si presume altro, che dare un breve saggio della storia di Firenze nei tempi in cui furono fondate le sue libertà. Il soggetto è di tale importanza, che lo storico Thiers se ne è lungamente occupato, e sentiamo che un illustre Italiano vi abbia già dedicato molti anni d'assidue ricerche. Se queste pagine potessero servire d'annunzio o d'incitamento alla pronta pubblicazione d'un'opera che dovrà certo onorare le nostre lettere, esse non sarebbero certo inutili.

Share on Twitter Share on Facebook