II

La storia di tutte le repubbliche italiane può dividersi in due grandi periodi: l'origine del Comune, lo svolgimento della sua costituzione e delle sue libertà. Nel primo periodo, in cui una società vecchia si decompone e ne sorge una nuova, male si può la storia d'un Comune dividere da quella degli altri, perché si tratta di Goti, di Longobardi, di Greci e di Franchi, che dominano, volta a volta, gran parte d'Italia, ponendola, quasi per tutto, nelle medesime condizioni. Lo stato dei vincitori e dei vinti è lo stesso, mutando solo col variare dei dominatori. In mezzo alla oscurità dei tempi ed alla scarsità delle notizie, le differenze che passano fra una città e l'altra d'Italia sono allora assai poco visibili. Esse però si determinano assai piú chiaramente, e divengono sempre maggiori dopo il primo sorgere delle libertà. Di tutte queste origini le piú oscure, quantunque non le piú antiche, son forse quelle di Firenze, la quale assai tardi incomincia ad acquistare la sua grande importanza. Siccome qui è nostro proposito illustrar solo la storia della costituzione fiorentina, cosí diremo poche e brevi parole sul primo dei due periodi accennati, cioè sull'origine dei Comuni italiani in generale.

È una quistione su cui si agitò un tempo lunga, erudita e vivissima disputa, specialmente fra scrittori italiani e tedeschi. Ma il rigore scientifico di queste ricerche, nelle quali i dotti italiani molto si fecero onore, venne spesso diminuito dal patriottismo e dai pregiudizii nazionali. Si vedeva che nelle origini del Comune erano anche le origini delle libertà e della società moderna, e quindi il problema si trasformava tacitamente in quest'altro: sono gl'Italiani oppure i Tedeschi gli autori di queste libertà, di questa società? È facile capire in che modo le passioni politiche venissero allora a prender parte nella disputa, togliendole la necessaria serenità.

Sul finire del secolo scorso la quistione era stata molte volte discussa fra noi da uomini dottissimi, con diversi intendimenti (Giannone, Maffei, Sigonio, Pagnoncelli, ecc.). Il Muratori, senza avere un sistema prestabilito, gettò dei lampi di luce maravigliosa sul soggetto, sollevandolo, colla sua portentosa erudizione, ad una grande altezza. Non cominciò tuttavia la disputa a divenire ardente, fino a che il Savigny non venne a trattar l'argomento nella sua immortale Storia del diritto romano nel Medio Evo. Volendo egli dimostrare la non mai interrotta continuità di quel diritto, siccome tutto nella storia si collega, dovette di necessità sostenere che gl'Italiani sotto i barbari, anche sotto i Longobardi, non avevano perduto ogni libertà personale, ogni antico diritto, e che il municipio romano non era mai stato compiutamente distrutto. Il risorgimento perciò delle nostre repubbliche e del diritto romano, altro non era che un rinnovamento di antiche istituzioni, di antiche leggi non mai affatto scomparse. In Germania furon subito comprese le conseguenze ultime, cui menavano le idee del grande storico, ed allora l'Eichorn, il Leo, il Bethmann Hollweg, Carlo Hegel ed altri si levarono a combattere l'opinione d'una origine romana del Comune italiano. Essi sostennero, invece, che i barbari, massime i Longobardi, la cui signoria era stata infatti piú lunga e dura di tutte le altre, ci avevano tolto ogni libertà, avevano distrutto ogni traccia d'istituzioni romane, in modo che i nuovi Comuni e i loro Statuti furono una creazione nuova, la cui prima origine si doveva solo ai popoli germanici.

Queste opinioni avrebbero, secondo ogni apparenza, dovuto trovare nel patriottismo degl'Italiani un'ardente opposizione, e quelle del Savigny ottenere un favore universale. Eppure non fu cosí. Non mancarono fra noi molti e dotti seguaci né dell'una né dell'altra scuola. Allora si ridestava lo spirito nazionale, si desiderava, si voleva già un'Italia unita, a prezzo di qualunque sacrifizio, e si odiava ogni cosa che a questa unità fosse sembrata avversa. Ebbene i Longobardi erano stati sul punto di dominar tutta Italia, e solo il Papato aveva potuto, col chiamare i Franchi, fermare le loro conquiste. Se ciò non avesse fatto, l'Italia, fin dal nono o decimo secolo, avrebbe potuto essere una nazione unita come la Francia. Era allora già risorta fra noi quella scuola che, sin dai tempi del Machiavelli, aveva veduto nel Papato la cagione funesta delle divisioni d'Italia. E, come era naturale, questi Ghibellini del secolo XIX, confutando le opinioni del Savigny, esaltarono i Longobardi, si provarono a lodarne la bontà e l'umanità, maledissero il Papa, che aveva impedito il loro universale e permanente dominio in Italia. Ma v'era un'altra scuola politica, che invece sperava il risorgimento d'Italia dal Papa, e questa, che prevalse poi nella rivoluzione del 1848, prese a sostenere l'opposta sentenza, e trovò i suoi due piú illustri rappresentanti nel Manzoni ed in Carlo Troya. Ad essi non fu difficile provare che, in fin dei conti, i barbari erano poi stati barbari davvero; che avevano ucciso, distrutto, calpestato ogni cosa, e che il Papa, col chiamare i Franchi, qualunque fine avesse avuto, era pure stato di qualche aiuto alle moltitudini duramente oppresse. I Franchi, infatti, sollevarono alquanto le popolazioni latine, permisero l'uso della legge romana, dettero nuovo potere ai Papi ed ai vescovi, che contribuirono di certo al risorgimento dei Comuni. Cosí, con opposti intendimenti, le medesime opinioni venivano sostenute al di qua e al di là delle Alpi. In questa disputa, senza che gli scrittori stessi ne fossero sempre consapevoli, l'erudizione era sottoposta a fini politici; la serenità e la verità storica ne soffrivano non poco. Il Balbo, il Capponi ed il Capei, inclinando chi piú da un lato, chi piú dall'altro, vennero poi a sostenere opinioni assai temperate, e con la loro dottrina portarono sulla questione moltissima luce.

In vero la difficoltà principale nasce tutta dal perché pochi si vogliono persuadere, che nel Medio Evo, come in tutta quanta la storia moderna, si trova sempre l'azione vicendevole, continua di due popoli, latini e germanici, e che delle piú grandi rivoluzioni politiche, sociali, letterarie, non è mai possibile dar tutto il merito ad uno di essi solamente. Anzi là dove sembra piú evidente che si tratti dell'assoluta prevalenza d'uno di essi, bisogna andare tanto piú guardinghi, e cercar la parte che spetta all'azione dell'altro. A pesare poi e misurare equamente i vicendevoli diritti, che essi hanno nella storia, meglio assai d'un sistema ispirato da idee politiche, riuscirebbe una descrizione imparziale. Quando, in vero, i fatti sono bene accertati, il sistema non è piú necessario, perché le idee generali risultano naturalmente da essi. Se qui fosse permesso portare il paragone di tempi molto diversi, si potrebbe osservare, che nel secolo xviii la letteratura francese invase la Germania, fu generalmente imitata, e ne derivò, per conseguenza inaspettata, un rinnovamento della letteratura nazionale tedesca. Sarebbe egli necessario, per esaltare il carattere nazionale di questa letteratura, sostenere che quella grande diffusione dei libri francesi fu sognata dagli storici? Piú tardi la bandiera francese entrò in quasi tutte le città della Germania, ed il popolo tedesco fu umiliato, calpestato. Da quel momento noi vediamo lo spirito nazionale tedesco rinnovarsi e ridestarsi vigorosamente. Dovremo dire che questo ridestarsi fu opera dei Francesi? Non val meglio descrivere gli eventi come seguirono, lasciando da un lato le teorie prestabilite? Comprendo bene l'abisso che sépara questi fatti recenti dagli antichi; ma pure mi sembra che avesse ragione il Balbo, quando osservava, che l'essersi potuto disputare sull'origine dei Comuni con tanto ardore e con tanta dottrina, cosí lungamente dalle due scuole opposte, dimostrava che la verità non era né tutta da un lato, né tutta dall'altro. Noi accenneremo dunque rapidissimamente le conclusioni che ci paiono piú ragionevoli.

Ognuno sa che, dopo le prime incursioni dei barbari, i quali devastarono l'Impero e piú volte saccheggiarono anche Roma, vi furono in Italia cinque vere e prorie invasioni. Odoacre con una banda di ventura, composta di gente raccolta in paesi diversi, alla quale si dette generalmente il nome di Eruli, fu colui che vibrò il colpo di grazia nell'anno 476, e divenne padrone d'Italia per piú di dieci anni, senza quasi governarla, solo pigliando il terzo delle terre. Ma dalle sponde del Danubio s'era mossa una gente nuova, che portava il nome di Goti, divisi in Visigoti ed Ostrogoti. I primi, sotto il comando d'Alarico, avevano già prima assediato e saccheggiato Roma; i secondi vennero nel 489, comandati da Teodorico, e furono ben presto padroni di tutta Italia. Il regno di Teodorico fu molto lodato. I capi di questi primi barbari avevano spesso passato parte della loro vita servendo nelle legioni romane, e avevano qualche volta ricevuto educazione romana; sentivano perciò anch'essi una grande ammirazione per la maestà dell'Impero, che nell'ebbrezza delle loro vittorie venivano ora a distruggere. Teodorico ordinò il governo; prese, secondo il costume barbarico, un terzo delle terre pei suoi; lasciò ai Romani le loro leggi, i loro magistrati. In ogni provincia fu un conte che ne ebbe il governo, e giudicò gli Ostrogoti; i Romani s'amministrarono colle proprie leggi, e con esse erano giudicati da un tribunale misto delle due genti. Ma a poco a poco il governo di Teodorico divenne sempre piú duro e meno tollerabile ai Romani, che dopo la sua morte si sollevarono contro i suoi successori, e chiamarono in aiuto i Greci dell'impero d'Oriente. Una tal sollevazione peggiorò assai le loro condizioni, giacché i Goti, per sostenersi, cominciarono ad uccidere i Romani, a togliere la libertà e le istituzioni che avevano ad essi lasciate, ordinando un governo militare e assoluto. Questo governo trovarono Belisario e Narsete, quando vennero da Costantinopoli a liberare e riconquistare gl'Italiani; questo governo imitarono coi loro duchi o duci. Gli Ostrogoti avevano dominato l'Italia per cinquantanove anni (493-552), e i Greci la tennero ben altri sedici (552-568). Fu anch'esso un governo tutto militare, sotto il generalissimo Narsete; i duci, i tribuni, i giudici minori erano nominati in nome dell'Impero. I nuovi venuti presero al solito una parte delle terre, che ora andò probabilmente al fisco. La loro tirannia fu diversa, perché non di barbari, ma di uomini corrotti e quindi anche piú dura.

I Greci avevano cacciato i Goti, ed i Longobardi vennero a cacciare i Greci. A poco a poco essi progredirono nelle loro conquiste, ed in quindici anni furono padroni di tre quarti d'Italia, lasciando solo alcuni lembi di terra, piú specialmente verso il mare, ai Greci, che non poterono mai cacciare del tutto. Misero profonde radici nel suolo italiano, dove restarono per piú di due secoli (568-773), dominando con assai dura tirannia. Presero il terzo delle terre, tennero quasi come servi gl'Italiani, non rispettarono né le leggi, né le istituzioni romane. Sotto di essi parve distrutta l'antica civiltà, e s'apparecchiarono i germi della nuova, i cui primi passi restano ancora in una grande oscurità. Tutte le dispute intorno alle origini dei nostri Comuni cominciarono appunto dall'esame delle condizioni in cui erano gl'Italiani sotto i Longobardi. Se l'antica tradizione fu spezzata, e ne cominciò un'altra del tutto nuova, ciò fu sotto il dominio longobardo. Se essa, invece, fu solo profondamente alterata, per poi rinvigorirsi e rinnovarsi, ciò dovette seguire nel medesimo tempo.

Se non che, là dove il dominio greco era restato, una piú incerta e debole signoria lasciava le popolazioni meno oppresse; laonde sin dal settimo e ottavo secolo si videro sorgere a nuova vita alcune città. Il Comune incominciò presto a formarsi anche in Roma, dove era assai cresciuta la potenza del Papa, nemico dei Longobardi, i quali, venuti fra noi di religione ariana, cominciarono col non rispettare i vescovi cattolici, né il clero minore, nessuna cosa sacra o profana, e piú tardi minacciarono la stessa Città eterna. Cosí, per salvarsi da un nemico esoso e vicino, il Papa invitava i Franchi a liberare la Chiesa e l'Italia dalla oppressione, ed essi vennero fra noi, condotti prima da Pipino, poi da Carlo Magno, che cacciò i Longobardi, rafforzò con donativi di terre il Papa, il quale poté sin d'allora apparecchiare il suo dominio temporale. In compenso di ciò, Carlo fu coronato imperatore, e venne cosí restaurato l'antico impero d'Occidente col nuovo impero dei Franchi, cui successe poi il sacro Impero romano-germanico.

Ed allora il disfacimento delle istituzioni barbariche, che già era cominciato in Italia, divenne assai piú rapido. Si vide nella società italiana un fermento, che annunziava il principio d'un'èra novella. Si trovavano accanto, e mescolate insieme, istituzioni, consuetudini, leggi, tradizioni longobarde, greche, franche, ecclesiastiche e romane. Segue un lungo e violento tumulto d'uomini e di cose, in cui il nome italiano appena si ode. Tutte le vecchie e le nuove istituzioni sembrano lottare fra loro, ed invano cercano impadronirsi della società, quando a un tratto sorge il Comune, che risolve il problema, e l'èra delle libertà incomincia. Come dunque è sorto il Comune? Ecco la stessa domanda, che continuamente ricomparisce.

Noi non vogliamo qui seguire quei dotti, che dalla frase incerta d'un antico codice, dalla dubbia espressione d'un cronista hanno voluto cavare ingegnose e complicate teorie. È certo che l'Impero romano era un aggregato di municipî, i quali s'amministravano da sé stessi. La città era la molecola primitiva, la cellula, se cosí può dirsi, della grande società romana, che incominciò a sfasciarsi, quando nella capitale venne a mancare la forza di attrazione necessaria a tenere unito un cosí gran numero di città, separate da vastissime campagne, deserte o popolate solo da schiavi che le coltivavano. I barbari, invece, non conoscevano il vivere cittadino, ed il Gau o Comitatus (onde la parola contado), in cui erano appena embrioni di città o piuttosto villaggi, che qualche volta venivano bruciati, nel trasferirsi delle genti da un luogo ad un altro, era come l'unità primitiva della società germanica. Il conte coi suoi giudici comandava e giudicava nel comitato; i capi delle schiere erano a lui sottoposti, e divennero poi baroni. Piú comitati uniti formarono i Ducati o Marchesati, in cui l'Italia fu allora divisa, e tutto il popolo invasore era comandato da un re eletto dal popolo.

Quando adunque i popoli germanici si sovrapposero ai latini, il Gau si sovrappose alla città, che anzi divenne parte di esso. E i conti, come capi militari, comandarono la terra conquistata, della quale i vincitori presero un terzo. Cosí fecero i Goti; cosí fecero i Greci, ponendo i loro duci là dove avevano trovato un conte; cosí fecero i Longobardi. Se non che, la signoria di questi ultimi fu, massime nei primi tempi, assai piú dura, e la loro storia è molto oscura. Essi cominciarono coll'uccidere i piú ricchi e potenti Romani; presero, a quanto pare, il terzo non delle terre, ma della rendita, lasciando cosí i popoli oppressi senza proprietà libera, e quindi in una condizione anche peggiore. I Goti avevano lasciato i Romani vivere a lor modo, ma i Longobardi non rispettarono nessuna legge, nessun diritto, nessuna istituzione dei vinti. In tutti gli ufficî regi, in tutti gli atti pubblici, osserva a questo proposito il Manzoni, non si trova mai un personaggio italiano, nemmeno immaginario. Ma da un'assoluta tirannia, da una vera e propria soggezione, alla distruzione totale d'ogni legge, d'ogni diritto, d'ogni istituzione romana ci corre un gran tratto. Perché i Longobardi, che qualcuno fa ascendere a circa 130,000 uomini, avessero potuto davvero estinguere la vita romana per tutto, bisognerebbe supporre un'azione governativa cosí ordinata, disciplinata, costante, permanente, che sarebbe irreconciliabile con lo stato barbarico di quella gente. Come potevano essi, incapaci di comprendere la vita romana, inseguirla per tutto, ed estinguerla? Ammesso pure, quistione del resto anch'essa disputata, che ai Romani non fosse lasciata nessuna proprietà libera; ammesso che il diritto romano non fosse stato legalmente riconosciuto mai, né rispettato da' Longobardi, non ne viene per conseguenza, che quel diritto, che ogni avanzo di civiltà romana fosse allora distrutto. Piú giusta assai e piú credibile sembra l'opinione di coloro i quali sostennero, che i Longobardi, venendo in Italia, pensassero molto piú a sé che agl'Italiani, pei quali non provvedessero legalmente nulla, contentandosi di tenerli sottoposti al loro arbitrio. Cosí i vinti, nelle loro relazioni private, e dovunque l'azione del governo barbarico non arrivava, poterono continuare a vivere col diritto romano, con le loro secolari consuetudini. I Romani ed i Longobardi restano, in vero, sulla terra italiana come due popoli fra loro estranei; la fusione tra vinti e vincitori, altrove cosí facile, dopo due secoli si dimostra in Italia sempre difficile. La tenacia e la persistenza della stirpe latina fra di noi è tale, che i vinti possono piú facilmente essere ridotti in ischiavitú o uccisi, che perdere la personalità loro. Infatti, appena che la necessità delle cose e il lungo convivere avvicinano i vincitori ai vinti, diviene inevitabile ai barbari far larghe concessioni alla civiltà dei Latini, che par sempre estinta e sempre si ritrova in vita. Come comprendere altrimenti quel piegarsi, a poco a poco, del diritto longobardo sotto la forza maggiore del diritto romano; come spiegare quella specie di nuovo diritto che sorge col tempo, e che il Capponi chiama quasi edifizio romano su germaniche fondamenta?

A misura che i Longobardi si fermano stabilmente in Italia, essi cominciano a vivere nelle città, che non poterono mai distruggere del tutto; cominciano a desiderare una proprietà stabile, e però, al tempo del re Autari, invece del terzo dei frutti, presero una parte anche maggiore delle terre. Il che, se da un lato aggravò la condizione dei vinti, dall'altro, lasciando ad essi una libera proprietà, la migliorò grandemente. E se, come osserva il Manzoni, noi non troviamo alcun regio ufficiale, né grande né piccolo, di sangue romano, è certo del pari che i Longobardi avevano pure bisogno di amministratori, di costruttori, di artefici, e dovettero perciò ricorrere ai Romani, in ciò tanto piú abili di loro. Il che fece che le antiche Scholae o associazioni di Arti si mantennero in vita per tutto il Medio Evo, come sappiamo anche dei maestri comacini, alla cui opera spesso ricorsero i vincitori. Per quanto rozza e scomposta fosse la forma, in cui queste associazioni poterono resistere all'urto barbarico, pure erano un elemento dell'antica civiltà, di cui in qualche modo mantennero il filo non interrotto. Intorno ad esse rimanevano pure, come abbarbicati, altri avanzi e tradizioni della stessa civiltà, e quando ogni altra forma di governo, ed ogni protezione mancò agli abitanti delle città, quelle associazioni poterono pigliar qualche cura del pubblico bene. Lo stesso antico municipio, che si trovò in sul principio abbandonato alle proprie forze, non chiuse qualche volta le porte della città ai barbari, difendendosi, quasi governo indipendente? Non riuscí qualche volta a respingerli? Vinto, domato, calpestato, si può supporre che fosse per tutto ugualmente distrutto, scomparso per fino dalla memoria dei Latini, in modo da doverlo supporre, quando torniamo a vederlo, risorto per opera dei popoli germanici, o sia di popoli che non avevano conosciuto le città prima di venire fra noi? Non cominciarono le città greche del mezzogiorno d'Italia a risorgere fin dal VII e VIII secolo, al tempo cioè dei Longobardi, e certamente non per opera di tradizioni germaniche? Non sorse nello stesso tempo il Comune romano? E se gli antichi municipî, caduti sotto i Longobardi, e quindi piú crudelmente oppressi, aspettarono ancora quasi quattro secoli, non seguirono allora anch'essi l'esempio delle città sorelle? Che significa la tradizione tanto diffusa, che solo nella greca Amalfi, esempio d'indipendenza e libertà alle altre repubbliche, Pisa poté trovare e prendere colla forza il volume delle Pandette romane, che conservò come il suo piú prezioso tesoro? Tutta la storia posteriore del Comune non è forse una lotta continua della risorta gente latina contro gli eredi della gente germanica? Che se la civiltà latina era stata totalmente distrutta, strano davvero sarebbe che i morti si levassero poi a combattere ed a battere i vivi. A noi dunque par chiaro che i Longobardi nulla lasciarono per legge ai vinti, ma che pur non poterono realmente toglier loro ogni cosa; molto tollerarono o non videro, e la tradizione, la consuetudine, la persistenza della razza mantennero vivi gli avanzi della civiltà latina. Cosí solo si riesce a spiegar come, dopo una lunga e dura oppressione, la quale sembrava avere distrutto ogni cosa, non appena che incominciò a seguire qualche strappo in quella forte catena di barbari, che stringeva cosí crudelmente le popolazioni italiane, subito risorsero le istituzioni latine, e riguadagnarono il terreno perduto.

La società barbarica aveva non solo una forma, ma anche un'indole essenzialmente diversa dalla latina. Quello che s'è chiamato individualismo germanico, a differenza della sociabilità latina, era il suo carattere predominante. Si osserva una tendenza costante a dividersi in gruppi separati e indipendenti. Era un corpo il quale, quando perdeva quella forza d'unione e di coesione, che gli veniva dal moto e dall'impeto della conquista, subito si sminuzzava, si sgretolava. Dalla vita nomade e selvaggia, dal sangue stesso pareva che i barbari avessero ereditato una personalità e indipendenza eccessiva, che rendeva loro difficile il sottomettersi lungamente ad una comune autorità. Cosí colla pace cominciavano subito a manifestarsi i germi d'una divisione che li indeboliva. In fatti, quando i Longobardi s'ebbero assicurata la conquista di quasi tutta Italia, la divisero in trentasei Ducati, governati da duchi indipendenti e signori assoluti in ciascuno di essi. Sotto i duchi erano qualche volta i conti, che abitavano le città secondarie, e comandavano nei Comitati; nelle città ancora piú piccole si trovano spesso gli sculdasci. Duchi, e sculdasci giudicavano, secondo il diritto longobardo, in compagnia dei giudici assessori, che sotto i Franchi si maturano negli scabini. I capi delle schiere, poco a poco, si resero padroni di castelli e ne divennero poi signori quasi indipendenti. V'erano i gasindi uffiziali regi, anch'essi potentissimi. E come i duchi finirono col dichiararsi indipendenti dal re, cosí il conte e gli sculdasci desideravano indipendenza dal duca, sebbene ancora non vi riuscissero. Pei vinti non v'era, nel primo secolo della conquista, diritto né protezione riconosciuta, e neppure l'autorità del clero e dei vescovi veniva rispettata. L'oppressione fu cosí dura, che nella storia del dominio longobardo, sembra che il popolo oppresso non esista, ed in nessuna piú favorevole occasione si vede mai un serio e vero tentativo di rivolta. Non bastò a muoverlo neppure l'esempio delle città libere del mezzogiorno.

Se non che, come già abbiamo accennato, era cresciuta di molto la potenza della Chiesa, la quale non sapeva tollerare la superbia ed oltracotanza di questi barbari, che per essa avevano assai poco rispetto. Quindi il Papa pensò di cacciare uno straniero con un altro, ed invitò i Franchi a venire in Italia. Carlo Magno, primo fondatore del nuovo Impero non poteva avere pei Latini, dei quali s'era pur molto vantaggiata la rinascente civiltà de' suoi Stati, quel barbarico disprezzo rimasto inestinguibile nei Longobardi. Egli voleva estendere le sue conquiste, il suo potere; voleva rafforzare il Papa, per esser da esso consacrato e moralmente aiutato. Venne quindi in Italia, e la già disgregata famiglia dei Longobardi mal poté resistere alla forte unità franca, ringagliardita dalle sue vittorie. Invano i Longobardi s'erano già eletto un re e gli prestavano obbedienza, invano s'apparecchiarono alla difesa; dopo 205 anni di dominio sicuro e quasi non contrastato, il loro regno cadde per sempre. Nel 774 Carlo Magno era padrone della terra italiana, e l'anno 800 venne in Roma coronato dal Papa imperatore. L'Impero occidentale era cosí ricostituito e consacrato sotto nuova forma, separato affatto e indipendente da quello d'Oriente. I Franchi tolsero ai Longobardi tutto il loro dominio, meno il ducato di Benevento nell'Italia meridionale. Il Papa, coll'assumersi il diritto di consacrare l'Imperatore, da cui ricevette grandi donativi e promesse di terre, ne crebbe assai di potenza. Roma però si reggeva a libero municipio; anche Venezia, come le città greche del mezzogiorno, era già sorta a libertà. Tale era lo stato d'Italia dopo l'ultima invasione di barbari, quella cioè dei Franchi.

Questi nuovi padroni, al solito, presero il terzo delle terre; ma la condizione degl'Italiani fu allora assai migliorata. La legge romana venne riconosciuta come legge dei vinti, il che è segno evidente che nei due secoli di dominazione longobarda essa non era poi morta davvero. Carlo Magno sollevò di molto lo stato dei Latini, che innalzò qualche volta sino agli onori, ossia ufficî di nomina regia. Ma ciò che dette carattere proprio al suo regno in Italia, fu il nuovo ordinamento che vi fondò. Distrusse la potenza dei duchi, minacciosi troppo all'unità dell'Impero; sollevò in lor vece i conti. Neppure nelle Marche, o sia province limitrofe, nelle quali piú Comitati restavano uniti, egli volle un duca; ma vi pose invece i marchesi (Mark-grafen, Praefecti limitum). In questo modo l'antica unità del comitato o Gau ritornava ad esser la base della nuova società barbarica. Ma Carlo Magno andò piú oltre ancora; cominciò a dare ufficî, terre, possessi in beneficio, cioè a dire in feudo, e quindi sotto condizione d'un servizio militare obbligatorio. Questo fu il principio d'una rivoluzione sociale, cominciata forse prima di lui, ma portata ora a compimento col nome di feudalismo. Né solo l'Imperatore, ma i re, i conti, i marchesi, per avere buon numero di vassalli, dettero terre, rendite, uffici in feudo. Cosí si creò un numero infinito di nuovi potenti, vassalli, valvassori, e valvassini, che erano i minimi. A poco a poco la forma di tutta la società del Medio Evo divenne feudale: la terra, con gli uomini che la coltivavano, fu concessa con l'obbligo di prestare insieme con essi un servizio militare. I medesimi privilegi, i medesimi obblighi accompagnavano ogni concessione di dominî o ufficî, ed anche a questi era quasi sempre unita la concessione di terre o di rendite. Cosí quella tendenza della stirpe germanica a dividersi e suddividersi in piccoli gruppi, veniva soddisfatta, ed in pari tempo l'Impero, le città, la Chiesa stessa rivestivano forma feudale. I vescovi ben presto divennero anch'essi possessori di benefizî, e di grado in grado salirono a sempre maggiore potenza, fino a che li troviamo come altrettanti conti o baroni. Essi ricevono per sé e pei loro sottoposti la immunità dai tribunali e dalle leggi ordinarie, altro vantaggio inestimabile, che doveva contribuire a farli piú indipendenti, a creare grandi nuclei di popolazioni a loro sottoposte. Il feudalismo adunque è un nuovo ordinamento, una nuova aristocrazia affatto germanica, e nello stesso tempo è il principio d'una profonda rivoluzione nella società barbarica, rivoluzione che dovrà continuare, estendersi in mezzo a molte vicende. A poco a poco la Corona comincerà ad esentare i benefizî o feudi dei vassalli dall'autorità del conte, per dichiararli ereditarî, con una serie di leggi, che tendevano tutte a sollevare i minori potenti contro i maggiori, a dare sempre piú forza all'autorità regia, ma che riuscirono invece ad aprire la via del riscatto al popolo oppresso. Tutto ciò, per altro, non era anche visibile sotto Carlo Magno; egli ordinò il feudalismo, tenne unito e fiorente l'Impero, che poco dopo la sua morte (814) si sciolse in varî regni.

In Italia il dominio dei Franchi durò sino alla morte di Carlo il Grosso, seguita nell'888. E durante questo dominio di 115 anni, la rivoluzione da noi accennata seguí costantemente il suo cammino. Crescevano per tutto i benefizî o feudi, e crescevano del pari, d'anno in anno, le esenzioni. Si concedevano ai vescovi piú che agli altri, perché i benefizî dati ai laici, si trasmettevano agli eredi, e cosí li rendevano troppo potenti. Di tutto ciò, insieme coi vescovi, profittavano le città in cui essi abitavano. Dapprima vi dominava solo il conte, meno che nella parte di patrimonio regio, la quale era detta gastaldiale, perché vi comandava il gastaldo; poi aumentò la potenza del vescovo, ed allora un'altra parte fu esentata, e divenne vescovile. A poco a poco questa parte s'estese a quasi tutta la città: molte di esse si trovano infatti comandate dal solo vescovo. Cosí s'indeboliva la fibra, e, quasi direi, si smagliava la società barbarica, con un metodo utile a tenerla soggetta all'autorità suprema del re, se non vi fosse stato un popolo, che si credeva morto, ma che pure era vivo e vicino a sollevarsi contro i nobili, i re, gl'imperatori, contro i vescovi e contro i papi.

Due rivoluzioni, adunque, hanno luogo successivamente in favore della libertà, cominciate ambedue sotto i Carolingi, e continuate sotto i loro successori. La prima indebolisce e snerva la società barbarica, che in Italia trova un terreno poco adatto a fecondarla; la seconda apparecchia il sorgere dei Comuni. Colla morte di Carlo il Grosso cessa il regno dei Franchi e cessano finalmente le invasioni dei barbari. I popoli germanici s'erano fermati sulla terra italiana, e cominciavano ad incivilirsi. L'Italia però doveva ancora traversare una serie di rivoluzioni e d'anni tristissimi. Nello sciogliersi dell'Impero franco, s'erano visti conti e soprattutto i marchesi, i quali ultimi, riunendo piú comitati, erano come tanti duchi, sorgere a strane pretese, tentando di formare addirittura Stati indipendenti, e spesso finire col riuscirvi. Infatti, anche oggi, molte delle famiglie regnanti sono discendenti di conti e di marchesi franchi. Invano s'erano dati benefizî ed immunità per indebolirli affatto: la loro potenza non si poteva cosí presto estinguere. Ed in vero nella stessa Italia, dove la diversità del paese, l'indole tenace d'un'antica civiltà non mai scomparsa del tutto, che anzi cominciava adesso a rifiorire; dove il Papato ed i Greci bizantini avevano impedito l'assoluto trionfo della società germanica; nella stessa Italia sorgono pure conti e marchesi feudali a disputarsi la corona reale. Seguirono lunghi anni di nuove desolazioni e di lotte, che si chiusero col lasciare finalmente l'ambita corona in mano di re e d'imperatori tedeschi. Disputarono e combatterono dapprima Berengario del Friuli e Guido di Spoleto, con altri conti e marchesi italiani o stranieri, un re di Germania, due di Borgogna, e finalmente Ottone re di Germania, che restò vincitore. Furono piú di settanta anni di guerre continue, durante le quali, per la prima volta, regnarono in Italia re italiani, con dominio però sempre incerto e contrastato. S'ebbero poi circa quarant'anni di pace (961-1002), nei quali governarono Ottone I, II e III, e di nuovo un italiano, il marchese Arduino d'Ivrea, contese ai re tedeschi la corona d'Italia. Ma egli fu vinto nel 1014 da Arrigo di Germania, soprannominato il Santo, a cui successe Corrado della casa di Franconia o Salica.

Questi due sovrani tedeschi compierono la rivoluzione feudale da noi accennata, che i Carolingi avevano cominciata, gli Ottoni proseguita, e che pure non era bastata ad assicurare l'alto dominio dei re ed imperatori in Italia. In ogni modo, siccome gli Ottoni avevano moltiplicato a piú potere le esenzioni dei minori vassalli dall'autorità dei conti e dei marchesi, e moltissime città italiane avevano date ai vescovi, e siccome da tali e tante esenzioni venne assai agevolato il risorgimento dei Comuni, cosí è che nacque l'opinione di coloro i quali vorrebbero di questo risorgimento attribuire agli Ottoni il merito principale. Ma lo scopo degl'imperatori era stato ben altro, e non lo avevano raggiunto. Essi volevano diminuire la forza di quelli che potevano contrastar loro la corona, come di fatto fu minacciato nella sollevazione del marchese d'Ivrea. Per questa ragione Arrigo il Santo andò oltre nel sollevare i maggiori feudatarî a danno dei possessori di onori, che erano appunto i conti ed i marchesi, i quali ultimi furon da lui quasi annullati. Corrado il Salico portò quest'opera a maggior compimento, favorendo anche i minori feudatarî, e dichiarando ereditarî i benefizî. Da quel momento la vittoria dei re ed imperatori tedeschi sull'aristocrazia feudale fu assicurata, perché i vassalli, una volta padroni dei loro feudi, venivano sotto la dipendenza diretta della Corona, e cosí l'orgoglio dei grandi signori era fiaccato per sempre. Ma non era fiaccato il nuovo orgoglio popolare, divenuto tanto piú potente, quanto meno era stato avvertito.

È certo adunque che, per una moltitudine di fatti, le condizioni della gente romana erano andate continuamente migliorando; che la società feudale, per opera degli stessi sovrani, si sfasciava e sfibrava di giorno in giorno sempre piú; che la civiltà latina, per forza naturale delle cose, risorgendo, alterava, assimilava e smaltiva i principî della società germanica. Prima che le due stirpi si combattessero, le tradizioni dei vinti avevano piú volte combattuto e superato quelle dei vincitori, dai quali era stato già accettato in molte parti il diritto romano, quando i vinti d'una volta chiesero la sanzione dei loro municipali Statuti.

Gl'Italiani si trovavano in uno stato di fermento e trasformazione profonda, quando si videro i primi segni del risorgimento dei Comuni. Il dominio barbarico e l'Impero non s'erano potuti mai nella Penisola impadronire davvero di tutta la società, e quando, ordinato il feudalismo, questo pareva che dovesse diffondersi per tutto, ed assicurare agl'Imperatori tranquilla signoria fra noi, sorgevano invece a un tratto nuove cagioni di pericolo e di lotta. Il Papato ed il clero salirono a sempre maggiore e piú pericolosa potenza; le immunità, per tema dei laici, date sempre piú largamente ai vescovi, li resero come signori temporali dipendenti dagl'Imperatori, e dal Papa invece dipendevano come dignitarî spirituali: ebbero in fatti doppia investitura. Da ciò un disordine grande, una corruzione scandalosa nella Chiesa, essendosi i vescovi mutati in altrettanti conti feudali, che comandavano nelle città, guerreggiavano fuori, tenevano corte bandita, si davano a tutti i piaceri. I Papi volevano rimettere la disciplina, reggere con assoluto imperio i vescovi, nominarli senza trovare ostacolo di sorta; ma a ciò si opponeva l'Imperatore, perché il temporale dominio dei vescovi li metteva logicamente anche sotto la sua autorità. Cosí cominciò la tanto romorosa lotta per le investiture, tra il Papato e l'Impero, lotta in cui la vittoria fu lungamente contrastata. E intanto né la Chiesa, né l'Impero, né il feudalismo potevano impadronirsi esclusivamente dell'indirizzo sociale, e le continue dispute crescevano il disordine. In tale stato di cose l'autorità dei vescovi s'andò indebolendo anch'essa, ed i Comuni che, nel tempo delle sedi vacanti, imparavano di necessità a reggersi da sé, che vedevano le repubbliche del mezzogiorno assai fiorenti, che sentivano d'avere forze sempre maggiori pel cresciuto commercio e pel disordine feudale, capirono finalmente che era sonata per essi l'ora del riscatto. Né in quelle città dove restavano a comandare i conti laici, le cose andarono diversamente, giacché il parteggiare per l'Impero o per la Chiesa suscitava sempre un gran numero di nemici ai potenti, e mille aiuti ai deboli.

Nell'undecimo secolo, adunque, dall'un capo all'altro d'Italia sorgevano i Comuni, e una volta gustata la dolcezza del vivere libero, non fu piú possibile rimetterli in vassallaggio dei vescovi, né dei conti, né dell'Impero. Sorgendo, essi si trovarono ovunque circondati da un numero infinito di conti e duchi e baroni, piccoli e grossi, giacché la società feudale era ancora potentissima e padrona di tutte le campagne. Eredi del sangue germanico, esercitati alle armi, questi nobili combattevano, in nome dell'Impero, pe' suoi diritti, nel proprio interesse, contro la nuova società comunale, che ad un tratto si levava potente e minacciosa. Essi scendevano dai loro castelli a chiuder le vie al commercio dei Comuni; imponevano taglie; facevano minacce; volevano trattar da vassalli i liberi cittadini, che perciò, sdegnati, uscivano di tratto in tratto a far vendetta, e non di rado finivano con lo spianare i superbi castelli. Quei nobili invece che erano restati nelle città, stanchi adesso di vivere in mezzo ad uomini che non facevano piú distinzione alcuna di sangue o di casta, spesso emigravano per raggiungere i loro compagni. L'emigrazione fu tale che piú volte i cittadini, risentendone gravi danni, fecero leggi per impedirla. Il Papa incoraggiava i Comuni, perché a lui non doleva la scemata potenza temporale dei vescovi, e gli era necessario l'abbassamento dell'Impero. Cosí la lotta degli artigiani contro il feudalismo finalmente cominciava, e con essa la vera storia dei nostri Comuni.

Non bisogna però credere che il Comune sorgesse in nome dei diritti dell'uomo o delle libertà nazionali. Nulla di ciò. L'Impero era riconosciuto sempre come la fonte unica, universale del diritto. In fatti fino quasi a tutto il secolo xv, le città guelfe o ghibelline, nemiche o amiche dell'Impero, continuarono a scrivere in suo nome i pubblici atti. Le risorgenti repubbliche accettavano sempre l'alto suo dominio, e la loro dipendenza da esso, quasi direi che, chiedendo una nuova e piú generale esenzione, volevano solo essere come duchi o conti di sé stesse. Combattevano i nobili e combattevano l'Impero; ma dopo la vittoria, riconoscevano l'autorità dell'Imperatore, ed a lui chiedevano la sanzione delle conquistate libertà. Né i Papi desiderarono mai la distruzione dell'Impero, della cui protezione avevano spesso bisogno, che riconoscevano anch'essi erede legittimo dell'antica Roma, e quindi sorgente unica del diritto politico e civile: volevano bensí sottomettere il potere temporale allo spirituale. La teocrazia ed il feudalismo, il Papato e l'Impero sussistevano adunque e combattevano sempre, quando il Comune sorgeva. Esso dové lungamente ancora lottare contro ostacoli d'ogni sorta; ma era destinato a trionfare, a creare il terzo stato ed il popolo, che soli potevano dal caos del Medio Evo far nascere la società moderna. In ciò sta la sua principale importanza storica.

Capitolo I

LE ORIGINI DI FIRENZE

I

Le origini di Firenze sono assai oscure, né valgono a rischiararle i cronisti, i quali o ne tacquero o le avvolsero nelle leggende. Su di essi, sul valore e la credibilità diversa di ciò che dissero, si è recentemente scritto assai. Ma, per volerne saper troppo e per troppo sottilizzare, si è qualche volta finito col disputare lungamente e dottamente anche su cose che forse resteranno sempre ignote, né importava poi molto conoscere, e si è lasciato da parte ciò che piú era facile scoprire e piú necessario sapere. A questo modo si corre il rischio di formare intorno a tali scrittori una specie di scienza occulta pei soli iniziati, quando tutto quello che di veramente certo ne sappiamo, può esprimersi in poche parole.

Il Comune di Firenze sorse piú tardi di molti altri, e quindi piú tardi ebbe i suoi storici e cronisti, perché la storia del Comune si comincia a scrivere quando esso ha già acquistato coscienza della sua personalità. Cosí fu che nel secolo xii si cominciarono a raccogliere notizie annalistiche, le quali registravano alcuni fatti principalissimi seguiti in Firenze, con le date, i nomi di luoghi e persone, e nello stesso tempo si principiarono a formare elenchi dei Consoli, che erano il primo magistrato del Comune, ai quali s'aggiunsero poi i nomi dei Podestà, che successero ai Consoli. Questi magistrati mutavano d'anno in anno; quindi i loro nomi servirono anche di guida cronologica, e sotto di essi si registrarono ben presto i fatti principali della Città.

Di tali raccolte annalistiche c'è rimasto un frammento assai antico, che trovasi nella Vaticana, ed è scritto a tergo d'un foglio, il quale fa parte d'un codice di leggi longobarde. Sono in tutto diciotto notizie, che vanno dal 1110 al 1173, scritte da diverse mani, tutte però del secolo xii, non senza errori, e neppure in ordine cronologico. Esse sono nondimeno molto importanti, perché le piú antiche che abbiamo. Un'altra simile raccolta di notizie, piú lunga, ma assai posteriore, che va dal 1107 al 1247, si trova nella Biblioteca Nazionale di Firenze, in un manoscritto del secolo xiii .

Ambedue furono recentemente ripubblicate ed illustrate dal dottor Hartwig, che le intitolò Annales florentini I, ed Annales florentini II. Il codice in cui si trovano i secondi Annali, contiene anche il piú antico elenco di Consoli e di Podestà che ci sia rimasto, il quale va dal 1196 al 1267, e poté con nuove ricerche essere reso piú compiuto. Altri non pochi elenchi di notizie fiorentine dovettero certamente esservi, prima in latino, poi in italiano, i quali, girando di famiglia in famiglia, di mano in mano, s'andarono estendendo, correggendo, alterando, secondo i gusti, e qualche volta anche secondo la fantasia di chi li copiava. Ma da tutto quello che ci resta di siffatti elenchi, da ciò che ne troviamo ripetuto nei cronisti, si può quasi con certezza indurre che poco o nulla dicevano sulle origini del Comune. E ciò deve farci credere, che esso non nacque da un conflitto violento, da una vera e propria rivoluzione, che gli annalisti avrebbero certo ricordata, ma s'andò invece lentamente formando e svolgendo in mezzo a lotte di secondaria importanza.

Se noi oggi desideriamo conoscere le origini del Comune fiorentino, questo desiderio, come è naturale, dovettero averlo piú vivo ancora gli antichi. Essi non avevano però quell'arte e quel metodo critico, che fa cercare e spesso scoprire la storia piú remota ed oscura nei documenti, i quali allora dovevano essere di certo molto piú numerosi che non sono oggi. Si abbandonarono quindi piú facilmente alla propria fantasia, e cosí ne nacque una leggenda sull'origine della Città, che ben presto si diffuse assai largamente.

Il primo nucleo, da cui questa leggenda s'andò poi sempre piú svolgendo ed accrescendo, dovette formarsi nel secolo xii, perché essa è già nota al cronista Sanzanome, che la ricorda, ed egli scrisse ai primi del secolo xiii. Molto piú antica non si può supporre che sia, perché i fatti cui accenna, e le date cui allude, per quanto indeterminate e vaghe, la portano, come vedremo, a dopo del mille. Di questa leggenda si trovano ancora parecchie copie inedite nelle biblioteche fiorentine, e tre diverse compilazioni ne furono pubblicate per le stampe. La piú antica di esse, in latino, l'abbiamo in un codice della fine del secoloxiii, o dei primi del xiv . La seconda, che è in italiano, trovasi in un manoscritto lucchese, compilato fra il 1290 e il 1342; essa ricorda in un punto l'anno 1264, nel quale assai probabilmente fu compilata. Un'ultima e piú recente, conosciuta col titolo di Libro fiesolano, trovasi nella Marucelliana di Firenze, in un codice italiano, che ha la data del 1382, e fu scoperta dal signor Gargani, il quale la pubblicò sin dal 1854. L'Hartwig scoprí la seconda di queste compilazioni, che differisce dalla prima solo nella lingua, e le pubblicò tutte e tre col titolo di Chronica de Origine Civitatis , titolo che le dà il codice lucchese; altri codici la chiamano, invece, Memoria del nascimento di Firenze.

Tale è il genere di materiali, che sull'origine di Firenze trovarono, e di cui dovettero servirsi i piú antichi cronisti. Il primo di essi che ci sia rimasto, è il giudice e notaio Sanzanome, il quale, come già dicemmo, scrisse i suoi Gesta Florentinorum in sul principio del secolo xiii. Il suo nome s'incontra piú d'una volta nei documenti fiorentini dal 1188 al 1245. E se non si può affermare che questo nome si riferisca sempre ad una sola e medesima persona, è pur certo che lo stesso cronista ricorda d'essersi trovato presente alla guerra di Semifonte nel 1202, ed a quella di Montalto nel 1207. La sua opera trovasi del resto in un codice fiorentino del secolo xiii, non autografo, ma sincrono o quasi. Questo primo saggio di storia fiorentina, scritto in latino da un giudice e notaio, venuto in Firenze da qualche vicino castello, come suppongono il Milanesi e l'Hartwig, è di un genere a sé, diverso assai da tutti gli altri lavori dei cronisti fiorentini che vennero dopo. Dell'origine del Comune e della sua interna costituzione il Sanzanome non dice neppure una parola. Dopo avere sommariamente, vagamente accennato alla leggenda, incomincia colla guerra e distruzione di Fiesole nel 1125, cum eius occasione Florentia sumpsisset originem. Cosí egli ci mostra, sin dal principio, già costituito il Comune, co' suoi Consoli e capitani, e continua narrando le sue guerre co' vicini, in una forma gonfia e retorica, con date spesso incerte, qualche volta errate, con discorsi nei quali pretende imitare gli antichi storici romani. E per tutto ciò il suo lavoro fu da alcuni scrittori giudicato senza alcuna importanza storica. Ma critici piú imparziali e ponderati, come l'Hartwig, l'Hegel ed il Paoli, riconobbero invece che l'opera di questo notaio, quasi precursore degli umanisti del secolo xv, è un fenomeno letterario, nella sua solitaria apparizione, assai notevole, perché ci dà prova dell'antica cultura de' Fiorentini, e perché al di sotto della retorica c'è pur da ritrovare in essa non poche notizie e cognizioni assai utili sull'antica storia di Firenze.

Il problema quindi che allora si presentò a tutti gli altri cronisti, rimaneva sempre questo: come si poteva scrivere sui primi tempi di Firenze, una storia o anche una cronica, con le scarse e slegate notizie che si avevano? Il notaio Sanzanome se n'era uscito tacendo affatto delle origini, e poi gonfiando, a forza di retorica, la narrazione, con discorsi immaginarî, con descrizioni di battaglie, in cui la fantasia e l'imitazione classica avevano gran parte. Ma un tal metodo non poteva piacere, né poteva riescire a quegli uomini piú semplici, che, dopo di lui, volevano scrivere nella loro lingua parlata, e avevano una cultura minore o almeno assai diversa dalla sua. Rimanevano quindi con una leggenda e con pochi frammenti di notizie, il che non doveva certo soddisfare il loro patriottico orgoglio.

Fortunatamente per essi, allora appunto, cioè verso la metà del secolo xiii, avvenne un fatto che ebbe molta importanza letteraria, e che valse ad aprire ai cronisti fiorentini una strada nuova. Un frate domenicano, Martino di Troppau in Boemia, chiamato perciò anche Oppaviensis, e volgarmente noto col nome di Martin Polono, cappellano e penitenziario apostolico, piú tardi arcivescovo, scrisse un libro di storia, che, sebbene non avesse alcun notevole valore, ebbe pure una straordinaria e rapida fortuna. Era una specie di Manuale di storia universale, cronologicamente distribuita sotto i nomi dei varî Imperatori e Papi, sino al 1268. Piú tardi l'autore stesso la continuò per alcuni anni ancora, e vi premise una introduzione sulla storia anteriore all'Impero romano. Questo libro, meccanicamente ordinato, era pieno di aneddoti, di errori, di favole; ma l'aveva scritto un prelato eminente, animato da spirito guelfo. L'aver poi l'autore diviso i fatti del Medio Evo sotto i nomi dei Papi e degl'Imperatori, dava come una guida, un filo conduttore nel vasto laberinto. Certo è che il libro si diffuse subito in tutta Europa, ma specialmente in Italia, e piú che altrove in Firenze. «Un Fiorentino primo lo tradusse, e un Fiorentino, Brunetto Latini, primo lo adoperò», dice il prof. Scheffer Boichorst. Le biblioteche fiorentine ne conservano infatti un grandissimo numero di copie, in codici latini del secolo xiv, ed in altri dello stesso secolo hanno una traduzione italiana, che, secondo le ricerche degli studiosi, dovrebbe essere stata fatta a Firenze circa il 1279. Questo solo fatto basterebbe a provar luminosamente la rapida popolarità e diffusione dell'opera. In alcuni di coloro che a Firenze copiavano, e copiando rifacevano, come allora usava, questa traduzione, dovette facilmente nascere il pensiero d'introdurvi, qua e là, le piú importanti almeno fra le poche notizie che s'avevano sull'antica storia della Città. Ma siccome, verso la fine del secolo xiii, l'opera di Martin Polono si fermava, e le notizie fiorentine invece crescevano molto di numero e di estensione, cosí ne avveniva che, senza quasi pensarvi, tutti questi rifacimenti smettevano allora la storia universale, e continuavano con la fiorentina, a cui la prima veniva in tal modo a servire d'introduzione, con non piccola soddisfazione dell'amor proprio municipale.

Uno dei primi lavori che ci presenti Martin Polono tradotto, abbreviato, rifatto, con l'innesto d'alcune notizie fiorentine, è quello che ha per titolo: Le Vite dei Pontefici et Imperatori romani, che fu attribuito al Petrarca, e trovasi in parecchi codici fiorentini del secolo xiv. In esso però la storia di Firenze ha ancora un'importanza molto secondaria, tanto è vero che, essendo stato piú tardi raffazzonato e continuato fino al 1478, quando fu la prima volta pubblicato, si seguí sempre il metodo primitivo del Polono, dando cioè, via via, in compendio, le Vite degli altri Papi ed Imperatori. Ma non mancarono ben presto nuovi tentativi, nei quali si dette a Firenze una parte assai maggiore. Un manoscritto del secolo xiv, nella Biblioteca Nazionale di Napoli, esaminato la prima volta dal Pertz, ci presenta, in fatti, molto abbreviate le notizie di Martin Polono, dando assai piú larga estensione a quelle su Firenze, le quali arrivano sino al 1309. Qui si comincia a veder chiaro che le seconde son per l'autore lo scopo principale del lavoro, tanto che all'Hartwig poté sembrare opportuno estrarle dal codice, e stamparle a parte, come una delle fonti di cui assai probabilmente si valse il Villani. Lo stesso concetto apparisce molto piú chiaro in una Cronica attribuita a Brunetto Latini. Alcune delle notizie fiorentine che in essa si trovano, furono da lungo tempo e piú volte estratte, stampate, adoperate, specialmente la nota dei Consoli e dei Podestà, di cui anche l'Ammirato si valse, e una narrazione del fatto del Buondelmonti (1215), diversa assai da quella dataci dal Villani. Si poté subito affermare che l'autore scriveva nel 1293, perché in quell'anno appunto ricorda un fatto cui dice essersi trovato presente. Piú tardi la Cronica fu attribuita a Brunetto Latini, sebbene la narrazione arrivi fino ad un tempo in cui il maestro di Dante era certamente morto. Nelle sue dotte ricerche il dottor Hartwig scoprí in Firenze quello che, secondo ogni apparenza, dovrebbe essere l'autografo. Quantunque il codice sia mutilo, cominciando solo dal 1181, pure è doppiamente prezioso, perché ci pone dinanzi chiarissimamente il metodo con cui questo lavoro, al pari certo di molti altri simili, fu compilato. Una colonna nel mezzo contiene il solito rifacimento di Martin Polono; nei margini, fra le rubriche, qualche volta anche negl'interlinei, sono aggiunte notizie di storia generale, cavate da altre fonti, ma sopra tutto notizie di storia fiorentina.

E cosí s'arriva al 1249, dove c'è una lacuna che va sino al 1285, quando l'autore ripiglia la sua narrazione, per arrivare al 1303. In questa seconda parte però il suo lavoro muta affatto carattere. Egli non ha piú dinanzi a sé la guida di Martin Polono, e ne abbandona anche il metodo. Le notizie dell'Impero e della Chiesa diminuiscono sempre piú, e crescono invece quelle di Firenze, le quali non sono ora staccate ed introdotte capricciosamente nella narrazione, ma riunite e fuse insieme. Cosí, a poco a poco, noi abbiamo dinanzi una vera cronica di Firenze, che acquista un suo proprio valore indipendente. Il dott. Hartwig, che l'aveva scoperta, la credette in principio autografa, ma finí poi col dubitarne. La gran confusione del manoscritto; l'essere mutilo in sul principio; la lacuna di trentasei anni nel mezzo; la mancanza d'alcune notizie, che si trovavano negli estratti di essa, riportati da antichi scrittori; il vedere che molti di questi citavano un altro codice della Cronica, appartenuto alla Biblioteca Gaddi; tutto ciò gli fece a buon diritto affermare, che per risolvere definitivamente il problema occorreva prima trovare il codice gaddiano, da lui invano sino allora cercato. Il prof. Santini invece sostenne, in una sua tesi di laurea, che il codice gaddiano doveva essere la copia di quello scoperto dall'Hartwig, che egli giudicava essere l'originale mutilo. Non molto dopo la questione fu definitivamente risoluta da un altro alunno del nostro Istituto Superiore, il sig. Alvisi, il quale scoprí nella Laurenziana il codice gaddiano, che è in fatti una copia del secolo xv . In esso i varî brani, che nell'originale erano stati scritti in colonne separate, sono fusi cogli altri, ma in modo spesso arbitrario. Anche qui c'è la lacuna 1249-85, ma la Cronica, invece di cominciare dal 1181, comincia, come la prima compilazione di Martin Polono, da Gesú Cristo, primo e sommo Pontefice, e da Ottaviano imperatore. Cosí noi possiamo ora affermare, che nel codice della Biblioteca Nazionale di Firenze, abbiamo una vera fotografia del metodo seguíto nelle prime compilazioni di storiografia fiorentina. Con esso vediamo l'autore lavorar quasi sotto i nostri occhi.

Un altro esempio, ma assai piú imperfetto, di questi lavori, lo abbiamo nel codice lucchese qui sopra citato. L'autore ci dice esso stesso di averlo composto fra gli anni 1290 e 1342. Egli trascrive tutta la leggenda sull'origine di Firenze; prosegue quindi col rifacimento italiano di Martin Polono, incominciando da Ottaviano imperatore. Di tempo in tempo v'introduce però «molte cose, le quali pertengono ai fatti di Toscana e specialmente di Firenze... la maior parte si trovano in diversi libri di Toscana, e qual na piú, qual na meno». Arrivato cosí all'anno 1309, continua la sua narrazione, valendosi del Villani, che nel 1341 aveva già pubblicato alcuni libri della sua storia, e con questo aiuto va fino al 1342. Continua, riproducendo una descrizione latina di Firenze, scritta nel 1339, e poi, anche in latino, la introduzione che Martin Polono aggiunse alla sua storia. Il compilatore riconosce che l'ordine da lui seguíto non è né logico né cronologico; ma si scusa col lettore, dicendo che ha voluto porre insieme prima le parti italiane e poi le latine di questa sua opera, con l'intendimento però di meglio ordinarle piú tardi, e fonderle insieme, scrivendole tutte in latino, al che pare gli mancasse poi il tempo. Anche da questo codice furono estratte e stampate le notizie attinenti a Firenze. Il metodo seguíto dal compilatore, come si vede, è sempre lo stesso, quantunque piú meccanico e materiale del solito, perché non v'è alcuna intrinseca unione fra le parti diverse. Quello però che v'ha di nuovo, si è l'avere trascritta, nella sua integrità, la leggenda, per farla servire da introduzione alla storia di Firenze, esempio che fu poi, come vedremo, imitato anche da altri.

Per quanto però questo sistema di fondere la storia del Comune nella storia universale, potesse piacere all'amor proprio fiorentino, era tuttavia chiaro che la prima ne rimaneva come soffocata. Non mancarono quindi nel secolo xiv tentativi di esporla separatamente. Paolino Pieri incomincia la sua Cronica dal 1080, anno in cui anche gli altri cronisti dànno la prima notizia storica di Firenze, e continua, accennando poco dei Papi e meno degl'Imperatori, sino al 1305, raccogliendo le scarse notizie fiorentine «di piú cronache, di piú libri trovate, et di nuovo per me Paolino di Piero vedute et ad memoriam scripte». Simone della Tosa, che morí nel 1380, comincia invece i suoi Annali con l'elenco dei Consoli e Podestà (1196-1278), e poi va subito dalla morte della contessa Matilde (1115) fino al 1346, aggiungendo, verso la fine, alle magre notizie su Firenze, anche quelle della sua famiglia. Ma tali modestissimi sunti di poche pagine, meno che mai potevano contentare nel secolo xiv una città, che era già fra le prime d'Italia, che nel suo crescente orgoglio si poneva alla pari di Roma, e voleva nella sua storia veder qualche cosa di simile a quella dell'antica capitale del mondo.

Questo fu l'ambizioso problema che si propose di risolvere Giovanni Villani, come egli stesso ci narra. Mi trovavo, egli dice, a Roma pel Giubileo, l'anno 1300, ammirando le grandi memorie di quella città, leggendone le gloriose imprese, narrate «da Virgilio, Sallustio, Lucano, Tito Livio, Paolo Orosio e altri maestri d'istorie, che scrissero non solo i fatti di Roma, ma eziandio degli strani dell'universo mondo; presi lo stile e forma da loro». Ripensando che «per gli nostri antichi Fiorentini poche e non ordinate memorie ai trovino di fatti passati della nostra città di Firenze», e che essa «figliuola e fattura di Roma era nel suo montare e a seguire grandi cose, siccome Roma nel suo calare», deliberai «di recare in questo volume e nuova cronica tutti i fatti e cominciamenti della città di Firenze,... e seguire per innanzi stesamente i fatti de' Fiorentini, e dell'altre notabili cose dell'universo in brieve». Connettere quindi la storia di Firenze con quella del mondo, come già altri avevano fatto; ma in modo che non vi si perdesse, avesse anzi la parte principale, ecco quale doveva essere la via da tenere, secondo il Villani. Egli quindi non fa piú un lavoro meccanico e di mosaico; coordina, divide la sua storia in libri e capitoli, al modo degli antichi. Noi non conosciamo quali sono tutte le sue fonti, perché su questo argomento non si è fatto ancora uno studio compiuto. Sappiamo però con certezza che sono molte. Per la storia generale, Martin Polono resta sempre la fonte principale; ma vi si aggiungono i Gesta Imperatorum et Pontificum di Thomas Tuscus; la Vita di San Giovanni Gualberto ; le Cronache di San Dionigi, la cui traduzione italiana fu stampata (1476) prima dell'originale; il Libro del Conquisto d'Oltremare, che è una storia delle crociate, tradotta nel Medio Evo dal francese in quasi tutte le lingue.

Quale sia il gran valore del Villani per la storia fiorentina, a cominciare dalla fine del secolo xiii, tutti lo sanno e non è questo il luogo da parlarne. Quanto alle origini, le notizie veramente storiche che egli ci dà, sono assai poche. Incominciano al solito dal 1030, e vi si trova piú o meno tutto quello che è disseminato negli altri, non di rado coi medesimi errori, spesso anche colle stesse parole. Questa singolare somiglianza, che fu poi notata, pei primi tempi, fra tanti cronisti fiorentini, si spiegava facilmente quando si poteva supporre che gli uni avessero copiato dagli altri. Ma quando, il che seguiva piú volte, si poteva invece dimostrare che essa esisteva anche fra scrittori l'uno dall'altro affatto indipendenti, la soluzione del problema non era ugualmente facile. Fu questa la ragione per la quale il prof. Scheffer Boichorst, con giuste ed acute indagini, notando il fatto, mise innanzi l'ipotesi, che i varî cronisti avessero attinto ad una fonte comune, ora perduta. E siccome Tolomeo da Lucca, il quale aveva già finito i suoi Annali prima che il Villani cominciasse a colorire il proprio disegno, cita piú volte i Gesta e gli Acta Florentinorum, i Gesta e gli Acta Lucensium, cosí il critico tedesco dette il nome di Gesta Florentinorum a quella che sarebbe stata, secondo lui, la fonte comune dei cronisti fiorentini fino ai primi del secolo xiv. Una tale ipotesi, che in modo assai probabile, spiegava un fatto certo, il quale altrimenti rimarrebbe del tutto inesplicabile, venne generalmente ammessa. Quando però si vollero un po' troppo determinare la natura e i confini dei Gesta, la lingua non solo e l'anno in cui cominciarono, quello in cui finirono, ma anche lo stile ed il carattere preciso dell'opera e dell'autore, fu forza allora restare spesso sopra un terreno assai disputabile. Io perciò lascio da parte siffatte discussioni, estranee ad una sommaria esposizione. Ritengo bensí col prof. C. Paoli, che i Gesta non furono un lavoro veramente personale, ma piuttosto una raccolta di notizie fiorentine, assai magra in sul principio, la quale s'andò poi via via accrescendo di nuove notizie annalistiche e di nuove aggiunte, secondo che passava di mano in mano. Una di tali compilazioni, piú autorevole e piú nota (ora sfortunatamente perduta), dovette venire nelle mani di alcuni cronisti, che l'adoperarono, senza che l'uno sapesse dell'altro. Da questi copiarono poi parecchi di coloro che vennero piú tardi.

Il Villani incomincia dalla Torre di Babele e dalla confusione delle lingue, per darci subito la leggenda sulle origini di Firenze, che egli divide in capitoli, ed espone come se fosse una vera storia, portandovi però alcune alterazioni, di cui parleremo piú oltre. Segue poi la storia generale del Medio Evo, in cui, a cominciare dal 1080, l'autore introduce tutte quelle notizie che poté raccogliere su Firenze, e queste sono anch'esse piú o meno alterate da altre leggende assai diffuse allora nel popolo, da considerazioni spesso fantastiche, che egli vi aggiunge di suo. Che cosa di certo possiamo noi cavare da tutto ciò? In sostanza abbiamo solo una leggenda, ed un piccolo numero di notizie storiche di non dubbio valore, ma non senza errori, che galleggiano qui, come altrove, in un mare di notizie affatto estranee a Firenze, con brani di tradizioni o leggende mal sicure, con spiegazioni o considerazioni affatto arbitrarie. La prima questione da risolvere è perciò questa: quale è l'origine della leggenda, che valore ha essa? Se ne può direttamente o indirettamente cavare nulla di storico? La seconda è: si può con sicurezza determinare quale sia quel nucleo primitivo di notizie autentiche, che si dovevano trovare nei Gesta Florentinorum? La seconda almeno di tali questioni non presenta gravi difficoltà, perché, quando noi paragoniamo i varî cronisti, massime quelli che sono tra loro indipendenti, e ne caviamo tutto ciò che hanno di comune, spesso anche con identiche parole, su Firenze, lo scopo è in gran parte raggiunto. Ma dopo di ciò, e dopo che s'è cercato di cavar qualche costrutto (assai scarso, come vedremo) dalla leggenda, quello che rimane di certo è ben poco. E però bisogna assolutamente aiutarsi con tutti quanti i documenti pubblici o privati, che possono trovarsi negli archivi, colle indagini dei dotti moderni sulla storia medioevale in genere, e su quella di Firenze in particolare. Queste ultime, incominciate già dall'Ammirato, furono con ardore proseguite nel passato secolo dal Borghini, dal Lami, da molti e molti altri eruditi fino ai nostri giorni. I resultati definitivi però di sí lunghe indagini e di sí vasta dottrina, rimasero sempre scarsissimi. La prova ne è, che l'illustre Gino Capponi, dopo alcune poche pagine d'introduzione alla sua storia di Firenze, è costretto, come gli antichi, a fare un salto sino alla morte della Contessa Matilde, ed incomincia, si può dire, a parlar del Comune, quando esso era già da un pezzo formato. Seguono dodici pagine, in cui si fa la storia di quasi due secoli, sino al 1215 circa, e solo dal secoloxiii in poi il racconto procede davvero ampiamente.

Ma ai nostri giorni la critica dei documenti medievali ha fatto, massime in Germania, uno straordinario progresso, e la questione è stata perciò ripresa in esame. Il primo che, con un metodo scientifico e con molta dottrina, si accinse all'opera, fu il D.r O. Hartwig. Egli studiò non solo tutto quello che s'era pubblicato, ma fece nuove indagini nelle biblioteche ed archivi italiani; ebbe dal D. Wüstenfeld appunti preziosi di nuovi diplomi, da questo scoperti in Toscana. Cosí poté nell'opera, che abbiamo già piú volte citata, darci una raccolta di preziosi documenti e di dotte dissertazioni, le quali servirono e serviranno di base alle future ricerche, e sarebbero anche meglio note e pregiate, se fossero state scritte in una forma piú popolare. Molto ha cercato, moltissimo ha letto il prof. Perrens, che dedicò la sua vita alla storia di Firenze, scrivendo un'opera di cui sono già usciti otto volumi. Il primo dei quali, di 550 pagine, arriva solo alla metà del xiii secolo, e tratta quindi lungamente, dottamente delle origini. Di ciò gl'Italiani tutti debbono essergli grati; ma è pur forza riconoscere che allo zelo indefesso, alla vasta dottrina, ad una lettura veramente prodigiosa, non rispondono sempre la precisione delle notizie e la sicurezza del metodo. Trattandosi d'un tempo, pel quale bisogna tutto ricostruire sopra un assai scarso numero di fatti conosciuti, se questi non sono bene accertati, le conseguenze possono essere disastrose davvero. Quando, per esempio, egli cerca le prime origini dei Consoli, si fonda ancora sopra quel documento di Pogna con la data del 4 marzo 1101, in cui essi sono nominati, e non osserva che il Capponi, il quale pure è da lui continuamente citato, aveva dimostrato che quella data sí lungamente creduta esatta, era sbagliata, e bisognava mutarla in 4 marzo 1181, stile fiorentino, il che vuol dire 1182, stile moderno. Cosí egli vede i Consoli prima assai che nascessero. Altrove entra nella disputa molto intricata della giurisdizione, che i Fiorentini del xii secolo avevano sul proprio contado. Ripete cogli antichi cronisti che nel 1186 Federico I lo tolse loro del tutto, sino alle mura; ma che essi lo riebbero nel 1188. E aggiunge che, morto poi l'imperatore Federico nel 1190, il suo successore Enrico VI, «comme don de joyeux avénement, multiplie les privilèges». Né riflette, che il diploma citato a sostegno di quest'ultima asserzione, ha la data, da lui stesso riportata in nota, del 1187. Come può il lettore piú dipanare l'arruffata matassa? E, per addurre un altro esempio, diremo che l'autore ci dà come storia, la narrazione leggendaria sull'origine della festa della colombina, il sabato santo. I Fiorentini sono spinti alla crociata dall'Arcivescovo Ranieri nel 1099, cioè alcuni secoli prima che a Firenze vi fosse un arcivescovo. Pazzino dei Pazzi, pel valore dimostrato nella presa di Gerusalemme, ottiene la corona murale da Goffredo Buglione, il quale gli concede anche il privilegio di mutare la propria arme, adottando le croci e i delfini, cosa che i Pazzi fecero solo qualche secolo piú tardi. Egli torna in Firenze come un conquistatore, sopra un carro, di cui ci è data la descrizione; è accolto come un trionfatore romano dal popolo, dal clero e dai magistrati, in un tempo in cui il Comune non era ancora formato. Porta seco tre pietre cavate dal sepolcro di Cristo, le quali sono pietre focaie, da cui anche oggi si cava la scintilla, per accendere il carro della colombina. E tutto ciò è fondato sulla Storia genealogica del Gamurrini, che non ha valore alcuno. Al lettore parrà stranamente odioso l'essermi io qui fermato a notare alcuni errori d'un'opera, di cui sono primo a riconoscere i pregi, e della quale piú volte ho profittato. Ma dovevo spiegar la ragione, perché, pure lodandola, cosí di rado la cito. È un'opera che contiene di certo un vasto materiale storico, scritta con brio e chiarezza, che ha osservazioni spesso acute, e fa onore al suo autore, cui gl'Italiani debbono riconoscenza; ma se per tutto ciò è necessario studiarla, non è possibile valersene, senza un continuo riscontro delle fonti che cita.

E qui dobbiamo ricordare un altro lavoro assai piú modesto, del quale però ci siamo potuti piú francamente giovare. Il prof. Santini, che in alcuni suoi brevi scritti, pubblicati nell'Archivio storico italiano, aveva dato saggio di molto acume nelle indagini sulla storia primitiva di Firenze, adesso ha avuto il felice pensiero di raccogliere tutti quanti i documenti editi o inediti, che intorno al medesimo soggetto si trovano negli archivi fiorentini. Dopo averli copiati e riscontrati sugli originali, li ha già stampati in un grosso volume, che vedrà presto la luce. Sarebbe assai desiderabile che egli o altri potesse fare lo stesso per tutte almeno le città toscane, che tante relazioni hanno fra loro. Ma intanto il suo libro sarà una nuova e solida base alle indagini storiche fiorentine. E noi dobbiamo essergli doppiamente grati, perché ci ha consentito di studiarlo sulle bozze di stampa. Cosí ce ne siamo potuti valere prima che sia pubblicato, e lo citeremo assai spesso. Di altri lavori non parliamo qui, ma il lettore li troverà ricordati nelle note.

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