II

Lasciando per ora da parte i documenti e gli autori, veniamo a parlare della leggenda, la quale, come dicemmo, presenta un primo problema da risolvere o almeno da discutere. Essa si diffuse di certo assai largamente nel popolo. Anche la Divina Commedia (Par. xv, 125), ci descrive la donna fiorentina che, filando,

Favoleggiava con la sua famiglia

De' Troiani, di Fiesole e di Roma.

Ciò non ostante, la sua origine apparisce piú letteraria che veramente popolare. Non è infatti che uno strano amalgama di tradizioni classiche e medievali, la piú parte cavate da libri, e piú o meno arbitrariamente alterate, sull'assedio di Troia, la fuga di Enea, le origini di Roma, con le quali l'orgoglio municipale voleva connettere quelle di Firenze, raccogliendo cosí le poche ed incerte cognizioni o piuttosto tradizioni, che su di ciò si avevano. La leggenda comincia con Adamo, e subito lo abbandona, arrivando rapidamente alla fondazione di Fiesole, per opera di Atalante e di sua moglie, col consiglio di Apollonio astrologo. Fiesole fu la prima città, costruita nel luogo piú sano d'Europa, e di qui il suo nome: Fie sola. I loro figli si sparsero sulla terra, che andarono popolando. Il primo si chiamò Italo, e diede il suo nome all'Italia; il terzo si chiamò Sicano, e dette il suo nome alla Sicilia, che conquistò. Il secondo, Dardano, andò piú lontano a fondare la città di Troia. Qui la leggenda corre di nuovo rapida fino alla guerra di Troia, alla fuga d'Enea, alla fondazione di Roma, di cui Firenze è la figlia prediletta. Si procede quindi assai piú lentamente a parlare di Catilina, e su di esso (tanti sono i particolari che di lui si narrano) deve esserci stata una speciale leggenda, la quale o venne piú tardi a congiungersi con le altre, che formarono la cosí detta Chronica de origine Civitatis, o piú probabilmente si svolse prima da questa, e vi fu poi ricongiunta nelle compilazioni posteriori.

Dopo aver cospirato contro Roma, egli venne a Fiesole, dove i Romani lo inseguirono e lo combatterono, sotto il comando dei consoli Metello e Fiorino, il secondo dei quali morí in battaglia, ed il loro esercito fu pienamente disfatto presso l'Arno. A vendicarli però venne Giulio Cesare, il quale pose l'assedio a Fiesole, la distrusse, e poi sul luogo stesso dove era stato ucciso Fiorino, fu edificata una città nuova, che da lui prese il nome di Fiorenza. Catilina fuggí verso l'Appennino pistoiese; colà fu inseguito e disfatto. La mortalità fu tale e tanta, che ne scoppiò una peste, da cui venne il nome a Pistoia. Il nome delle città toscane è dalla leggenda spiegato sempre collo stesso metodo, Pisa viene da pesare. Ivi i Romani riscuotevano i loro tributi, i quali erano tanti che essi dovevano pesarli in due luoghi diversi; e questa è la ragione per la quale usarono il nome di questa città al plurale: Pisae Pisarum. Lucca viene da lucere, perché essa fu la prima città, che si converti alla luce del Cristianesimo. Dello stesso genere è l'origine del nome di Siena. Quando i Franchi vennero a combattere i Longobardi nel mezzogiorno, si fermarono in un luogo dell'Italia centrale, dove lasciarono tutti i loro vecchi. Cosí alla città che ivi poi sorse, fu dato il nome, usato anch'esso in plurale, di Senae Senarum. Firenze, invece, ebbe, secondo la leggenda, il suo nome da Fiorino, sebbene altri piú tardi lo facessero derivare da Fluentia, perché posta sul corso del fiume Arno; altri, dai molti fiori che crescono sul suo terreno. Essa fu costruita a similitudine di Roma, col Campidoglio, il Foro, il Teatro, le Terme, e fu perciò chiamata la piccola Roma. Suoi amici sono sempre gli amici di Roma, e nemici dell'una son sempre quelli dell'altra.

Dopo cinquecento anni, cosí continua la leggenda, Totila flagellum Dei venne a distruggerla, ricostruendo subito Fiesole, la città rivale. Qui è chiaro che si voleva dire Attila, perché questi ebbe il titolo di flagellum Dei, e fu nel Medio Evo il tipo vero del devastatore e distruttore di città. Ma esso non era venuto a Firenze, e perciò fu mutato in Totila, che v'era stato, ma che non aveva avuto lo stesso appellativo. A questo scambio dei due nomi, contribui anche la loro somiglianza, né è il solo esempio che quella età ci presenti di confondere Attila con Totila. Dante nella Divina Commedia, (Inf. xiii, 148-9) attribuisce ad Attila la distruzione di Firenze, là dove ricorda

Quei cittadin che poi la rifondarno

Sovra il cener che d'Attila rimase.

E s'allontana doppiamente dalla leggenda, perché secondo essa furono i Romani, che vennero a ricostruirla, e questa volta naturalmente a similitudine di Roma cristiana, con le chiese di S. Piero, S. Giovanni, S. Lorenzo ecc., come nella Città eterna.

Passarono cosí tranquilli piú di altri 500 anni, quando finalmente Firenze volle vendicarsi della sua eterna rivale, ed improvvisamente assalí e distrusse Fiesole. Ora noi possiamo qui osservare, che se Firenze fu la prima volta fondata ai tempi di Cesare; se piú tardi fu ornata di monumenti romani; se, trascorsi 500 anni, fu distrutta da Totila, e dopo piú di altri 500 anni essa distrusse Fiesole, è chiaro che la cronologia stessa della leggenda ci porta per lo meno al secolo xi. Se poi aggiungiamo che l'assalto e la parziale distruzione di Fiesole avvennero storicamente nel 1125, ne segue che la leggenda non può essersi formata prima del secolo xii, come già dicemmo.

Qui essa sarebbe finita, e dovrebbe aver principio la storia. Il Sanzanome infatti, che è il cronista piú antico, incomincia appunto dalla distruzione di Fiesole. Il Libro fiesolano però, che qualche volta inverte a capriccio l'orditura della leggenda, vi fa infine una giunta, che merita d'essere ricordata, perché dimostra quanto era l'arbitrio con cui questi strani racconti s'andavano formando. La giunta si riferisce agli Uberti, potenti cittadini di Firenze, stati sempre avversi al governo popolare della loro Città. Secondo la tradizione essi erano venuti di Germania cogli Ottoni. Questo però evidentemente non piaceva al compilatore del Libro fiesolano, che forse era amico degli Uberti, e però afferma, con un certo sdegno, che gli Uberti erano invece discesi dal sangue di Catilina, «nobilissimo re di Roma», il quale discese dai Troiani. Questi ebbe un figlio chiamato Uberto Cesare, a cui una moglie fiesolana diè 16 figliuoli, dopo di che fu da Augusto mandato a riconquistare la Sassonia, la quale s'era ribellata. Colà suo figlio Uberto Catilina sposò una gran dama tedesca, da cui nacque «il lignaggio del buon Ceto (Ottone) di Sansognia». Cosí è falso che gli Uberti siano «nati dallo Imperatore della Magna, ma la veritade è questa, che lo Imperatore è nato di loro». Con tale giunta, posteriore al resto della leggenda, si vede che l'autore vuol glorificare gli Uberti; ma, ricordandosi che essi furon sempre nemici del governo della Città, li fa discendere da Catilina e da una Fiesolana. Non potendo però neppure disconoscere affatto il loro carattere ghibellino, la loro origine germanica, se non sa decidersi a farli discendere dagli Ottoni, li muta in loro progenitori. Cosí sono soddisfatte la tradizione e l'ambizione o piuttosto l'adulazione del compilatore.

Uno studio delle fonti di questa leggenda, che non ha certo una vera importanza storica, ci condurrebbe fuori del nostro tema, perché non getterebbe nessuna nuova luce sulle origini di Firenze. Diremo solo che, oltre a Darete, De excidio Troiae, ed al comento di Servio a Virgilio, essa attinge alla Storia di Orosio, alla Storia Romana di Paolo Diacono ed alle altre parti della Historia Miscella, ecc. Ma, lasciando ora siffatto argomento, noteremo invece che, incominciando con essa le loro storie, il Villani ed il Malespini, non solo ricorrono a due diverse compilazioni, ma se ne valgono in modo affatto diverso. Ciò serve anche a provare che, se il Malespini deriva dal Villani, non ne è però sempre ed in tutto una copia. Egli si vale del Libro fiesolano, aggiungendovi di suo due interi capitoli, i quali contengono una vera e propria novella, che probabilmente deriva da qualche episodio della leggenda di Catilina. Piena di stranissimi anacronismi, essa è però scritta in una forma piú corretta e assai piú vivace di tutto il resto.

Fiorino, che qui diviene un re di Roma, aveva in moglie la piú bella donna mai vista, chiamata perciò Belisea. Dopo la disfatta e morte di suo marito, ella restò prigioniera d'un pessimo cavaliere, chiamato Pravus, che Catilina fece uccidere, pigliando seco Belisea, di cui s'era perdutamente innamorato. Ma essa trovavasi in preda al piú disperato dolore, perché non sapeva che cosa fosse mai avvenuto della sua bellissima figlia Teverina, che stava chiusa nella casa di Centurione, il quale l'aveva presa prigioniera e se n'era poi invaghito. Baciandone le bellissime trecce, egli esclamava: «Queste sono quelle che mi hanno incatenato, che io non vidi mai le somiglianti trecce di bellezza». Il giorno della Pentecoste, la madre andò a sentire la messa nella Canonica di Fiesole, dove a calde lacrime piangeva la figlia perduta. Colà fu sentita da una fantesca, che conosceva dov'era la giovinetta, e lo rivelò alla madre. Saputolo Catilina, assalí subito Centurione nel proprio palazzo, e dopo fiera battaglia lo prese prigioniero. Questi dovette allora la vita alle intercessioni di Belisea, la quale, avuta la figlia, volle salvarlo; ne curò le ferite, e lo indusse a partire, perché non fosse preda dello sdegno di Catilina. Persuaso a partire, e già salito a cavallo, Centurione chiese di rivedere Teverina, per darle l'ultimo addio. Ma quando l'ebbe vista, distese a lei la mano, la tirò sull'arcione, e se ne fuggí subito con le sue genti, menandola seco a galoppo. La madre tramortí per dolore, e Catilina «con tutta la sua baronía», con mille cavalieri e due mila pedoni, inseguí il traditore, che raggiunse a dieci miglia di distanza, nel castello di Nalde, dove pose l'assedio. Ma in quel momento gli giunse novella che i Romani correvano verso Fiesole, e fu costretto a ripartire subito, per arrivare colà prima che vi ponessero l'assedio. E cosí finisce questo singolare episodio, aggiunto alla leggenda, quando essa, perduto il suo primitivo carattere, pretendeva di essere una storia, e diveniva una novella.

Il Villani segue invece una piú antica compilazione, e non accoglie la novella di Belisea; conosce anche il Libro Fiesolano, e se ne vale, ma lo respinge come poco autorevole, appunto là dove abbiam visto che il Malespini lo segue. Ricordando infatti la pretesa discendenza degli Uberti da Catilina, egli aggiunge: «questo non troviamo per alcuna autentica storia, che per noi si provi». Oltre di ciò, volendo dare alla leggenda, per quanto gli è possibile, una forma piú autorevole e storica, vi porta piú d'una volta alterazioni, che cava ora dalle fonti medesime da cui essa ha attinto, ora da poeti e storici romani che cita, come Ovidio, Lucano, Tito Livio, e specialmente Sallustio, del quale si giova per aggiungere particolari storici ai racconti leggendari su Catilina. Resterà pur sempre un fatto psicologico eternamente istruttivo quello che ci presentano gli uomini di questo tempo, massime il Villani, il quale, contemporaneo di Dante, pratico degli affari, culto, intelligente, acuto osservatore, poteva a tanta intelligenza, cultura e buon senso, unire tanta e cosí puerile credulità.

Ma che cosa, in sostanza, si può cavare di certo dalla Chronica de origine Civitatis? Oltre all'ambizione, che avevano quasi tutte le città italiane, di ricondurre le loro origini ai Romani ed ai Troiani, essa vuol farci sapere che Fiesole, etrusca, fu l'eterna rivale di Firenze, romana, la quale non poté prosperare fino a che non l'ebbe distrutta. E però Catilina, nemico di Roma, è il difensore di Fiesole; Cesare, Augusto, gl'Imperatori sono i fondatori, difensori, restauratori di Firenze, fatta sempre a similitudine di Roma, chiamata piccola Roma, Augusta, Cesarea, ecc.; Totila o Attila, cioè i barbari che sovvertirono l'Impero, sono quelli che la disfecero. Piú tardi un'altra leggenda la fa ricostruire da Carlo Magno, il restauratore dell'Impero. Cosí almeno è narrato dal Villani e dal Malespini; ma non ve n'è traccia nel De Origine, e neppure nel Libro fiesolano, che, imbevuti di tradizioni romane, non conoscono ancora leggende cavalleresche. Infatti, nel darci questo racconto, il Villani dice: «Troviamo per le Croniche di Francia».

Le prime origini di Firenze furono attribuite alla etrusca Fiesole. E Dante stesso dice de' Fiorentini nel suo Inferno (xv-61-3):

Ma quell'ingrato popolo maligno

Che discese da Fiesole ab antico

E tiene ancor del monte e del macigno.

Niccolò Machiavelli nelle sue Storie, lasciando da parte (come aveva già fatto Leonardo Bruni) tutte le leggende medioevali, diceva che i mercanti fiesolani cercarono, fin da tempi remotissimi, di avere un emporio sull'Arno. Cosí a poco a poco s'andarono costruendo capanne, che poi divennero case, le quali formarono una città. Ma ciò sarebbe avvenuto per opera dei Romani, dopo le guerre cartaginesi. Altri suppose che ciò potesse essere avvenuto quando, secondo Livio (187 a. C.), Flaminio viam a Bononia perduxit Arretium. Ma questo primo periodo della storia di Firenze è oscurissimo. Strabone non la nomina neppure; la ricordano Tacito e Plinio, il primo dei quali racconta che insieme con altre città, essa mandò una deputazione a Tiberio, per impedire che la Chiana venisse immessa nell'Arno, dal che temevano una inondazione. Quaranta anni dopo, Floro la ricorda fra i municipia splendidissima, che piú soffrirono ai tempi di Silla, il quale la mise all'asta. Un'antica iscrizione in cui si leggeva: Jul[ia] Aug[usta] Flor[entia] fece ritenere che Firenze fosse colonia romana fondata da Augusto. Ma recentemente il Mommsen sostenne che questa iscrizione si deve riferire non a Firenze, bensí a Vienna nella Gallia Il Liber coloniarum (213.6) la pone tra le colonie dedotte dai Triumviri (colonia deducta a triumviris, adsignata lege Julia). E però qualche scrittore, riferendosi al primo triumvirato la dice fondata da Cesare (59 a. C.), gli altri, riferendosi al secondo, la ritengono fondata da Ottaviano Augusto (43. a. C.). Pure, non ostante il Liber coloniarum, non ostante la citata iscrizione e le parole di Floro, altri scrittori propendono a credere che Firenze sia colonia sillana, opinione cui sembra inclinare anche il Mommsen. Gli scavi recentemente fatti proverebbero, secondo il prof. Milani, direttore del Museo Archeologico di Firenze, che ai tempi di Silla la città aveva già non poca importanza. In conclusione però se si disputa sul primo fondatore della colonia, la esistenza di Firenze colonia romana, non solo è certa, ma gli avanzi dei monumenti ai nostri giorni scoperti ce la fanno sempre meglio conoscere. Le mura romane erano visibili ancora nel Medio Evo, ed alcuni avanzi se ne sono pure trovati ai nostri giorni.

Prima però di questa Firenze colonia romana, ve n'era stata di certo un'altra piú antica, quella cui si dovrebbero riferire le parole di Floro, quando la chiama Municipium splendidissimum. Ma di essa non si sa nulla di veramente certo, e finora si hanno delle ipotesi piú o meno fondate, ma solo ipotesi. Possiamo aggiungere che gli scavi piú recenti han messo in luce alcune tombe italiche assai antiche, ed alcuni frammenti architettonici che, come già dicemmo, si possono, secondo il prof. Milani, ritenere anteriori anche ai tempi di Silla.

Comunque sia di ciò, la Firenze colonia romana aveva la forma dell'antico castrum, un quadrato, traversato da due grandi strade perfettamente orientate, le quali s'incrociavano ad angolo retto nel centro di essa, e la dividevano in quartieri. Il Campidoglio era nel mezzo, là dove piú tardi fu la chiesa di S. Maria in Campidoglio; ivi era anche il Foro, nel luogo stesso dove fu poi il Mercato Vecchio ora demolito. V'erano inoltre nella Città un anfiteatro, che nel Medio Evo fu chiamato il Parlascio, del quale si vedono ancora le tracce presso il Borgo dei Greci; un teatro in via dei Grondi; un tempio d'Iside, dove ora è S. Firenze; le Terme nella strada che ora ne porta il nome. Non è quindi da maravigliarsi se questa città, che del resto era allora assai piccola, e tutta al di qua d'Arno, pretendesse chiamarsi piccola Roma, e cercasse le proprie origini nella tradizione romana. Tutto infatti ne' suoi monumenti parlava di Roma, e ciò trovava naturalmente eco nelle menti e nella fantasia fiorentina donde scaturí poi la leggenda. Anche oggi noi troviamo sempre nuovi avanzi di monumenti romani, esempi di architettura bizantina, nulla di veramente gotico o longobardo, appena qualche traccia di etrusco.

Come è naturale la Città s'andò col tempo allargando, e si formarono dei borghi fuori della mura, il piú grosso dei quali, al di là del fiume, congiunto ad essa per mezzo del Ponte Vecchio. Nella seconda metà del secolo xi, e propriamente nel 1078, se è esatta l'affermazione del Villani (IV, 8), alle palizzate che circondavano questi borghi furono sostituite le nuove mura. Si può credere che di ciò egli avesse notizia sicura, giacché, come sappiamo, sorvegliò alla costruzione del terzo ed ultimo cerchio delle mura incominciate nel 1299 (VIII, 2 e 31), e distrutte in gran parte ai nostri giorni, non restandone ora che alcuni brani.

A cominciare dalle invasioni barbariche una profonda oscurità circonda per lungo tempo la storia di Firenze, e le poche notizie che ne abbiamo, o sono di nuovo leggendarie affatto, o dalla leggenda alterate. Nel 405 Radagasio con un'orda di Goti, cui s'erano uniti altri barbari, si fermò in Toscana, ed assediò Firenze, le cui mura poterono resistere fino all'arrivo di Stilicone generale romano, il quale disfece quelle orde, ponendo a morte il loro capo. La resistenza fatta allora venne assai magnificata, e la vittoria di Stilicone fu attribuita a miracolo. La tradizione aggiunse, che il fatto seguí il di 8 ottobre, giorno di S. Reparata, e che perciò i Fiorentini iniziarono in esso le corse del pallio, e fondarono la chiesa di S. Reparata, cose tutte che sono invece di tempi posteriori. Questa leggenda perciò vale solo a provare, come durasse lungamente in Firenze la memoria dello scampato pericolo.

Segue un secolo d'assoluto silenzio, e poi la Chronica de Origine Civitatis, ci dà la notizia ripetuta qui anche dal Villani, che Totila, flagellum Dei, distrusse Firenze e fece riedificare Fiesole. Al che il cronista aggiunge l'altra leggenda, secondo la quale, dopo essere restata la Città cosí guasta e disfatta per 350 anni, Carlo Magno, imperatore, invitò i Romani a volerla insieme con lui riedificare, a similitudine di Roma, e cosí essa sorse con le chiese di S. Pietro, S. Lorenzo, S. Maria Maggiore ecc. come sono a Roma, e le fu dato anche un territorio di tre miglia intorno alle mura. Si vede qui che la ricostruzione di Firenze fatta, secondo il De Origine, subito dopo la pretesa distruzione operata da Totila, e da lui già ricordata piú sopra, gli sembra prematura, perché Firenze restò lungo tempo ancora in grandissimo abbandono; e quindi, senza troppo confondersi, registra anche la leggenda posteriore, che la fa costruire invece da Carlo Magno, il restauratore dell'Impero.

Ma che cosa possiamo noi trovare di vero in tutto ciò? Nel 542 Totila venne veramente in Toscana, e mandò parte de' suoi ad assediare Firenze. Giustino, che ivi comandava la guarnigione imperiale, chiese allora aiuto a Ravenna, ed all'avvicinarsi del soccorso verso la Città, Totila richiamò i suoi, ritirandosi nel Senese. Inseguito dagl'Imperiali, li disfece; ma non tornò poi contro Firenze, andando invece verso il mezzogiorno d'Italia. Tale almeno è il racconto di Procopio, seguito anche dai moderni. I Goti tornarono, è vero, piú tardi, e furono senza difficoltà padroni della Toscana e di Firenze, dove commisero molte crudeltà; ma non la distrussero. Questi sono i fatti, tutto il resto è aggiunto della leggenda, la quale, col suo linguaggio fantastico, voleva dire, che seguí un lungo periodo di oscurità e di oppressione, da cui i Fiorentini cominciarono a sollevarsi alquanto solo a tempo dei Franchi.

I Longobardi infatti occuparono la Toscana verso il 570, ed abbiamo due secoli di tenebre fitte. Troviamo ricordato un Dux civitatis Florentinorum, Gudibrandus, che essi vi posero; ma altro non sappiamo. In mezzo a molte calamità d'invasioni di guerre, di dura oppressione, non solo quel commercio, che aveva dato origine a Firenze, fu interamente distrutto; ma molte famiglie, per maggior sicurezza, dal piano si rifugiarono ai monti, e non pochi cercarono perciò ricovero in Fiesole, alla quale, allora come sempre, tornarono a vantaggio i danni di Firenze. E si arrivò a tal punto, che nella seconda metà dell'ottavo secolo, i documenti parlano di Firenze come se fosse divenuta un borgo di Fiesole. Ben presto però, sotto Carlo Magno, cominciarono tempi di maggiore ordine e tranquillità. Dai monti si discese allora di nuovo al piano; Firenze cominciò a prosperare a danno di Fiesole. E siccome i Franchi ai duchi longobardi sostituirono i conti, cosí anche Firenze ebbe un conte, la cui giudiciaria si estendeva per tutto il territorio della diocesi vescovile, che s'era formata sull'antica divisione romana. Questo era ciò che chiamavasi il contado fiorentino, il quale da un lato arrivava sino quasi a Prato, a un luogo detto i Confini, e di là verso il Poggio a Caiano si stendeva, girando dalla parte di Empoli, e confinando col Lucchese, col Volterrano, col contado fiesolano. Carlo Magno si fermò a Firenze e vi celebrò il Natale del 786; esso difese anche i beni della chiesa fiorentina contro le aggressioni dei Longobardi. Tutto ciò dette origine alla leggenda della riedificazione della Città per opera sua. Il Villani, con manifesto anacronismo, non solo vi aggiunge la concessione di molti privilegi immaginarî, ma fa in questo momento nascere il Comune, che invece tardò parecchi secoli ancora. «Carlo», esso dice, «fece assai cavalieri e privilegiò la Città, facendo franco e libero il Comune e i cittadini, e tutto il contado co' suoi abitanti tre miglia intorno, e tutti quelli che si trovavano ad abitare, anche i forestieri. Per la qual cosa molti vi tornarono, ed ordinarono che la detta Città si governasse a modo di Roma, cioè per due Consoli e per lo Consiglio di Cento Senatori». Ma questa non è che una giunta del cronista, piú arbitraria della leggenda stessa.

E non basta. Come Carlo Magno, cosí Ottone I, il restauratore dell'Impero in Germania, doveva essere fautore di Firenze, «perché», prosegue il cronista, «essa era stata sempre de' Romani e fedele all'Imperio». In Firenze l'Imperatore s'era fermato l'anno 955, nell'andare a Roma per la coronazione, cosí continua il cronista, facendo anche da lui concedere alla Città un contado di sei miglia, doppio cioè, ma non meno immaginario di quello che le aveva fatto concedere da Carlo Magno. Ottone, sempre secondo il Villani, mise pace in Italia, abbatté i tiranni, e molti de' suoi baroni rimasero in Lombardia ed in Toscana, tra i quali ricorda i conti Guidi e gli Uberti. Né riflette che alcune di queste famiglie toscane avevano un'origine piú antica assai, e che anche al suo tempo i nobili principali del contado avevano nome di Cattani lombardi, in memoria della loro origine longobarda. E dimentica di nuovo che Firenze non era allora una città libera, cui l'Imperatore potesse concedere un territorio, il quale, come vedemmo, faceva già parte della sua giudiciaria, e non poteva, verso Fiesole almeno, estendersi a sei miglia.

Un altro racconto favoloso è quello, narrato pure dal Villani, della distruzione di Fiesole nel 1010. Il giorno della festa di S. Romolo, i Fiorentini, deliberati a vendicarsi, sarebbero, colle armi celate sotto le vesti, entrati all'improvviso nella città rivale, dove, cavatele fuori a un tratto, e chiamati i compagni nascosti in agguato, avrebbero corso le vie, facendo man bassa su tutto, distruggendo le case, gli edifizî, eccetto il vescovado, la cattedrale, alcune altre chiese e la rocca, che non s'arrese. Fu dopo ciò promessa salva la vita a tutti coloro che volessero venire ad abitare in Firenze, di che molti profittarono. Cosí di due popoli se ne fece uno, e si riunirono anche le loro bandiere. Quella dei Fiorentini era rossa col giglio bianco, quella de' Fiesolani era bianca con una mezza luna celeste, e con esse si formò la bandiera rossa e bianca del Comune.

Questa unione di due popoli in uno fu, secondo il Villani, la causa principale delle continue guerre civili, da cui Firenze fu tanto travagliata, al che s'aggiunse anche l'essere la Città stata costruita «sotto la signoria e influenza della pianeta di Marte, che sempre conforta a guerra e divisioni». E di nuovo, quasi dimenticando d'averlo già detto ai tempi di Carlo Magno, con poco minore anacronismo, ripete che i Fiorentini allora «feciono leggi e statuti comuni, vivendo ad una signoria di due Consoli, e col Consiglio del Senato, ciò era di cento uomini, i migliori della Città, com'era l'usanza data da' Romani ai Fiorentini». È chiaro che egli non conosce le origini del Comune, è convinto solamente che venivano da Roma, e però di tanto in tanto le ricorda, là dove gli torna piú opportuno o gli pare meno improbabile che cominciassero. Di dove poi cavasse questa guerra e distruzione di Fiesole nel 1010, sapendo pure che il fatto era avvenuto invece nel 1125, come egli stesso racconta a suo luogo, non è facile dirlo. Il piú probabile è che, avendo nella leggenda trovato la guerra e distruzione di Fiesole piú di 500 anni dopo la distruzione di Firenze, per opera di Totila, il quale venne 500 anni dopo la fondazione della Città, il cronista ripeté due volte il fatto della distruzione, cioè nel 1010 e nel 1125, soddisfacendo cosí prima alla leggenda, che, in un modo del resto assai vago, lo aveva rimandato indietro, e poi alla storia, che ai suoi tempi era assai nota. Quanto poi alle ragioni della guerra civile, cercate nella forzata unione di due popoli avversi, si può osservare che per molto c'entrava davvero la diversità del sangue germanico dei nobili dal sangue latino del popolo, cosa che il cronista forse sentiva e non capiva.

Certo è che, dai Franchi in poi, Firenze continuò sempre a prosperare, sebbene assai lentamente. Il suo territorio, è vero, fu, come scrive il Villani, tutto incastellato da baroni feudali di origine germanica, ad essa avversi, molti de' quali trovavano sicuro ricovero anche in Fiesole, di dove cercarono danneggiarla. Ma, ciò non ostante, il vantaggio d'una posizione geografica sulla via di Roma, assai favorevole al commercio, si faceva sempre piú sentire. Sin dall'825 l'imperatore Lotario, nelle sue Costitutiones olonenses, la destinava, con altre sette città italiane, ad essere sede d'una scuola pubblica, il che già ne dimostrava l'importanza. Oltre di ciò, gl'Imperatori tedeschi vi si fermavano quasi sempre, ogni volta che andavano a coronarsi in Roma. Piú spesso e piú lungamente vi si fermavano i Papi, quando, il che succedeva di frequente, i tumulti popolari li cacciavano da Roma. Vittore II morí a Firenze nel 1057, dopo avervi due anni prima tenuto un Concilio; nel 1058 vi morí Stefano IX; tre anni dopo Niccolò II e i cardinali vi restarono sino alla elezione di Alessandro II. Piena di tradizioni e di monumenti romani, in continue relazioni con la Città eterna, essa ne sentí fin dai primi tempi l'influenza, manifestando quel carattere religioso e guelfo, che apparisce sempre piú chiaro in tutta quanta la sua storia. Molte sono le chiese che dentro o vicino alla Città sorsero in sul finir del secolo x. La costruzione poi di un edifizio come quello di S. Miniato al Monte, in su i primi del secolo xi, massime se si aggiungono le chiese che sorsero poco prima o poco dopo, è prova manifesta di cominciata prosperità e di zelo religioso. Ed in vero Firenze divenne allora uno dei centri piú importanti di quel movimento della riforma dei chiostri, che, incominciato da Cluny, si diffuse poi largamente nel mondo. S. Giovanni Gualberto di famiglia fiorentina, morto nel 1073, fu l'iniziatore della riforma benedettina, che prese il nome da Vallombrosa, dove egli fondò un eremo assai celebrato, sottoponendo alla stessa regola altri non pochi conventi vicini a Firenze.

Questo zelo religioso e monastico si accese ben presto cosí vivamente nella Città, che l'accusa di simonia lanciata contro il suo vescovo Pietro da Pavia, sollevò tutto il popolo. I monaci affermavano che esso aveva avuto il suo alto ufficio per favore dell'Imperatore, del duca Goffredo e di sua moglie Beatrice, favore che sarebbe stato ottenuto pagando grossa somma di danaro. La moltitudine seguiva i monaci, e la contesa durò cinque anni (1063-68), non senza spargimento di sangue, tanto s'erano infiammate le passioni. Il vescovo adirato da queste accuse, imbaldanzito dalla protezione che aveva dal Duca, fece, armata mano, assalire i monaci nel convento di S. Salvi, presso Firenze. S. Giovanni Gualberto, il promotore primo dell'agitazione, n'era per sua fortuna partito; ma i sacri altari vennero manomessi, e parecchi dei monaci ivi presenti furono feriti. Tutto ciò doveva naturalmente portare esca al fuoco, e S. Giovanni Gualberto, che già predicando nelle vie della Città, aveva infiammato gli animi, ruppe adesso ogni freno, ed arrivò sino a dire che i preti consacrati dal vescovo simoniaco non erano veri preti. L'esaltamento giunse a tale, che si afferma (cosa certo singolare, ma pur credibile in tempi di viva fede religiosa), che circa mille persone preferirono morire senza i sacramenti, piuttosto che riceverli da preti ordinati dal vescovo simoniaco. Invano papa Alessandro II cercò calmare gli animi; invano mandò a tal fine il pio, dotto ed eloquente S. Pier Damiano. Questi venne o portar parole di pace, che poi ripeté nelle sue lettere indirizzate: Dilectis in Christo civibus florentinis. Biasimava la simonia, ma biasimava anche il prestar troppo facile orecchio alle accuse. - Mandassero, egli diceva, piuttosto i loro rappresentanti al sinodo in Roma, il quale avrebbe autorevolmente deciso la lite; intanto usassero calma, non si abbandonassero alla riprovevole e cieca illusione, che aveva fatto morir tante persone senza i sacramenti, con grave danno delle loro anime. Guai a coloro che vogliono essere piú giusti dei giusti, piú sapienti dei sapienti. Essi finiscono, per troppo zelo, con l'unirsi ai nemici della Chiesa. Gracchiando come rane (velut ranae in paludibus) confondono ogni cosa, e possono paragonarsi davvero alle locuste che desolarono l'Egitto, perché portano uguale devastazione nella Chiesa.

Questo moto somiglia assai a quello promosso quasi nello stesso tempo in Milano dai Patarini contro la simonia dell'arcivescovo. Anche qui, come a Firenze, S. Pier Damiano fece la parte di paciere, ed anche qui molti preferirono morire senza sacramenti, piuttosto che riceverli da preti simoniaci. Se però le due insurrezioni si rassomigliarono, il resultato finale fu diverso, per le diverse condizioni delle due città, e per l'attitudine assai diversa che di fronte ad esse prese la Corte di Roma. Ma comunque sia di ciò, le esortazioni di S. Pier Damiano non valsero a nulla in Firenze. I monaci vallombrosani mandarono a Roma i loro rappresentanti solo per dichiarare dinanzi al Concilio allora radunato, che essi erano pronti a risolvere la questione, ricorrendo al giudizio di Dio. La loro proposta non fu accolta né dal Papa, né dal Concilio; anzi essi ne furono severamente biasimati, sebbene l'arcidiacono Ildebrando, che si trovava presente, e che già era salito a grande autorità nella Chiesa, cercasse difenderli, come avevano difeso la Pataria a Milano. Il Concilio impose loro di ritirarsi nei proprî conventi, e restare tranquilli, senza piú osar di agitare gli animi già troppo esaltati. S. Giovanni Gualberto voleva ora obbedire, ma era tardi; esso non poteva piú fermare la tempesta che aveva sollevata. Il popolo, saputo ciò che i monaci avevano proposto in Roma, chiedeva in ogni modo l'esperimento del fuoco. Il campione, a questo fine eletto, già pronto ed impaziente di presentarsi alla prova, era un tal frate Pietro, vallombrosano, conosciuto poi col nome di Pietro Igneo, stato, secondo alcuni scrittori, guardiano di vacche e giumenti nel monastero, sebbene altri lo dicano della nobile famiglia dei conti Aldobrandeschi di Sovana. Guglielmo dei conti di Borgonuovo, soprannominato il Bulgaro, offrí ai monaci il campo franco, presso la Badia di S. Salvatore a Settimo, di suo patronato, a cinque miglia da Firenze. Il vescovo però non solo respinse sdegnosamente la sfida, ma ottenne un ordine, che chiunque, laico o secolare, non avesse riconosciuto la sua autorità, sarebbe stato legato, e non condotto, ma trascinato dinanzi al Preside della città. I beni poi di coloro che si fossero per paura dati alla fuga, sarebbero stati confiscati dalla Potestà, cioè a dire dal duca Goffredo che favoriva il vescovo. Alcuni ecclesiastici ribelli, che s'erano rifugiati in un oratorio, ne furono intanto colla forza cacciati. E tutto questo, come è naturale, non fece che accendere sempre piú gli animi. Pietro Igneo si dichiarò pronto a passare anche solo attraverso il fuoco. Il 13 febbraio 1068, una folla enorme di uomini, donne, fra cui alcune incinte, vecchi e bambini, s'avviarono, cantando salmi e preghiere, alla Badia di Settimo. Ivi tra due cataste di legna (cosí almeno racconta chi dice d'essere stato testimone oculare), quando già le fiamme salivano in alto, il frate passò miracolosamente illeso. L'entusiasmo fu allora indescrivibile, le grida di gioia arrivavano al cielo, e vi mancò poco che Pietro Igneo, il quale dalle fiamme era stato rispettato, non rimanesse schiacciato dalla moltitudine, che s'affollava intorno a lui per baciarne le vestimenta. Fra molte difficoltà, a forza di mani e di braccia, poterono salvarlo alcuni ecclesiastici. La notizia corse come fulmine a Roma, e poi ogni cosa fu minutamente descritta al Papa, che dinanzi al miracolo dové arrendersi. Il vescovo di Firenze si ritirò in un convento; Pietro Igneo venne nominato cardinale, vescovo d'Albano, e fu dopo morte adorato come santo.

Questo ci ricorda l'altro esperimento del fuoco, die doveva farsi a Firenze nel 1498, e che invece provocò il martirio del Savonarola, poco prima della caduta della Repubblica, la quale cosí sarebbe stata, nel nascere e nel morire, preceduta da due simili fatti. Per quanto la narrazione di tutto ciò possa essere stata esagerata dalla passione e dalla superstizione, per quanto i nomi di Preside e di Podestà, che troviamo nell'antica narrazione, indichino solo, in termini generali, chi comandava, noi siamo adesso entrati in una società nuova. Troviamo un Duca di Toscana, un Preside armato, che sembra rappresentarlo in Città, e quello che è piú, un popolo che, sebbene apparisca solo come una moltitudine fanatizzata, pure comincia a sentir finalmente la propria personalità, combatte il Vescovo, resiste al Duca ed al Papa, finisce coll'ottener quello che vuole. Indirizzandosi al Papa, assume il nome di populus florentinus, e ad esso si rivolge S. Pier Damiano, con le parole cives florentini. Non sono, è vero, altro che forme imitate dall'antico; ma hanno, come vedremo, la loro importanza.

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