E qui si cominciò a vedere di che cosa fosse capace la sottile astuzia dei Fiorentini. Quell'arte d'essere padroni dello Stato senza parere, che piú tardi dètte, con sí grande fortuna la Repubblica in mano di Cosimo e Lorenzo dei Medici, i quali di fatto furon principi, sebbene restassero sempre legalmente privati cittadini; quell'arte fu trovata ora dai Grandi. Essa consisteva nel lasciare intatte le istituzioni repubblicane, non curandosi neppure di farne parte, cercando però che v'entrassero solo i propri amici. Mezzo principale a ciò erano gli uffici della Parte Guelfa, nei quali, come è noto, i Grandi erano ammessi, e cosí potevano, col dichiarar ghibellino un cittadino, farne confiscare i beni, ed escluderlo dal governo ogni volta che volevano. Se dunque non entravano nella Signoria, avevano pure un modo, piú o meno legale, per impedire che v'entrassero gli avversari piú odiati. Giano della Bella s'era bene avvisto del pericolo, e aveva cercato di porvi riparo; ma non arrivò in tempo, perché i Grandi riuscirono prima a farlo cacciare.
Un altro mezzo efficace per riafferrare il potere perduto, i Grandi lo trovavano nel cercare di riuscire ad esser padroni della scelta dei giudici, per poi agire sopra di essi personalmente. Molti di questi giudici, come il Podestà ed il Capitano del popolo, che dovevano essere anche cavalieri, cioè nobili, erano forestieri insieme coi loro notai, cancellieri e giudici subalterni. Essi decidevano non solo le cause civili e criminali, ma le politiche ancora. Al Podestà ed al Capitano, insieme col Gonfaloniere, spettava infatti l'applicazione degli Ordinamenti; ed inoltre il diritto pubblico si trovava allora talmente mescolato col privato, che non era possibile separar l'uno dall'altro. In origine anzi il Podestà, come abbiam visto, era stato poco meno che il capo del Comune. Comandava l'esercito, firmava i trattati di pace; e come gli storici antichi ricordavano gli avvenimenti di Roma sotto il nome dei Consoli, cosí i cronisti fiorentini registrarono quelli di Firenze prima sotto il nome de' suoi Consoli, poi sotto quelli dei Podestà. In sul finire del secolo xiii le cose erano però mutate. Colla distruzione del feudalismo, col progresso della civile eguaglianza e della cognizione del diritto romano, scemò la importanza politica di quei magistrati. Podestà e Capitano del popolo andarono sempre piú divenendo semplici giudici superiori. E però, tanto essi quanto i loro dipendenti, ebbero sempre minore autorità, minor forza; furono peggio pagati e meno rispettati, il che li rendeva piú facili alla corruzione ed a cadere sotto il dominio dei Grandi. Molti di essi venivano dalla Romagna, dalle Marche, moltissimi da Gubbio. Vissuti sotto le tirannidi, educati col diritto romano nello Studio di Bologna, ignoravano affatto, e spesso non riuscivano mai a capire il significato vero della lotta dei partiti in Firenze, e quindi neppure quello di leggi come gli Ordinamenti di giustizia, che erano sopra tutto leggi politiche. Ciò contribuiva non poco a renderli piú facilmente ciechi istrumenti di coloro che volevano impadronirsene. Tutta la letteratura di questo periodo infatti è piena di sanguinose imprecazioni contro «i tristi, i maledetti, i perversi giudici, rovina delle città».
Cosí, col favore del popolo minuto e della plebe, con le ingiuste sentenze dei Capitani di Parte guelfa, con la corruzione dei giudici forestieri, i Grandi cercavano riguadagnare il terreno perduto, e impadronirsi nuovamente del governo. Né era del tutto impossibile riuscirvi, tanto piú che (come vedremo fra poco) essi avevano appunto allora potenti aiuti di fuori. Ma occorreva che fossero uniti, quello appunto che non era sperabile, perché essi erano composti d'elementi non solo diversi, ma anche eterogenei. Si poteva quindi fin d'ora prevedere che, prima o poi, la discordia sarebbe inevitabilmente e sanguinosamente scoppiata anche nel loro seno.
Dino Compagni osserva nella sua Cronica, che «i potenti cittadini non tutti erano nobili di sangue, ma per altri accidenti erano detti Grandi». Essi infatti si componevano di antiche famiglie nobili, spogliate dei loro titoli e privilegi feudali; di antichi popolani, per moltiplicate ricchezze, saliti in alto; di coloro che il popolo dichiarava Grandi, a solo fine di punirli, escludendoli dal governo. E gli antichi nobili, come è naturale, guardavano con diffidenza e disprezzo questi nuovi venuti, che assai spesso (se non essi, i loro parenti) continuavano nei traffici e nelle industrie, il che li teneva in continue relazioni col popolo grasso, avverso al minuto, che perciò s'avvicinava invece alla parte piú potente e aristocratica dei Grandi. Né questo è tutto. V'erano fra di essi anche i nobili di contado, come gli Ubertini, i Pazzi del Valdarno, specialmente poi gli Ubaldini, che possedevano quasi tutto il Mugello, e l'occupavano coi loro forti castelli. Fortissimo era tra gli altri quello di Montaccenico, circondato da tre cerchi di mura, e fondato già da quel cardinale Ottavio degli Ubaldini, che Dante pone nell'inferno, e che disse un giorno: «Se anima è, per li Ghibellini io l'ho perduta». Tutti questi nobili di contado serbavano assai piú vivo l'antico carattere feudale, ed erano avversissimi al popolo, quindi alla Repubblica, che di continuo li combatteva. Se venivano in Città, dovevano certo al pari degli altri sottostare alle leggi comuni; ma i loro parenti ed essi stessi, quando tornavano nei propri castelli, restavano sempre baroni feudali.
Nel 1296 i Fiorentini, per indebolire i Pazzi e gli Ubertini, fondarono nel Valdarno di sopra, tra Figline e Montevarchi, le due terre di S. Giovanni e Castelfranco, nelle quali esentarono per dieci anni dalle tasse, e liberarono dal vassallaggio tutti i fedeli dei nobili, che vi andavano ad abitare. Contro gli Ubaldini però simili provvedimenti sarebbero stati inefficaci, e fu quindi necessaria una guerra prolungata e sanguinosa. Questi baroni del contado avrebbero dovuto logicamente essere imperiali e ghibellini; ma l'Impero era omai debole e lontano, il Papa e la Francia vicini e forti. Laonde essi s'avvicinarono invece ai Grandi guelfi di Firenze, piú specialmente a quelli di antiche famiglie, venendo cosí a formare un nuovo elemento in quello strano agglomerato di forze diverse. Se a ciò s'aggiungano le gelosie private e gli odi sempre piú pronti ad infiammarsi e a divenire irrefrenabili là dove mancano l'unità organica e l'interesse comune di un partito bene ordinato, si capirà facilmente quanta dovesse essere la confusione, quale il disordine.