III

Per validi che fossero gli aiuti che i Grandi, in uno o in un altro modo, ricevevan di fuori; per minacciosi che allora divenissero, rimaneva però sempre vero un fatto, che non bisogna mai perder di vista, perché è quello che meglio può spiegarci la storia fiorentina di quel tempo. Che essi cioè erano un partito destinato a scindersi, a decomporsi ed a sparire, che aveva di fronte a sé, nelle Arti maggiori, un partito giovane, vigoroso, unito da comuni interessi, nel quale risiedevano invece la forza vera e l'avvenire del Comune. La storia di questi tempi non è infatti altro, che la storia del modo in cui le Arti Maggiori riescono, fra mille ostacoli, a divenire la Repubblica stessa, eliminandone gli altri elementi ostili o estranei. Già da un pezzo queste Arti, massime le prime cinque, da cui le altre piú o meno dipendevano, erano in uno straordinario incremento. E quando gli Ordini della giustizia vennero a rafforzarle, esse nei loro Statuti, che in quegli anni rinnovarono, espressero molto chiaramente lo scopo commerciale e politico che avevano nell'aumentare la propria fortuna, rendendo non solo piú ricca, ma ancora piú potente la Repubblica. Ben presto le cinque Arti principali si collegarono in una Universitas Mercatorum, che nel 1308 ebbe l'autorità di un vero tribunale di commercio, e nel 1312 compilò definitivamente i suoi statuti. Tutto ciò si deve anzi ritenere che fu una parte principale dell'opera promossa da Giano della Bella, quella in cui, secondato dalle condizioni dei tempi, esso riuscí meglio, come ne fece prova la prosperità di Firenze, divenuta in quei giorni, non ostante le continue lotte dei partiti, prodigiosa davvero. Di tale prosperità e felicità il Villani parla ripetutamente, aggiungendo che le feste erano allora continue, che la Repubblica poteva mettere in armi 30,000 uomini nella Città, e 70,000 nel contado. Ma quello che è ancora piú, i suoi banchieri tenevano in mano il commercio principale del mondo, che venne inondato dalle manifatture fiorentine. Essi facevano gli affari della Curia romana; essi facevano quasi tutto il commercio della Francia e dell'Italia meridionale; ad essi ricorrevano i sovrani d'Europa, che nelle loro zecche, nelle loro amministrazioni ed ambascerie adoperavano assai spesso qualche accorto e intraprendente Fiorentino. Cosí il danaro d'ogni parte affluiva nella Città; ed è questo il momento in cui si narra che Bonifazio VIII, ricevendo gli ambasciatori delle varie potenze, e vedendo con maraviglia che erano tutti Fiorentini, esclamò: «Voi siete dunque il quinto elemento!». La conseguenza naturale di tutto ciò fu che la piccola repubblica divenne una potenza di primo ordine, la quale esercitava dovunque, specialmente in Italia, un'azione preponderante. Tutte le vicine città volevano imitare le sue leggi, le sue istituzioni, in cui vedevano la causa di cosí mirabile prosperità; né solo le piccole, ma anche le grandi, Roma stessa sembra ora intenta a modellare i suoi magistrati, i suoi Consigli, il suo Comune su quello di Firenze.

E questo appunto era ciò che piú irritava i Papi, sempre in lotta col municipio di Roma; sopra tutto poi irritava adesso Bonafazio VIII, che sembrava deliberato a schiacciarlo, ma trovava vivissima opposizione nella nobiltà e nel popolo, i quali non gli davano mai pace, lo facevano andare quasi ramingo di città in città. Di un'indole impetuosa, di un'ambizione sconfinata, egli aveva dell'autorità papale un cosí alto concetto, che voleva dominare il mondo. Non poteva quindi rassegnarsi alla resistenza dei Romani, e molto meno all'esempio ed all'incoraggiamento che essi ricevevano da Firenze. Concepí quindi il disegno di sottometterla, per farne come un feudo della Chiesa, con un capo di sua elezione. Una volta concepito questo disegno, ci si volse con tutto il suo solito ardore. Non mancava di certo qualche probabilità di riuscita; ma s'urtava contro un ostacolo insuperabile, del quale egli non si rendeva conto. La probabilità nasceva da ciò, che Firenze, divenuta ora come una repubblica di mercanti, si trovava poco atta alle armi. I suoi 100,000 soldati, che vantava il Villani, erano una specie di guardia nazionale d'artigiani e contadini, poco o punto educati alla vita militare, senza ufficiali, senza generali che sapessero comandarli. Mancava quella cavalleria d'uomini d'arme, della quale solo i nobili potevano avere il tempo d'educarsi a farne parte. Ma il Comune diffidava dei nobili di città, e quelli del contado gli erano addirittura nemici. Le compagnie di ventura, che piú tardi s'ebbero per danaro, non si erano ancora cominciate a formare. Pure un esercito occorreva, e sopra tutto capi i quali sapessero comandarlo, se la Repubblica voleva mantenere in Italia la propria autorità, tutelare il suo commercio contro la gelosia crescente dei vicini. Questa era la ragione per la quale in passato essa aveva, a un tratto, accettato Vicari nominati dai Papi, ed era giunta sino a dare, per dieci anni, il supremo dominio a Carlo d'Angiò, che le mandava in fatti capitani e soldati. Perché non poteva ora Bonifazio indurla ad un simile accordo, in modo anche piú efficace e permanente? Il bisogno d'un capo militare v'era oggi, come e piú che in passato; il consenso e favore dei Grandi si potevano ritenere sicurissimi. Ma l'ostacolo insuperabile, di cui il Papa non si rendeva conto, era che i Fiorentini avevano sempre voluto e volevano chi li difendesse, non chi li comandasse, né in questo sarebbe stato facile ingannarli o piegarli. Ciò a cui essi piú tenevano, a cui non avrebbero mai rinunziato, era il governo popolare delle Arti, quello appunto che il Papa avrebbe dovuto distruggere o sottomettere, se voleva riuscire nel suo intento. E questo non era facile di certo.

Il problema poteva essere risoluto solamente dalla forza, ed il Papa non era uomo da indietreggiare per ciò: una collisione diveniva quindi inevitabile. A rendere poi sempre piú intricato un tale stato di cose, s'aggiungeva che questa Repubblica, contro cui Bonifazio VIII assai irritato ora si volgeva, era guelfa e voleva restar tale, né solo per sentimento o antica tradizione, ma piú ancora per interesse. Essa infatti s'era costituita combattendo per secoli i nobili e potenti ghibellini, sulle cui rovine aveva finalmente fondato il governo delle Arti, ed a ciò aveva contribuito non poco il trionfo degli Angioini chiamati dai Papi. Il suo principale commercio, quello da cui venivano la sua forza e la sua potenza, era colla Francia, coll'Italia meridionale dove erano gli Angioini, e con Roma. Non poteva quindi, in nessun modo, pensare a farsi nemici il re di Francia, il Papa e gli Angioini, che erano allora uniti. Il partito ghibellino si trovava poi in Toscana rappresentato da tutte le città nemiche di Firenze. Siena, Arezzo, Pistoia v'inclinavano piú o meno apertamente. La repubblica di Pisa, che con tanto ardore aveva aiutato l'impresa di Corradino, teneva sempre alta e spiegata la bandiera di quel partito. Ed essa era l'eterna rivale di Firenze, alla quale voleva chiudere il mare, di cui questa aveva piú che mai urgente bisogno. La guerra fra loro era tale che doveva assolutamente finire con la distruzione dell'una o dell'altra repubblica. E cosí i Fiorentini si trovano costretti ad essere amici del Papa, ed a combatterlo nello stesso tempo. Che la loro storia riesca, in tali condizioni, complicata e difficile, può capirlo ognuno.

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