VI

In tale disposizione d'animi venne quello che fu da alcuni chiamato il fatale Calen di Maggio. A festeggiare l'entrata della primavera del 1300, le giovani fiorentine, secondo il costume, ballavano in Piazza Santa Trinita. La gente s'affollava e stringeva a guardare da una parte e dall'altra. V'erano giovani a cavallo, cosí dei Bianchi come dei Neri, che si spingevano innanzi e si urtavano. Dalle parole si venne ai fatti, le armi balenarono, e vi furono molti feriti. A Ricoverino dei Cerchi fu addirittura staccato il naso dal volto, ferita che non poteva restare senza sanguinosa vendetta. E come il fatto del Buondelmonti fu dai cronisti dichiarato causa della divisione dei Guelfi e dei Ghibellini, cosí questo del Calen di Maggio venne da altri ritenuto origine e causa delle parti Bianca e Nera. Ma anche esso non fu che lo scoppio improvviso di passioni da lungo tempo represse, le quali erano state ora dalle trame del Papa riaccese. In conseguenza di questi tumulti, si deliberò subito nei Consigli una provvisione (4 maggio), che dava alla Signoria piena balía, per far tornare la Città tranquilla; tener fermi gli Ordini della giustizia; tutelare «l'antica, consueta e continua libertà del Comune e Popolo fiorentino, la quale correva pericolo d'essere mutata in servitú, per le molte e pericolose novità tam introrsum, quam etiam de foris venientes». E con queste ultime parole s'alludeva chiaramente al Papa, il quale perciò scrisse da Anagni, il 15 maggio, al vescovo ed all'Inquisitore in Firenze, una lettera violentissima. In essa si doleva che quei «figli d'iniquità, per ritrarre il popolo dalla obbedienza alle Somme Chiavi, andassero spargendo che egli voleva togliere alla città le sue giurisdizioni, e scemarne le libertà, quando invece voleva accrescerle». Ma poi scattava: «Non è il Papa supremo signore di tutti, e specialmente di Firenze a lui per speciali ragioni soggetta? Gl'Imperatori e Re dei Romani non si sottomettono forse a noi, e non sono essi qualche cosa piú di Firenze? La Santa Sede non nominò forse, vacando l'Impero, re Carlo d'Angiò vicario generale in Toscana? E non fu da voi stessi riconosciuto? L'Impero è adesso vacante, perché la Santa Sede non ha ancora approvato l'elezione del nobile Alberto d'Austria». E cosí, con un crescendo continuo, minacciava i Fiorentini, che se non obbedivano, «avrebbe non solo contro di essi scagliato l'interdetto e la scomunica, ma esposto i loro cittadini e mercanti ad ogni ingiuria; i loro beni ad essere rubati, confiscati in ogni parte del mondo; sciolto i loro debitori dall'obbligo di pagare». Tornava ad inveire contro i tre audaci accusatori, che egli avrebbe trattati e puniti come eretici, scagliandosi con particolare acrimonia contro Lapo Salterelli, il quale aveva osato sostenere, che il Papa non poteva mescolarsi nei giudizî del Comune. E di nuovo imponeva che fosse annullata la sentenza contro i tre suoi familiari.

I Fiorentini non dierono retta, ed i Neri allora cominciarono a pensare ai casi loro, perché temevano che la parte bianca o, come essi già la chiamavano, ghibellina, «non esaltasse in Firenze, che sotto titolo di buono reggimento già ne faceva il sembiante». E però indussero il

Papa a mandare il Cardinale d'Acquasparta, perché si provasse a far pace tra i Grandi. Il Cardinale venne ai primi di giugno, e chiese balía per fare gli accordi, proponendo che i Signori si traessero a sorte, per evitare cosí i continui tumulti che seguivano ad ogni elezione. I Fiorentini gli fecero a parole grandi profferte, ma non gli dettero poi la balía che chiedeva. Si sapeva da un pezzo, per esperienza, che accordo fra i Grandi voleva dire «frangere il popolo», e se ne ebbe un'altra prova in questi giorni medesimi. Non aveva infatti il Cardinale cominciato appena a riavvicinare fra loro i Grandi, che già essi si sollevavano, e quasi sotto i suoi medesimi occhi, la vigilia di S. Giovanni (23 giugno), assalirono i Consoli delle Arti, che andavano a fare offerta nel tempio del Santo, e li percossero, dicendo: «Noi siamo quelli che demmo la sconfitta in Campaldino, e voi ci avete rimossi dagli ufficî e onori della nostra città». La enormità della cosa era tale, che non poteva passare senza qualche grave provvedimento, e la Signoria, composta allora di popolani Bianchi, tra i quali trovavasi anche Dante Alighieri, esiliò il giorno dopo alcuni Grandi dell'una e dell'altra parte.

I Bianchi obbedirono subito, andando a Sarzana; i Neri invece ricalcitravano, e solo cedendo alle minacce di piú severo castigo, andarono a Castel della Pieve, nel Perugino. Si disse che avevano osato resistere perché, d'accordo col Cardinale, aspettavano dai Lucchesi aiuti che poi non vennero. E questi aiuti sarebbero mancati, perché i Fiorentini, già insospettiti di ciò, s'erano parati alla difesa, e ne avevano mandato avviso a Lucca. Vero o non vero che sia, certo è che lo sdegno contro il Cardinale arrivò a tale, che il popolo tirò colpi di balestra alle finestre del vescovado, dove egli alloggiava. Uno dei quadrelli restò infisso nell'asse del soffitto, di che egli si spaventò per modo, che prima alloggiò altrove, poi se ne partí, lasciando la città interdetta e scomunicata. Ma gli odî e le zuffe continuarono; e presto anche si lasciarono tornare dall'esilio i Bianchi. Si usò loro questa indulgenza, in parte perché il clima di Sarzana era malsano, tanto che si ammalò Guido Cavalcanti, il quale poco dopo ne morí; ma in parte ancora perché essi erano in assai migliori termini col popolo. I Neri invece tramavano piú che mai col Papa, e secondati dai Capitani di Parte, cospiravano con animo di venire addirittura alle armi,

Bonifazio intanto sollecitava vivamente a muoversi di Francia in Toscana Carlo di Valois, fratello del Re, e già chiamato in aiuto anche da Carlo II d'Angiò, per la lotta che sosteneva contro i Siciliani. Esso era un audace e crudele soldato. Nella guerra di Guascogna aveva, l'anno 1294, fatto appiccare 60 cittadini, e trucidare gli abitanti di Réole, quando già avevano deposto le armi. Nei primi del 1300 aveva guerreggiato in Fiandra, e dopo la presa di varie città, costretto quel Conte ad aprirgli le porte di Gand. Giurò allora, in nome del Re, di restituirlo ne' suoi Stati; ma poi lo mandò invece a Parigi, e, spergiurando, annesse la contea alla Francia. Questi era l'uomo che il Papa mandava adesso a Firenze. Per indurlo a venir subito e di buon animo, gli faceva balenare perfino la speranza della corona imperiale. In ogni caso, valendosi dell'autorità che presumeva d'avere durante l'interregno, lo avrebbe nominato vicario imperiale e paciaro in Toscana, «per recarla colla forza a suo intendimento». Quale fosse questo intendimento, lo dice il Villani stesso che parteggiava per lui: «abbattere il popolo e parte bianca».

I Neri perciò si davano ora un gran da fare, con l'aiuto dei loro amici in città e nel contado. Ebbero varie adunanze; ma piú celebre e piú tumultuosa fra tutte, fu quella tenuta il giugno del 1301 in S. Trinita, per sollecitare il Papa a far venire Carlo di Valois a rimetterli in istato, dichiarandosi essi, per parte loro, pronti a cooperare con qualunque sacrifizio. Tutto ciò non poteva certo restare segreto; ed infatti la Signoria pronunziò subito varie condanne contro i cospiratori. Messer Corso, assente, fu condannato nell'avere e nella persona; alcuni dei Neri furono confinati; altri dovettero pagare 2000 lire, ed anche da Pistoia furono cacciati i loro amici, per sempre piú indebolire la Parte.

Intanto Carlo si mosse di Francia, ed in quell'anno stesso era già a Parma «cum magno arnese equorum et somariorum;» nei primi d'agosto giungeva a Bologna, dove trovò ambasciatori dei Bianchi e dei Neri, i quali ultimi già avevano in «curia domini Papae» versato la grossa somma di 70,000 fiorini, per aiutare l'impresa, che ormai era certa. Egli andò prima con 500 cavalieri ad Anagni, dove vide re Carlo di Napoli, e s'accordarono insieme per la guerra di Sicilia. Il Papa lo nominò subito Conte di Romagna, e poi, in nome dell'Impero vacante, Paciaro in Toscana. Dopo di che, senz'altro esso partí per Firenze, accogliendo per via gli esuli che venivano ad ingrossare le sue schiere. Il mandato era: abbattere i Bianchi ed il popolo, esaltare i Neri. E Carlo lo aveva accettato con animo deliberato; ma in verità piú per compiacere al Papa, del cui favore gli Angioini avevano ora gran bisogno in Sicilia, che per suo interesse personale. A lui, infatti, che sapeva di non poter pensare a farsi signore di Firenze, la cosa importava assai mediocremente. Sperava tuttavia di poter cavare dalla città buona somma di danaro, ed a questo fine menava seco per suo pedotto, come dice il Villani, Messer Musciatto Franzesi. Costui era un notissimo mercante del contado fiorentino, che in Francia s'era arricchito con leciti ed illeciti guadagni; era stato nominato cavaliere da quel Re, che molto lo aveva adoperato, ed al quale, nella guerra di Fiandra, aveva suggerito il modo di far danaro, falsificando la moneta. In questo suo pedotto molto sperava Carlo di Valois; molto invece ne diffidavano i Fiorentini.

Il 13 settembre s'adunarono nel Palazzo del Podestà tutti i Consigli, nei quali sedeva in quel giorno anche Dante Alighieri, per deliberare «quid sit providendum et «faciendum super conservatione Ordinamentorum Iustitiae et Statutorum Populi». Questa e non la lotta fra i Bianchi ed i Neri, era sempre pei Fiorentini la questione sostanziale. Fu quindi concluso, che per ora rimanesse tutto affidato alla cura dei magistrati repubblicani, non tralasciando l'invio d'una ambasceria al Papa. Sulla parte che, secondo gli storici, prese Dante Alighieri a questa ambasceria, s'è molto disputato, come su tutta la vita del sommo poeta. In quel tempo egli era con grande ardore entrato nella vita politica, e sebbene d'antica famiglia, non solo si trovava scritto alle Arti, e parteggiava pei Bianchi, ma era d'un animo solo col popolo, favoriva gli Ordini della giustizia, ed avversava le mire di Bonifazio. Dal 15 giugno al 15 agosto 1300, era stato dei Priori che avevano esiliato i capi dei Bianchi e dei Neri. Nelle Consulte del 1296 e 97 lo vediamo opporsi a coloro che volevano inviare danari a Carlo d'Angiò, per aiutarlo nella impresa di Sicilia. Nel 1301 pigliò parte anche maggiore alle discussioni nei Consigli, manifestando sempre i medesimi sentimenti. Infatti, nelle Consulte del 14 aprile, per ben due volte, alla proposta di mantenere a servizio del Papa, ed a spese del Comune, cento militi, egli rispondeva: Quod de servitio faciendo domino Papae nihil fiat. Era stato piú volte adoperato anche in altri uffici dalla Repubblica, e non è impossibile che lo mandassero ora a Roma, come affermano molti biografi. Che cosa si poteva dire al Papa? Certo era inutile sperare che egli ora sospendesse l'invio di Carlo di Valois; ma oltre alle buone parole per calmarlo, non era affatto inopportuno o inutile provarsi a fargli capire, che, col cacciare i Bianchi ed esaltare i Neri, non avrebbe ottenuto lo scopo cui mirava, perché il governo della Città sarebbe rimasto sempre in mano delle Arti. Meglio valeva mettersi d'accordo col popolo, che era rimasto sempre guelfo, e che, come in passato, cosí, calmati gli animi, avrebbe anche per l'avvenire potuto accettare da lui un vicario temporaneo, salva però sempre la libertà del governo popolare, gli Statuti e gli Ordinamenti. Ma questo governo era quello appunto che il Papa s'era omai deciso a non volere assolutamente. E però, senza far molte parole, senza quasi dare ascolto agli ambasciatori, esso, secondo il Compagni, a tutti i loro discorsi rispose solamente: - Umiliatevi a noi. - Due di loro sarebbero, secondo lo stesso cronista, tornati subito a Firenze, e Dante, che era il terzo, sarebbe invece rimasto ancora per poco a Roma.

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