Che il Papa volesse allora assumere una indebita ingerenza nelle cose di Firenze, si vide chiaro quando si cominciò in essa a parlar di revocare l'esilio di Giano della Bella. Non solo, senza avervi diritto di sorta, egli vi si oppose con violenza; ma il 23 di gennaio 1296, scrisse ai Fiorentini, minacciandoli addirittura d'interdetto, se non ne abbandonavano il pensiero. Allora non si sapeva però che egli avesse già formato un disegno, e tramasse in segreto per attuarlo; non si supponeva, che Papa Bonifacius volebat sibi dari totam Tusciam, come si vide piú tardi, e come si trova scritto sopra un antico documento, che ci fa conoscere assai bene quali erano veramente le sue mire. Queste però furono abbastanza chiaramente espresse dal cronista Ferreto, quando scrisse che Bonifazio meditava: «faesulanum popolum iugo supprimere, et sic Thusciam ipsam, servire desuetam, tyrannico more comprehendere». Infatti già nel maggio del 1300 il Papa aveva mandato al Duca di Sassonia, per esporgli come le parti di Toscana si diffondessero ne' suoi Stati, e gli rendessero impossibile andare innanzi senza sottomettere questa provincia. Sebbene potesse farlo di sua autorità, cosí egli scriveva, pure desiderava avere l'assenso dei principi elettori, e d'Alberto d'Austria, re dei Romani, al quale mandava addirittura la minuta dell'atto di rinunzia. Il Donati era a parte di tali disegni, e però aveva subito cominciato ad assumere l'attitudine di guelfissimo tra i Guelfi, e dava nome di Ghibellini ai Cerchi, ai quali, come era naturale, sempre piú s'andavano accostando tutti coloro che diffidavano di Bonifazio.
Ad un tratto s'ebbe in Firenze notizia abbastanza certa delle trame, che in segreto venivano condotte dal Donati in Roma, per mezzo degli Spini. Messer Lapo Salterelli, un avvocato assai accorto, ma di dubbia fede, pronto a seguire sempre il vento che tirava, si presentò con due suoi amici ai magistrati, e pubblicamente accusarono di attentato contro lo Stato tre Fiorentini residenti a Roma, nel banco degli Spini, tre «mercatores romanam Curiam «sequentes». In quel momento Corso Donati non era a Firenze, perché si trovava a Massa Trabaria, città dello Stato romano, ai confini di Toscana, e nella quale appunto allora egli era stato nominato rettore dal Papa, il che aumentava i sospetti, e faceva credere il pericolo ancora piú grave ed imminente. Non volendo chiudere un occhio, né troppo irritare Bonifazio VIII, i magistrati condannarono subito a gravissime multe quei tre cittadini, aspettando nuove indagini, per procedere contro tutti gli altri, che pure dovevano aver avuto parte nella congiura. A sopire i sospetti contro di sé, il Papa avrebbe dovuto ora con prudenza tacere, ma la sua impetuosa natura non gli permetteva riguardi. Andò quindi sulle furie, e con lettera del 24 aprile 1300, minacciò di scomunicare la Città, che osava condannare i suoi familiari, e intimò ai tre accusatori di recarsi subito a Roma. Naturalmente non ottenne nulla, anzi Lapo Salterelli, che era appunto allora stato eletto dei Priori, negandogli il diritto d'ingerirsi nei fatti interni di Firenze, sollevò il conflitto di giurisdizione. Il Papa intanto aveva fatto chiamare a Roma Vieri dei Cerchi, per indurlo a pacificarsi col Donati, che già si trovava colà. Ma il Cerchi, senza mostrarsi consapevole del processo, affermando di non avere odio contro alcuno, ed adducendo altri vaghi pretesti, ricusò di far la pace, cosa che portò al colmo l'ira di Bonifazio. Era naturale che a lui importasse molto pacificare i Grandi, essendo il solo mezzo possibile a sottomettere il popolo. Ma appunto perciò a questo premeva invece che stessero divisi, e quindi piú che mai favoriva i Cerchi, e li aizzava a tutta possa contro i Donati.