E ciò, come è naturale, si riscontra anche nella storia della famiglia, dalla quale scaturisce in gran parte il diritto civile. Chi infatti guarda la primitiva famiglia romana, vi ritrova subito la base su cui si costituí poi la futura grandezza giuridica e politica di Roma. La famiglia è sacra; il padre è padrone dei beni, della libertà, della vita cosí della moglie, come dei figli. Egli è sacerdote, giudice, arbitro supremo: moglie, figli, nipoti formano con lui una stessa associazione, una sola persona giuridica, da esso rappresentata. La donna può essere venduta, uccisa, rivendicata in giudizio, come una schiava; libera appena dalla tirannia paterna, ricade sotto quella degli agnati, e la sua incapacità giuridica l'accompagna per tutta la vita. Ma i primitivi costumi temperano per modo questa dura legge, che non si trova nell'antichità un altro popolo, il quale abbia uguale ossequio alla santità della famiglia, uguale rispetto alla donna. Il matrimonio è chiamato: consortium omnis vitae, divini et humani iuris communicatio. Il divorzio per parte del marito (repudium) non è proibito dalla legge; ma colui che ripudia la moglie, è disonorato dal Censore, scomunicato dal sacerdote, ed in cinque secoli di rado se ne trova qualche esempio. In Grecia si trovano ancora tracce della poligamia orientale, ma in Italia la monogamia è antica quanto Roma. I figli naturali non formano mai parte della famiglia, sebbene si possano legittimare. L'adozione è un atto solenne, la cui moralità è affidata alla sorveglianza del Pontefice, custode della santità della famiglia, ed è sottoposta alla sanzione del popolo. La donna non si vede in piazza, fra le riunioni popolari; ma nella casa è domina, e cosí la chiama il marito. L'atrium è il centro e santuario della casa. Ivi si radunano parenti, amici e stranieri; ivi è il focolare domestico, con l'altare degli Dei Lari, e gli oggetti piú sacri della famiglia; il letto nuziale; le immagini degli avi, calcate in cera sul volto degli estinti; la rócca; il fuso della matrona; il forziere in cui sono i registri e i denari della casa. E tutto ciò è affidato alla custodia e direzione della madre di famiglia, che sacrifica col marito, e con lui amministra il patrimonio comune: essa veglia ai lavori domestici, all'educazione dei figli. Negli annali e nelle leggende di Roma, il nome di una qualche eroina, come Virginia o Lucrezia, è sempre congiunto alle glorie maggiori della Città Eterna: non cosí in Grecia. Quando i Romani fondarono e santificarono la famiglia, essi posero la prima pietra del Campidoglio.
Ma per mantenere sempre stretto e compatto questo nucleo primitivo della società romana, la legge deve vegliar sempre con gelosa accortezza, e moltiplicare le sue prescrizioni. Bisogna tenere unita la proprietà di famiglia quanto piú lungamente e piú rigorosamente si può. Il padre ne è il padrone e l'arbitro; ma alla sua morte, il patrimonio si divide in parti uguali tra i figli e le figlie. L'unità della famiglia allora deve essere protetta, difesa dalla legge, perché il pericolo maggiore le viene dalla donna, che, andando a marito, porta fuori di casa la proprietà domestica. Essa viene quindi dalla legge sottoposta ad una continua tutela, che le impedisce di disporre ad arbitrio de' suoi beni. Morto il padre, la donna cade sotto la tutela degli agnati. I giureconsulti del tempo di Cicerone, quando s'era, come notò il Vico, perduto il vero significato del primitivo diritto romano, credevano che questa tutela fosse su di lei stabilita a cagione della sua fragilità, propter sexus infirmitatem. Ma Gaio notò l'errore d'una tale opinione, che egli chiama volgare e speciosa, dichiarando che la tutela era stabilita invece nell'interesse degli agnati; affinché la donna, di cui erano eredi presuntivi, non potesse alienare, diminuire l'eredità, o in qualunque modo defraudarli.
Fino a che la donna restava sotto la tutela paterna, essa non aveva ereditato ancora, e la legge le permetteva perciò di assumere obblighi giuridici; ma alla morte del padre, ereditava, e cominciava quindi per la famiglia il pericolo; laonde allora appunto essa cadeva sotto la tutela degli agnati, suoi eredi, e non poteva piú obbligarsi senza il loro consenso. La tutela era dunque per gli agnati non solo un dovere, ma anche un diritto ed una proprietà. Se l'agnato era minore, incapace o alienato di mente, non perdeva il suo diritto, salvo a farlo esercitare da un terzo. Il tutore costituiva la dote, che era della donna; ma il resto del patrimonio di lei doveva restare intatto, per tornare poi agli agnati della famiglia. Essa non poteva testare, perché non doveva aver diritto di defraudare la famiglia. Venendo però sotto la manus del marito, la donna subiva una capitis deminutio, entrava quasi loco filiae in un'altra famiglia, e allora suoi eredi legittimi essendo i nuovi parenti, la legge le consentiva di testare, perché cosí poteva, non ostante la nuova parentela, far tornare il patrimonio alla sua originaria famiglia.
Quando la donna era nella manus del marito, usciva dalla patria potestà e dalla tutela degli agnati. Pure la gelosia della sua propria famiglia era tale, che si cominciò ben presto a fare un matrimonio per semplice consenso, secondo il quale la donna veniva personalmente sotto l'autorità del marito, senza che questi avesse su di lei la manus, il che gli veniva a togliere la potestà sui beni di lei. In tal modo essa restava ad un tempo sotto la potestà del padre o degli agnati, e sotto quella del marito, dal che nascevano collisioni inevitabili, le quali accelerarono quella che doveva essere, col tempo, la piú profonda alterazione della famiglia romana: la piena indipendenza della donna. Ma prima d'arrivare a ciò, i conflitti trovarono, per lungo tempo, un freno ed un efficace rimedio in un potere mediatore, in una istituzione di somma importanza: il tribunale domestico. Regolato dai costumi e non dalla legge, questo consiglio di famiglia si componeva degli agnati, cognati, propinqui, e qualche volta vi pigliavano parte anche gli amici. Esso presiedeva agli sponsali, al primo vestir della toga virile; proteggeva gli orfani; assisteva il capo della famiglia nei giudizî e nelle condanne, temperandone l'autorità. Secondo la legge, il padre poteva agire anche senza il Consiglio; ma si esponeva alla infamia ed alla pubblica disapprovazione del Censore, che, occorrendo, l'accusava dinanzi al popolo. La donna nubile era sottoposta e protetta da questo Consiglio. Maritata con la manus, usciva dalla sua famiglia, per far parte d'un'altra; maritata senza la manus, continuava invece ad essere sottoposta al Consiglio, in cui veniva ad aggiungersi il marito.