II

Chi dice diritto romano, dice due parole solamente; ma chi studia le Pandette s'accorge che esse sono la sintesi d'un lungo lavoro precedente, un'ultima forma di giurisprudenza, che non si può ben capire, senza l'analisi di tutti gli elementi storici che la prepararono e la costituirono. E allora subito la storia del diritto romano si trasforma come in una storia di molte legislazioni diverse, le quali si succedono di tempo in tempo. Dalle XII Tavole fino a Giustiniano, questo diritto non s'arresta un'ora sola nel suo continuo svolgimento. Anche nel Medio Evo, quando glossatori e commentatori lo studiavano con religiosa devozione, nelle raccolte compilate a Costantinopoli, e non volevano far altro che riprodurlo fedelmente e diffonderlo; anche allora esso si trova nelle loro mani alterato, senza che se ne avvedano, trascinati come sono dai tempi mutati e dai nuovi bisogni sociali. Solo nel secolo xV si può dire che questo storico svolgimento cessi del tutto fra noi, e che il diritto romano divenga piú che altro un soggetto di erudite ricerche. Apparisce allora manifesta la storia e la vita propria d'un nuovo diritto moderno, il quale ha già una sua forma indipendente, sebbene anch'esso, in parte non piccola, derivi dal romano, che perciò continua ad avere un grandissimo valore e si studia anche oggi da noi con ardore, ma con uno scopo assai diverso da quello che si aveva nel Medio Evo. Si tratta ora di conoscere un monumento immortale dell'antica sapienza, di formare con esso la nostra educazione giuridica, di meglio intendere i nostri codici, di contemplarlo nelle sue successive manifestazioni, ricercando la legge che le regola. Questa legge infatti, appena che fu trovata, gettò una luce nuova sulla storia di tutto il diritto romano; perché si vide che essa lo dominò sempre, senza interruzione, in maniera da fargli prendere un carattere cosí costante e continuo nelle sue varie trasformazioni, che quella apparente successione di legislazioni diverse si mutò di nuovo ai nostri occhi, sí che ci sembra ora di assistere come all'evoluzione d'una stessa idea, allo svolgimento progressivo d'un'opera della natura.

Tutto questo cammino, questa evoluzione fu il risultato di due forze, di due elementi diversi. A Roma v'era stato in origine un diritto, il vero e proprio diritto dei Quiriti, del quale troviamo gli avanzi nelle XII Tavole, severo, ristretto, pieno di formole, la cui osservanza, tenuta come sacra, era affidata ad un piccolo numero di cittadini, di cui la scienza era occulta e l'autorità era sanzionata dalla religione. Il piú piccolo errore nella forma annullava il piú giusto diritto, e quando la legge non determinava la formola da osservare, mancava ogni efficace azione giuridica. Il dolo, l'inganno non potevano sciogliere un contratto, se la formola che doveva legare era stata una volta pronunziata: Ut lingua nuncupassit ita ius esto. Schiavo delle forme, il giudice non poteva ascoltare la voce della morale e della buona fede; il piú giusto lamento lo trovava indifferente, se non era appoggiato ad un testo di legge. Il difensore non osava muovere un passo, se non era continuamente guidato dal legislatore, perché ogni forma giuridica era inviolabile e sacra, e la scienza del diritto, fatta monopolio del Collegio dei Pontefici, il corpo piú aristocratico e conservatore che fosse in Roma, divenne una specie di scienza occulta. Eppure questo carattere, in apparenza cosí ristretto e pedantesco, fu quello appunto che dette la sua gran forza alla legge in Roma. Liberato per la prima volta il diritto da ogni elemento estraneo, proprio della morale o della buona fede, esso divenne fermo ed inesorabile. Chi aveva in suo favore la legge, era sicuro di vederla prontamente eseguita: nella storia non s'incontra mai una sanzione e riparazione legale cosí pronta e sicura come quella che aveva luogo a Roma. Ad Atene, infatti, dove le leggi erano piú filosofiche, e la coscienza popolare giudicava, ricercando le intenzioni, disprezzando le formule, mirando alla sostanza, l'arbitrio facilmente signoreggiava, e il diritto non ebbe mai la fibra ferrea e tenace della romana giurisprudenza.

Se non che, col mutare dei tempi, ogni cosa mutava in Roma. Questa giurisprudenza, rispettata come sacra, che il Vico chiamò tutta di formole, tutta di umani parlari, era propria d'un popolo rozzo e primitivo. Ai tempi di Cicerone le idee erano già tanto mutate, che egli, nella sua orazione pro Murena, fece la piú amara satira d'una scienza divenuta ai suoi occhi ridicola: res enim sunt parvae, prope in singulis literis atque interpunctionibus occupatae. Egli la riteneva perciò un'impostura dei sacerdoti, i quali ne volevano soli far monopolio. Aveva ragione o torto? Il Vico, esaminando una tal questione, dimostrò come Cicerone si fosse ingannato. Questi ed i suoi contemporanei, egli disse, vivevano in tempi troppo culti, per comprendere la primitiva e rozza giurisprudenza; essi non ne intendevano piú il vero significato, e giudicavano le leggi antiche colle idee e i principi d'una età nuova. Un tale concetto, messo in luce la prima volta nella Scienza Nuova, fu poi da molti altri accolto, e venne sempre piú confermato che il primitivo diritto di Roma non fu un artificio di pochi dotti, ma un prodotto spontaneo e necessario del popolo in mezzo a cui nacque.

Dapprima il costume, chiaramente distinto dal diritto già formulato e scritto, ne temperò la troppo dura rigidezza. La buona fede e l'equità, non curate, respinte dalle leggi, trovarono la loro sanzione nei costumi; ebbero i loro tribunali propri, e furono sempre rispettate, perché il magistrato, a cui ne era affidata la tutela, pronunziava una sentenza, non legale, ma morale, che aveva però la sua grande efficacia, come genuina espressione della pubblica opinione. La sua condanna non costringeva, è vero, colla forza, ma portava l'infamia, ed egli poteva da ultimo menar l'accusato dinanzi al popolo, giudice e legislatore supremo. Piú tardi però i costumi si corruppero, e non bastarono piú a tutelare la pubblica fede e la morale, che furono costrette a cercare un asilo ed una sanzione nel diritto, cominciando cosí, a poco a poco, ad alterarne il primitivo carattere. La sostanza prevalse allora sulla forma, l'equità sull'antico testo di legge, la intenzione dei contraenti sulle parole pronunziate per errore: il diritto divenne piú morale, a misura che i costumi furono piú corrotti. Questa trasformazione, cominciata assai lentamente, fu poi accelerata dalle nuove condizioni della Repubblica, nella quale avvenne qualche cosa che si può paragonare a ciò che seguí nella storia della scienza, verso il principio del secolo xvii. I vari Stati d'Europa, colle loro diverse leggi, avendo stretto nuove relazioni, si videro allora nella necessità di ritrovare alcune norme di diritto comune, e cosí sorse con Ugo Grozio, quella che si chiamò la scuola del Diritto Naturale. Non nella scienza, ma nella pratica del diritto, seguí lo stesso a Roma. A misura che il dominio della Repubblica si stendeva nell'Italia, aumentavano le sue relazioni coi popoli vicini, nelle cui leggi prevalevano i principi piú filosofici e meno severi della giurisprudenza greca. Non era possibile imporre a tutti, senza alterarlo, il rigido diritto dei Patrizi romani. Si formò quindi e crebbe rapidamente un nuovo diritto, comune, naturale, piú largo, che si chiamò delle genti, a differenza dell'altro, che fu detto civile. Ius gentium est quod naturalis ratio inter omnes homines constituit. Esso non veniva però dedotto da principi filosofici sull'umana natura, come nel secolo xvii il diritto naturale propriamente detto; nasceva invece, per necessità pratica, dalle nuove relazioni dei Romani coi popoli italici; era alimentato dai principî della greca giurisprudenza filtrata nell'Italia meridionale; rispondeva ai nuovi bisogni di Roma stessa, e pigliando il posto che prima tenevano i costumi nei giudizî romani, crebbe accanto al diritto dei Patrizi, e continuò lungamente insieme con esso. Cosí vi furono a Roma due diritti. E quindi si ebbero da un lato giudici e giudizî che restarono fedeli al vecchio formalismo; dall'altro giudici e giudizî che tennero conto dell'equità, della buona fede, sostituendo quasi l'ufficio del Censore. Il continuo e progressivo avanzarsi del diritto delle genti, l'azione che le due giurisprudenze esercitarono l'una sull'altra, per confondersi finalmente in una sola, nella quale il vecchio formalismo romano andò perdendo la sua rigidezza, e il diritto d'equità, incorporandosi col civile, andò pigliando forme piú regolari e determinate, sono conseguenza della legge che domina la vita e la storia del diritto romano, si può dire anzi che la costituiscano. Esso si è formato e diffuso nel mondo, ereditando dagli antichi Quiriti uno scheletro di ferro, e dal contatto cogli altri popoli, dai germi che cosí poté assimilarsi della cultura greca, ereditando uno spirito piú generale, piú largo, piú umano. In tal modo raggiunse quella sua forma matematica e filosofica ad un tempo, e sembrò che divenisse il diritto universale per eccellenza, quasi il fondamento necessario di tutte le legislazioni. Il Pretore fu colui che promosse questo giuridico connubio; rappresentò lo spirito nuovo e lo spirito vecchio, allargando l'antico diritto con le eccezioni di equità, la quale egli rese piú severa, sottoponendola alla procedura tradizionale. Questo in sostanza è ciò che ebbe luogo nei costumi, nelle lettere, in ogni cosa. La fusione della cultura greca e della romana è la storia del mondo antico.

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