IX

Noi abbiamo adunque negli Statuti quattro legislazioni diverse, che sono come in lotta fra di loro: diritto longobardo, romano, feudale, canonico. Esse si possono però ridurre quasi a due, perché il diritto feudale è germanico, e il diritto canonico, per quella parte che penetra negli Statuti, è principalmente romano. Cosí anche qui si torna alla vecchia lotta del sangue germanico col latino. Sono due popoli che combattono, e con essi le loro istituzioni, le leggi, le idee; le loro anime sembrano sfidarsi dovunque s'incontrano, nella letteratura, nell'arte, nella politica. Eppure l'uno è necessario all'altro, e debbono scomparire ambedue, per dar luogo ad una nuova forma sociale, ad uno spirito piú vasto, che, nato dalla fusione dei due opposti elementi, sarà il solo trionfatore in questa lunga lotta. In Italia però il sangue latino predomina sempre, come si vede anche negli Statuti, nei quali il diritto romano è il tronco principale intorno a cui s'aggira tutto quanto questo lavorio giuridico. Il tempo in cui si cominciano a compilare gli Statuti, è quello stesso in cui comincia a diffondersi dalla Università di Bologna la cognizione del Corpus iuris in tutta Italia. D'allora in poi la legislazione giustinianea è ritenuta come il diritto per eccellenza, una specie di filosofia giuridica, ed è riconosciuta in tutte le nostre repubbliche come il diritto comune, quello che entra in vigore ogni volta che tace lo Statuto. Per questa ragione la parte che risguarda il diritto civile è negli Statuti svolta assai meno della parte politica. Ed è perciò ancora che i professori, dati principalmente allo studio del diritto civile, s'occuparono piú del diritto romano, canonico, feudale e longobardo, che degli Statuti. Questi erano da essi esaminati, massime nei primi tempi, piú come una conseguenza dello studio del diritto romano, che come un soggetto di vero e proprio studio; li ritenevano una consuetudine popolare scritta, a cui non si dava gran valore scientifico, perché quasi legge di eccezione all'unico diritto, che solo aveva ragione di essere universalmente ammirato. Assai piú tardi i professori cominciarono ad occuparsi anche degli Statuti, che ai nostri giorni acquistarono finalmente una grande importanza. Venezia è forse l'unico Comune nel quale, in mancanza dello Statuto, si soleva ricorrere alla ragione naturale; laonde il Bartolo diceva, che il magistrato veneto giudicava manu regia et arbitrio suo. Questo non impediva però, che anche colà un tale arbitrio venisse regolato od ispirato dalla conoscenza e dall'ammirazione che s'aveva pel diritto romano.

Da tutto ciò risulta sempre piú chiara l'importanza straordinaria che ebbero le Università ed i professori di Bologna, i quali annotavano, glossavano il Corpus iuris, per renderlo intelligibile all'universale, e cosí preparavano, educavano i notai, i giudici, i Podestà, i Capitani del Popolo. Certo la loro dottrina non era storica; in questa anzi essi si dimostravano debolissimi. Era invece l'esposizione razionale d'un diritto ancora vivente, e però dicevano: «chi non sa cavalcare, tengasi a l'arzone; ita debet Iudex tenersi a la glossa». In questo modo l'Università di Bologna divenne come la depositaria d'un diritto quasi universale e sacro. Ad essa mandavano i Papi le loro decretali, e gl'Imperatori le costituzioni, per farle rivedere o raccogliere. L'Imperatore era però tenuto come la sorgente viva e universale del diritto, il solo che potesse osar di aggiungere nuove leggi alle romane. Chi lo bestemmiava, veniva severamente condannato; chi non credeva alla sua autorità universale, era dagli stessi giuristi dichiarato eretico. Questa autorità egli l'aveva come signore di tutti i popoli, e gli veniva dall'Impero romano, di cui era legittimo erede. Riusciva quindi naturale che, per determinare la estensione e i limiti d'una tale autorità, fosse necessario ricorrere di nuovo ai professori di Bologna, che erano i veri depositari della legge romana, ed acquistavano perciò importanza sempre maggiore. Quello che si cercava era sempre la scripta ratio; ed i Comuni, anche quando dicevano di voler serbare illese le loro vecchie libertà, non tralasciavano mai di promettere che avrebbero rilasciato all'Imperatore le veteres iustitias, le quali gli erano dovute, e che essi volevano rispettare. Si trattava solo di ricercarle, e quindi di nuovo il bisogno di consultare i professori di Bologna.

Prima della gran contesa dei Lombardi contro Federico Barbarossa, vi fu un vero e proprio giudizio, che finí con una condanna dei Milanesi, dichiarati ribelli, adstipulantibus iudicibus et primis de Italia. A Roncaglia Federico esercitò il potere giudiziario e legislativo, assistito da quattro professori di Bologna, che propugnarono i diritti dell'imperatore, non perché nemici della patria, ma perché professori di diritto romano, e quindi sostenitori del Sacro Romano Impero. Né i Comuni sostenevano una teoria diversa. Vinto Federico, essi continuarono infatti a scrivere i loro Statuti, le loro leggi, i pubblici strumenti, in nome suo. E ciò si può vedere anche nel secolo xV, quando i notai rogavano tuttavia i pubblici atti in nome dell'Impero. Nella pace di Costanza l'elezione dei magistrati civili e criminali, dei Consoli, Podestà e Notai fu espressamente riservata all'Imperatore, il cui diritto venne in tutto ciò riconosciuto, al pari di quello che esso aveva, in ultimo appello, nelle cause d'una certa gravità. E se i Milanesi di fatto non tennero di ciò nessun conto, il diritto non fu mai da essi negato. I Lombardi si riconoscevano legalmente sudditi, ma poi volevano agire come liberi e padroni di sé. Lo stesso Arrigo VII, quando venne in Italia, ai tempi di Dante, faceva ancora processi contro le città italiane, e le condannava; imponeva ad esse taglie d'uomini e di denari; citava dinanzi a sé il re Roberto di Napoli. Tutto ciò poteva a molti sembrare allora una commedia; ma era l'eco d'una età trascorsa, di un passato che la stessa mente immortale dell'Alighieri credeva di poter richiamare in vita, come provano le sue lettere ed il libro De Monarchia. La Chiesa, è ben vero, combatté sempre l'Impero, ma l'autorità politica e giuridica dell'Imperatore, in tutto quanto il Medio Evo, non fu mai messa in discussione, restò sempre riconosciuta.

In mezzo a questa lotta continua tra la Chiesa e l'Impero, tra i Comuni e i Feudi, tra i Guelfi ed i Ghibellini, si formarono gli Statuti, nei quali si scrivevano via via cosí le consuetudini nuove, che s'andavano formando, come le consuetudini vecchie alterate dalle nuove. E se poco importava ai giuristi di Bologna studiare un diritto allora assai noto, perché viveva nell'uso comune, e scaturiva da quel diritto romano, che formava l'occupazione di tutta la loro vita, molto invece importerebbe a noi studiarlo, per conoscere appunto quale era il valore e il carattere di questa vita comunale nel Medio Evo. Ma pur troppo bisogna ancora aspettar molto, prima di poter risolvere pienamente il problema. Nondimeno è sempre necessario cominciar coll'esaminare i vari Statuti, e paragonarli tra loro, paragonando anche le diverse redazioni d'ognuno di essi, per arrivare a vedere la evoluzione del diritto nuovo, scoprire e comprendere il principio che la regola.

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