X.

Gli Statuti abbracciano tutta quanta la vita del Comune: la elezione e l'ufficio dei magistrati politici; il diritto pubblico, civile, criminale, amministrativo e commerciale. Piú ampiamente trattato è il diritto pubblico; il civile, invece, per le ragioni che abbiamo già dette, rimane assai incompiuto. Si occupano però, piú o meno largamente, dello stato delle persone, delle doti, dei contratti, delle forme di giudizio, delle successioni, dei testamenti, dei diritti nascenti dalle vicinanze dei fondi, sopra tutto della famiglia. Essi mirano ad una procedura semplice e sommaria, senza cavilli; cercano la buona fede e la speditezza negli affari; ma i vizi di redazione, un dissertare continuo, che è fuori di luogo nelle leggi, il frequente rimettersi ai giudici, raggiungono il piú delle volte un fine contrario. È strano veramente l'osservare come in secoli nei quali sorgeva una splendida letteratura; quando i piú modesti scrittori del tempo sono per noi esempio di bello stile; quando giudici, notai e professori di diritto avevano sempre dinanzi agli occhi il modello immortale del Corpus iuris, si scrivessero gli Statuti in una forma cosí inculta, che spesso può dirsi barbara, certo è sempre intricata e confusa. Essi costituiscono una legislazione consuetudinaria, mutabile, popolare, incerta ancora di sé, che, nata in mezzo alle guerre civili ne serbò l'immagine, e non raggiunse mai una forma classica, resa impossibile anche dal gergo scolastico che prevaleva sempre nelle nostre università e nei nostri giuristi. Le accuse che il Petrarca faceva sopra tutto alla forma usata dai professori di diritto al suo tempo, erano pienamente giustificate. L'umanesimo, che volle adoperare una lingua latina piú corretta ed elegante, dovette cominciare fuori delle università, spesso contro di esse; si diffuse largamente durante tutto il secolo xV, ma serbò sempre un carattere letterario e filosofico, assai piú che giuridico.

Da un altro lato il Comune italiano, non ostante i suoi grandi meriti e le sue grandi imprese, ha qualche cosa di transitorio, di medioevale; accenna sempre ad un periodo di passaggio. Esso fu il germe da cui doveva piú tardi uscire la società moderna; ma non poté generarla senza prima distruggere sé stesso, e quindi restò sempre in uno stato di continua trasformazione. Sorto dall'impasto di due società diverse, la romana e la germanica, ebbe dalla prima il concetto generale dello Stato, pigliando dalla seconda la libertà individuale, l'attività locale, la forza delle speciali associazioni. Il problema che dovette risolvere, quello che costituí la sua vita e la sua storia, sta appunto negli sforzi continui fatti per porre in armonia questi due elementi, i quali restarono lungamente, non solo separati, ma spesso anche in opposizione fra di loro. Fino a che la compiuta fusione non ebbe luogo, con la distruzione stessa del Comune, il conflitto continuò, ed il disordine fu inevitabile. Il governo e la politica hanno in esso una importanza grandissima, sconosciuta alla società barbarica; ma il Comune somiglia pur sempre ad una forte agglomerazione di piccole associazioni, piuttosto che ad una società sola, ad un vero e proprio Stato. La vita ferve anzi piú rigogliosa in questi mille gruppi, nell'attività dei quali si moltiplica; la forza sociale si trova principalmente nelle associazioni d'arti, di mestieri, di famiglie, di nobili, di popolani, le quali hanno leggi, statuti, magistrati e tribunali propri. Cosí ha luogo un intreccio straordinario di ordinamenti, di passioni, d'interessi diversi e fra loro cozzanti. La vera libertà individuale, la vera uguaglianza in faccia alla legge, non è conosciuta ancora; ma l'individuo è protetto, educato nella sua associazione, che gli comunica una forza e gli garantisce una libertà sempre maggiore. Questi gruppi secondari, però, a differenza di quelli da noi già incontrati nelle società germaniche, non possono separarsi, hanno bisogno di vivere nello Stato, fuori del quale perderebbero la loro ragione di essere. La moltiplicità loro infinita, le gelosie, l'urto e le collisioni continue, rendevano tanto piú necessaria, tanto piú desiderata e amata la repubblica, per la quale ognuno di quei mercanti era pronto a dare la vita, giacché da essa, nella pace e nella guerra, dipendeva la loro salvezza e quella delle varie associazioni. I capi ed i principali componenti di queste, entravano di diritto nei Consigli della repubblica, la governavano, ne erano padroni, e vi trovavano la sola valida difesa contro i mille rivali che ognuno di loro aveva. Cosí si poneva in armonia il particolare col generale interesse, ed il potere frazionato, diviso in mille mani, riesciva pure a tutelare la libertà di tutti, in un tempo nel quale ancora non era sorto il vero concetto dello Stato e della generale uguaglianza. Ma è ben facile immaginare, quanto poco ordinate e determinate dovessero essere le legislazioni di repubbliche in questo modo divise e suddivise, nelle quali, ad ogni piè sospinto, si trovava un nuovo Statuto speciale, un nuovo tribunale; in tempi nei quali il potere giudiziario e politico erano per modo confusi, che chi aveva una parte dell'uno, possedeva di necessità una parte dell'altro.

Il carattere che domina in tutto il diritto civile degli Statuti sembra essere la gelosia dei vicini Comuni, la paura che la proprietà possa, coi matrimonî, uscire dalla città, dalla consorteria o dalla famiglia. Ed a ciò le leggi e le consuetudini provvidero in modo, che noi vediamo in una repubblica democratica come quella di Firenze, nella quale ogni vestigio d'aristocrazia fu distrutto, e i Ciompi salirono al governo, la proprietà immobile conservarsi unita per modo, che fino ad oggi si trovano famiglie, le quali possiedono i fondi stessi che i loro antenati possedevano fin dal secolo xiv. Il bisogno di tenere strettamente unite le famiglie, le associazioni e le consorterie, obbligando in solido i vari membri di esse, si manifesta con tanta forza, che queste ragioni politiche e sociali son quelle appunto che determinano l'indirizzo del diritto civile, spesso ne impediscono il naturale svolgimento. E cosí, non ostante le debolezza dello Stato, noi ritroviamo anche qui la vecchia tradizione latina, che dà sempre un'eccessiva importanza alla politica, e quindi un'azione preponderante del pubblico sul privato diritto. Gli Statuti italiani perciò si spiegano e si comprendono solo con la storia dei Comuni, che a loro volta illustrano. E questa è un'altra ragione, per la quale i professori di Bologna, usati al carattere filosofico del diritto giustinianeo, e poco o punto pratici della interpretazione storica, trascurarono cosí lungamente gli Statuti.

L'azione predominante della politica, come è ben naturale, si manifesta chiarissima anche nella costituzione della famiglia, nella quale i diritti che derivano dal concetto che ha di essa il Comune, prevalgono sui vincoli del sangue, assai piú rispettati nel diritto germanico. Il regime dotale romano è pienamente accettato, ma la dote è assai limitata. I maschi hanno una grande precedenza sulle femmine e sui discendenti femminili. In ogni caso però la donna è sicura di ricevere gli alimenti. Non si vuole che sia ricca, non si vuole che divida il patrimonio domestico, portandolo in altra famiglia, e molto meno in altro Comune; ma, nel peggiore dei casi, deve essere sicura d'un vivere decoroso, secondo la propria condizione. Essa rimane sotto la perpetua protezione del mondualdo; ma il mundio prende negli Statuti il carattere della tutela romana degli ultimi tempi, e sembra quasi confondersi con essa. La donna, infatti, può chiedere al giudice il suo mondualdo; può sceglierlo, quando le occorra per un affare speciale. E per tutto si vede questa tendenza a trasformare in romane le istituzioni longobarde, di cui spesso riman solo il nome;

La proprietà immobile si trovava vincolata per modo, che alla morte del padre, la parte disponibile era minima; e cosí chi nasceva di agiata famiglia, poteva restar tranquillo sul suo avvenire. Ma, nello stesso tempo, questa proprietà immobile era cosí piccola, in proporzione della proprietà mobile, nei nostri Comuni, simili tutti a grosse case di commercio, che se da un lato si avevano tanti vincoli e tanta stabilità, dall'altro v'erano i subiti guadagni, le fortune improvvise ed una estrema mobilità di capitali.

Venerata era l'autorità paterna, e somma confidenza si aveva nei tutori da essa eletti; ma non si trova negli Statuti un grande svolgimento della patria potestà. Invece, il carattere predominante nella famiglia, come per tutto, è il fare ogni cosa in comune. Il Consiglio di famiglia, la riunione dei parenti deliberano ogni faccenda di qualche gravità. La legge e la consuetudine vanno sempre piú oltre per questa via. Vi è una tale comunanza d'interessi nella famiglia, nella consorteria e nell'associazione, che arriva qualche volta a prendere proporzioni stranissime. Non solo il padre o il fratello possono essere chiamati a pagare i debiti del figlio e del fratello; ma chi ha un credito verso una società, può agire contro i singoli membri di essa, e un consorte può essere tenuto a scontare persino i delitti dell'altro. Nel seno della famiglia o della consorteria, le cause si decidevano per mezzo di arbitri, le cui sentenze avevano tutto il valore di giudizi legali. Nel seno delle associazioni d'arti, v'erano, come abbiamo già detto, veri e propri tribunali speciali. Questi fatti, questi caratteri del diritto statutario non si possono certo attribuire al diritto romano; ma trovano la loro spiegazione nelle origini stesse della storia italiana, nelle quali certamente i popoli e le istituzioni germaniche hanno avuto una parte non piccola. L'indole propria del Comune è sempre la stessa. Da un lato le particolari associazioni hanno un grande svolgimento; da un altro l'azione del potere politico qualche volta è troppo debole, ma qualche altra è pur tale da sembrare anche ai nostri tempi eccessiva. È singolare certamente, in una società nella quale lo Stato è cosí debole da sembrar di continuo minacciato nella sua stessa esistenza, il vederlo esercitare una grandissima e diretta ingerenza negli affari privati dei cittadini. La emancipazione del figlio deve farsi solennemente nel Consiglio del popolo, radunato in maggioranza, presenti i capi della repubblica. Se un cittadino di qualche autorità vuol mutare abitazione, passando da uno in un altro Quartiere della città, l'affare è portato dinanzi ai medesimi Consigli del Popolo e del Comune, dai quali si richiede una speciale deliberazione. Noi vediamo i Signori della repubblica fiorentina continuamente variare la divisione e le proporzioni che sono fra i Quartieri o Sestieri della Città, ingrossandone, impicciolendone ora l'uno ora l'altro, per mantenere l'equilibrio sempre minacciato dei partiti e delle consorterie; per impedire che uno dei Quartieri, divenuto troppo potente, predomini eccessivamente. Il portare la propria abitazione da uno in un altro di essi, poteva trascinare un cittadino in una diversa consorteria o partito, e divenire quindi un affare politico. Ma tutto ciò dimostra sempre piú, che la società non ha ancora trovato il suo naturale e definitivo assetto. I molteplici e nuovi e vari elementi che la compongono, si svolgono da ogni lato; ma quella sintesi che li riunisce ed assimila, non poté mai essere raggiunta dal Comune italiano.

Share on Twitter Share on Facebook