XI

Tutto era dunque tranquillo e sicuro fuori della Città, quando appunto i maggiori pericoli cominciarono dentro. I Grandi erano decisi a non volere che avessero esecuzione gli Ordini della giustizia, e però s'adoperavano in maniera che, quando seguivano offese contro i popolani, gli offensori venissero condotti dinanzi a giudici del loro medesimo partito, i quali stendevano il processo a loro favore, e cosí il Podestà, senza saperlo, era spinto a colpire gl'innocenti. Nascondevano i malfattori, difendevano i consorti, e quando si poneva mano all'esecuzione della legge, tentavano di far nascere tumulti. Contro tutto ciò appunto reagiva ora fieramente il popolo, guidato da Giano della Bella, il quale soleva ripetere sempre: perisca piuttosto la Città che la giustizia. Le passioni perciò s'esaltarono in modo, che già si minacciava di voler trascorrere a gravi eccessi contra i Grandi. Primi a cader sotto le piú severe pene degli Ordinamenti furono i Galli. Avendo uno di essi ferito in Francia un mercante fiorentino, che poi ne morí, le case loro furono disfatte in Firenze. Dopo questo esempio, facilmente s'andò oltre. Il popolo chiedeva nuove e sempre piú severe esecuzioni: si temeva perciò, dice il Compagni, «se l'uomo accusato non fosse punito, che il rettore non avesse difensione né scusa, il perché niuno accusato rimaneva impunito». I Grandi erano al colmo del loro furore, ed esclamavano, non senza qualche apparenza di ragione: «Un caval corre e dà della coda nel viso a un popolano, o in una calca uno darà di petto senza malizia a un altro, o piú fanciulli di piccola età vengono a quistione; debbono però costoro, per sí piccole cose, essere disfatti?»

In questo modo sorse fra di loro il pensiero di cospirare contro la persona di Giano, capo e istigatore del popolo, e cosí farla finita una volta per sempre. La cosa non doveva esser di difficile riuscita, a cagione del carattere impetuoso, aperto, imprudente di lui. Il suo predominio sul popolo minuto era grandissimo, ma anche qui v'era un'altra cagione di debolezza. La plebe e le Arti minori vivevano, come vedemmo, colla piccola industria, col piccolo commercio nell'interno della Città, e facevano i loro maggiori guadagni coi nobili, i quali perciò avevano su di esse molta autorità, e fra di esse trovavano parecchi seguaci. Da un altro lato non mancava sin d'allora una qualche gelosia tra il popolo minuto ed il popolo grasso, il quale viveva, invece, principalmente col commercio d'esportazione e d'importazione, ed era indipendente dai Grandi, che odiava e voleva abbattere. Non per questo però il popolo grasso poteva veder con piacere che Giano sollevasse l'ambizione e la potenza della plebe, la quale era scontenta perché si trovava esclusa dal governo, e cominciava a desiderare di prendervi parte.

S'aggiunse piú tardi l'elezione di Bonifazio VIII (dicembre 1294), il quale aveva un'ambizione smodata di temporale dominio, e credeva che, per la vacanza dell'Impero, il Papato potesse ora assumerne in Italia ed in Europa i diritti. Voleva perciò specialmente in Firenze, che era capo di Toscana, e dove già i suoi predecessori avevano nominato Carlo d'Angiò vicario imperiale, accrescere la propria autorità. Cominciò quindi a intendersela subito coi Grandi, coi quali era molto piú facile venire ad accordi, perché, trovandosi essi già indeboliti, avrebbero ben volentieri ripreso il governo della Città in nome suo, come i loro antenati ghibellini lo avevano piú volte tenuto in nome dell'Imperatore. Ma a ciò naturalmente si opponeva il popolo grasso, il quale, volendo invece mantenere la Repubblica libera e indipendente, non poteva, sebbene guelfo, intendersi ora col Papa.

I segreti maneggi fra i Grandi e Bonifazio VIII cominciarono subito, per mezzo degli Spini, ricchi mercanti fiorentini, che, essendo banchieri della Curia, avevano agenti a Roma. Il primo risultato di ciò fu l'invito di venire in Toscana, fatto a un tal Giovan di Celona, che già con alcune centinaia d'uomini armati s'avanzava ora verso l'Italia, chiamato dal Papa e dai Grandi, i quali ultimi volendo giovarsene ai loro propri fini, gli avevano fatto molte promesse, a quanto pare, d'accordo anche con alcuni dei popolani. Ma tutto ciò andava per le lunghe, e le passioni correvano ora piú rapide dei maneggi politici, che servivano però a tenerle sempre accese. Si pensò quindi ad ordire senz'altro indugio una trama, per uccidere addirittura Giano della Bella. Percosso il pastore, fiano disperse le pecore, dicevano i Grandi.

Se non che, su coloro che desideravano pronta violenza, prevalsero quelli che consigliarono invece l'astuzia. Nel popolo seguivano allora molti eccessi, che restavano impuniti per la debolezza dei giudici. I beccai soprattutto, guidati da un tal Pecora, pessimo e audace, che pubblicamente minacciava i Signori, trascorrevano ogni giorno di piú. E però, sapendo l'amore che Giano aveva alla giustizia, i Grandi, nelle riunioni che avevano spesso con lui e coi popolani, gli dissero: «Non vedi tu la violenza dei beccai; non vedi l'insolenza dei giudici, che, minacciando di punire i Rettori, al tempo del sindacato, ottengono ingiusti favori? Si lasciano sospesi i piati tre o quattro anni, e non si pronunziano mai le sentenze.» Giano, nella sua lealtà, subito rispondeva: «Perisca piuttosto la Città, che ciò si sostenga. Facciansi leggi che siano freno a tanta malizia». E i Grandi correvano allora malignamente a dire ai giudici ed ai beccai, che esso voleva rovinarli con nuove leggi. Continuando poi l'astuta trama, consigliavano una legge contro gli sbanditi, colla speranza di poterla presto applicare a lui stesso. Pare che egli fosse per cader nella rete, ma ne fu avvertito in tempo. E allora, senza piú volere ascoltare né amici né nemici, non consentí che nessuna legge si proponesse, minacciando di farli uccidere tutti. Cosí si sciolse l'adunanza, senza concludere altro che irritar sempre piú gli animi.

Ma i Grandi non perciò s'arrestavano. Vedendo che Giano aveva sempre molti amici, e non era sperabile di vincerlo con quelle astuzie, si radunarono soli in S. Iacopo Oltrarno, per discutere sul da fare, e tornarono allora in campo i consigli violenti. Betto Frescobaldi, suo nemico personale, colui che gli aveva già posto le mani sul viso in S. Piero Scheraggio, disse: «Usciamo di questa servitú; «prendiamo l'arme e corriamo sulla Piazza; uccidiamo amici «e nemici di popolo, quanti noi ne troviamo, sicché giammai «noi né i nostri figliuoli non siamo da loro soggiogati». Ma di nuovo si opposero i fautori dell'astuzia, e Baldo della Tosa, con molta calma, disse: «Il consiglio del savio «cavaliere è buono, se non fosse di troppo rischio, perché «se il nostro pensiero venisse manco, noi saremmo tutti «morti. Vinciamgli prima con ingegno, e scomuniamgli «con parole pietose.... E cosí scomunati, cacciamgli per «modo che piú non si rilevino».

Se non che a un tratto, l'occasione opportuna alla violenza si presentò da se stessa. Corso Donati, uno dei piú potenti e prepotenti nella Città, spinse alcuni suoi uomini a ferire messer Simone Galastroni, e ne seguí una zuffa, nella quale vi furono un morto e due feriti. Le parti presentarono querela; ma quando si fu dinanzi ai giudici che stendevano il processo, uno di essi, dominato dal solito spirito di parte, fece sí che il notaio scrivesse a rovescio le deposizioni dei testimoni. E venuta la cosa in questi termini dinanzi al Podestà Gian di Lucino, egli assolvette il Donati e condannò il Galastroni. Il popolo allora, che s'era trovato presente alla zuffa e sapeva come era andata la cosa, levatosi a tumulto, gridava per le strade: Muoia il Podestà; al fuoco, al fuoco! E corse subito al Palazzo con la stipa in mano, per bruciarne la porta, sperando d'avere a guida e sostegno Giano della Bella, il quale invece prese le parti dei magistrati, che voleva sempre rispettati. La porta del Palazzo del Podestà fu nonostante arsa, i suoi cavalli e gli arnesi rubati, i suoi uomini presi, gli atti stracciati; e molti che sapevano trovarsi presso di lui carte e processi a loro carico, riuscirono a distruggerli. Egli, che aveva seco la moglie, fuggí con essa nelle case vicine, dove furono ricoverati. Corso Donati, che era allora nel Palazzo, si salvò fuggendo su per i tetti.

Il giorno seguente furono radunati i Consigli, e per onore della Repubblica si deliberò di restituire al Podestà ogni cosa indebitamente a lui tolta, pagandolo e lasciandolo partire. Cosí fu subito rimesso l'ordine; ma gli animi erano sempre assai eccitati, ed i Grandi s'avvidero che il momento della vendetta contro Giano era finalmente arrivato. Infatti alcuni del popolo gli erano avversi, per le mille calunnie sparse ad arte contro di lui, fra cui quella d'aver egli promosso leggi a danno dei giudici e dei beccai; altri erano sdegnati, per aver egli preso le parti del Podestà; ed altri finalmente lo accusavano d'essere stato cagione del tumulto. In tanta incertezza e confusione di animi, i suoi nemici riuscirono a far eleggere prima del tempo una Signoria a lui avversa, che subito lo fece richiedere come autore dei disordini. Tutta la Città si trovò allora sollevata. Alcuni lo volevano condannare; ma il popolo minuto correva invece a difenderlo. Allora egli giudicò bene allontanarsi, ed il 5 marzo 1295 se ne usci di Firenze, per evitare una guerra civile, sperando che la sua partenza aprirebbe gli occhi ai piú savi, e che questi lo avrebbero perciò richiamato. I suoi calcoli però andarono falliti, avendo egli molti piú nemici che non credeva. E cosí fu condannato in contumacia, in nome di quegli stessi Ordini della giustizia, che aveva promossi, e dei quali era tenuto autore. Il Papa allora mandò subito a rallegrarsi coi Fiorentini, e Giano capi che la sua stella era ormai tramontata. Senza perciò esitare, come portava la sua indole sdegnosa e pronta, andossene in Francia, dove aveva alcuni interessi nella casa dei Pazzi, e quivi morí esule. Le sue case vennero disfatte, i suoi amici e parenti furono condannati, ma gli Ordinamenti della Giustizia restarono fermi per lungo tempo ancora. Il Villani, a questo proposito, nota come chiunque in Firenze «s'è fatto caporale di popolo o d'università, è stato sempre abbandonato». E aggiunge che «di questa novitade ebbe grande turbazione e mutazione il popolo e la cittade di Firenze, e d'allora innanzi gli artefici e' popolani minuti poco potere ebbono in Comune; ma rimase al governo dei popolani grassi e possenti».

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