I

Dopo la partenza di Carlo di Valois, e le vicende che ne seguirono, la storia di Firenze entra in un nuovo periodo. Gli esuli si unirono ai nobili di contado, alle città ghibelline, per ribellarle contro la Repubblica, ed aprirsi cosí la via a tornare in patria. Questo naturalmente tenne, per qualche tempo, dentro la città riuniti e concordi i Grandi della parte nera, i quali sempre piú si vantavano d'essere i veri, i soli Guelfi, e davano nome di Ghibellini agli esuli. Pistoia ed il castello di Piantravigne furono primi a sollevarsi, ma vennero subito sottomessi. E allora, il dí 8 giugno 1302, i capi degli esuli, fra i quali era anche Dante Alighieri, s'adunarono nella Chiesa di S. Godenzio sull'Appennino, e fecero esplicita alleanza cogli Ubaldini, obbligandosi a risarcirli colle proprie fortune, dei danni che avessero risentito dalla guerra, nelle loro terre in Mugello, dove il forte castello di Montaccenico doveva essere come il quartier generale dei nemici di Firenze. E i Fiorentini, senza punto aspettare, vennero subito a dare il guasto alle terre degli Ubaldini di qua e di là dall'Appennino. Gli esuli, adoperandosi a tutt'uomo, riuscirono col favore di Pisa e di Bologna, a mettere insieme un esercito di 800 cavalli e 6000 fanti, e nella primavera del 1303 posero l'assedio al Castello di Pulicciano, ch'era dei Fiorentini. Ma anche qui furono poco fortunati. Da Firenze uscirono subito armati «popolo e cavalieri», e li assalirono. I Pisani non mandarono gli aiuti promessi, gli Ubaldini non si mossero, i Bolognesi si dissero traditi e si ritirarono; e cosí i Bianchi, rimasti soli, si dierono alla fuga vergognosamente. I Neri poterono allora tornare in città vittoriosi, menando seco molti prigionieri, alcuni de' quali uccisero per via, altri fecero decapitare dal Podestà. Poi presero improvvisamente il castello di Montale presso Pistoia, e disfecero quel contado. Cosí pareva che la guerra fosse finita, e le speranze degli esuli cadute a terra.

Ma fu questo il momento in cui scoppiò da capo la discordia in Firenze. Già prima v'erano stati segni di malumore e tumulto, per il che s'era dovuto venire a qualche nuovo esilio, a qualche nuova sentenza di morte. Ora però le cose pigliarono piú grave aspetto. L'arrogante superbia di Corso Donati ricominciava a portare i suoi frutti. Disgustando gli amici, li spingeva a gettarsi verso il popolo grasso, che essi odiavano. Separato dai nobili di contado, che stavano cogli esuli, tentava farsi di nuovo capo dei Grandi piú intolleranti, e cercava favore nel popolo minuto, dicendogli che lo spogliavano colle imposte, con le quali alcuni dei popolani grassi s'empievano le tasche. «Veggasi dove sí gran somma n'è ita, che non se ne può esser tanta consumata nella guerra». E voleva un'inchiesta, cominciando cosí, come dice il Villani, «a seminare discordia sotto colore di giustizia e di pietà». Si parlò, si strepitò molto, ma non si concluse nulla, sebbene s'arrivasse a votare una provvisione (24 luglio 1303), che dava al Podestà ed al Capitano piena balía d'indagare e di provvedere. Ma i popolani grassi contro cui l'accusa era diretta, cominciarono ad irritarsene molto, e per dare un nuovo colpo ai Grandi, fecero rimpatriare alcuni degli esuli che erano di popolo, e che non avevano rotto il confine. Poi richiamarono qualcuno dei Cerchi, avendo in ciò l'approvazione dello stesso Bonifazio VIII, il quale era molto impensierito dei tumulti che i Bianchi sollevavano per tutto, anche nelle città della Chiesa. E cosí Corso Donati, «ripescando», secondo la felice espressione del Del Lungo, «i Grandi dal crogiuolo», poté accogliere intorno a sé piú di trenta famiglie, fra le quali alcune anche di popolani, e qualche ribandito. V'erano parecchi dei Tosinghi, i quali tenevano pei Bianchi, e uno di loro, il valoroso Baschiera della Tosa, si trovava fra gli esuli. V'erano i Cavalcanti, stati suoi antichi nemici, famiglia ricchissima e numerosissima, che aveva perciò gente di tutti i partiti, piú assai dei Bianchi che dei Neri, e possedeva nel centro di Firenze uno sterminato numero di case, botteghe, fondachi, dati in affitto ai mercanti, coi quali si trovava quindi in buone relazioni. Cosí questo dei Donati non era piú un partito; si poteva piuttosto dire un'accozzaglia di gente, che Messer Corso teneva unita coll'odio contro il popolo. Infatti egli andava ora ripetendo, che essi «erano prigioni e in servitú d'una gente di popolani grassi, anzi cani, che gli signoreggiavano, e toglieansi gli onori per loro». In sostanza però i veri Grandi, quelli cioè che di nome e di animo eran tali, s'accostavano quasi tutti a lui, e quelli che non potevano tollerare i suoi modi insolenti, preferivano piuttosto starsene di mezzo a guardare. Con lui era anche l'arcivescovo Mess. Lottieri della Tosa, che s'armava nel suo palazzo. Di fronte a costoro era sorto però un gruppo di famiglie come gli Spini, i Pazzi, qualcuno dei Frescobaldi, i Gherardini, ed alla loro testa si trovava Mess. Rosso della Tosa, ambiziosissimo anch'egli, il quale, pigliando l'attitudine stessa già tenuta da Vieri dei Cerchi, s'accostava al popolo grasso. E valendosi dei piú arditi suoi seguaci, specialmente dei Bordoni, popolani Neri, che nelle sue mani divenivano, come dice il Compagni, «tanaglie par pigliare il ferro caldo», faceva ogni giorno attaccare il Donati nei Consigli.

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