Parevano cosí nuovamente tornati quei tempi che avevano preceduto la venuta di Carlo di Valois. Da un lato infatti Rosso della Tosa, unito co' suoi al popolo, difendeva la Signoria; da un'altra il Donati, favorito dai Capitani di Parte, di continuo la minacciava ed assaliva. Da capo i cittadini s'armavano e s'azzuffavano ogni giorno; da capo seguivano rubamenti, ferite, omicidi, incendi nella città e nel contado. Perfino dalla torre del vescovado una manganella tirava contro gli avversari di Corso Donati. La Signoria ed il Podestà erano ridotti all'impotenza. E la cosa arrivò a tale, che si ricorse allo stranissimo partito di dare per sedici giorni il governo in mano dei Lucchesi, acciò si provassero a ricondurre la quiete in città. Essi ristabilirono l'ordine, senza però punire alcuno, sicché quando furono partiti, le cose tornarono come prima. Si cercò anche di nominare una Signoria (sempre ben inteso di popolani), d'accordo fra le due parti; ma erano tentativi che non menavano a nulla. Ciò che portava la confusione al colmo, e la rendeva permanente, era che, se la divisione tra Grandi e Popolani aveva costituito davvero due partiti, quella fra i Grandi, che ora agitava la città, era promossa dalla sola ambizione di Corso Donati e di qualche altro; non aveva nessuna ragione politica; non era guidata da nessun principio e da nessun interesse generale. Col Donati infatti v'erano, come vedemmo. Grandi di tutti i colori, v'erano anche ribanditi che avevano amici o parenti fra gli esuli, né mancavano alcuni popolani. E nel partito avverso, che difendeva la Signoria, non poteva neppure esservi molta coesione, perché v'erano potenti e popolani, tra i quali l'accordo non fu mai sicuro. Se gli avversari della Signoria erano uniti dalla volontà e dall'ambizione di messer Corso, i fautori erano piú che altro uniti dall'odio contro di lui. E però, a cagione di questo carattere personale dei partiti, ne seguivano divisioni e suddivisioni sempre mutabili, sempre crescenti; passaggio irrequieto, perpetuo, da un gruppo all'altro.
A tutto ciò s'aggiungeva ora la morte di Bonifazio VIII (11 ottobre 1303), cui successe Benedetto XI, assai piú mite e di carattere incerto. Questi avrebbe voluto ad ogni costo ristabilire la pace in Firenze, e farvi tornare gli esuli, perché essi tenevano agitato il suo Stato, ed egli era già in Roma stessa talmente avversato dal popolo e dall'aristocrazia, che subito dopo l'elezione aveva dovuto rifugiarsi a Perugia, sui confini cioè dell'agitata ed irrequieta Toscana. Né poteva, in mezzo a tante calamità, aspettarsi ora alcun aiuto dalla Francia, perché aveva iniziato un processo contro gli autori dell'attentato d'Anagni, che, tramato appunto da quel Re, era stato causa della morte di Bonafazio VIII. Per tutte queste ragioni, sollecitato dai Bianchi dentro e fuori di Firenze, il 31 gennaio 1304, vi mandò a far la pace il Cardinale da Prato, che era in voce di ghibellino. Questi arrivò il 10 marzo, e voleva contentar tutti: Grandi, popolani, esuli. Bianchi, Neri di Corso Donati e Neri di Rosso della Tosa. Ma quello che piú commosse gli animi e portò la confusione al colmo, fu il suo pensiero di far tornare gli esuli e pacificarli con la città. Tuttavia coloro che meno vi si opposero erano i popolani, i quali vedevano in ciò un modo d'indebolire i Grandi, tenendoli fra loro sempre piú divisi. Invece Rosso della Tosa, con parecchi de' suoi, era avversissimo al ritorno degli esuli, perché gli pareva che ne verrebbe rafforzata la parte degli avversari, i quali già a molti di essi s'andavano avvicinando. Corso Donati, pigliando pretesto dal male della gotta che lo aggravava, stavasene per ora di mezzo a guardare. Ma i Cavalcanti favorivano con ardore l'accordo, anzi sembravano esserne i promotori.
Il Cardinale, avuta piena balía dal popolo, si provò subito a concludere paci, e riuscí a farne una tra il Vescovo e Mess. Rosso della Tosa, che ne era consorto. Fece poi nominare Mess. Corso Capitano di Parte Guelfa, e riordinò le antiche milizie del popolo, sotto 19 gonfalonieri delle compagnie, secondo l'antica usanza. Ma sebbene a comandarle avesse fatto nominare alcuni dei Grandi, questi molto si dolsero della riforma, dicendo che egli dava cosí nuova forza al popolo, e che era ghibellino, ed avrebbe finito coll'abbandonare la città in mano dei Bianchi, i quali richiederebbero i beni che loro erano stati confiscati, per essere amministrati a benefizio della Parte Guelfa. Ma il Cardinale non si curava di questi lamenti, e si ostinava a tenere adunanze per venire ad accordi. Il 26 aprile infatti si fecero in piazza S. Maria Novella parecchie paci tra Neri donateschi e Neri tosinghi. E furono celebrate con molte feste, fra le quali una assai solenne ne apparecchiò la Compagnia del Borgo S. Frediano, annunziando per tutta la Città, che chi voleva aver nuove dell'altro mondo, poteva venire la sera del 1° maggio sull'Arno, dove le avrebbe avute. E mediante fuochi d'artifizio, s'apparecchiò una rappresentazione dell'Inferno, con barche piene di gente, che dovevano figurare i condannati alle varie pene. La folla accorse numerosissima lungo il fiume, e sul ponte alla Carraia, il quale, essendo allora di legno, sprofondò con danno gravissimo di molti feriti e morti, che andaron davvero nell'altro mondo. Questo parve a tutti un funesto augurio di nuove calamità, e cosí fu.