Ma quale fu la conseguenza politica di questi fatti? In sui primi, essendosi i Donati e i della Tosa uniti a disfare i Cavalcanti e loro amici, si temette che i Grandi, rafforzati dalla unione e dalla vittoria, volessero tentar di disfare gli Ordini della Giustizia, e prendere in mano il governo. Né, secondo il Villani, sarebbe stato impossibile riuscirvi in mezzo a quel generale sgomento. Ma avrebbero dovuto essere concordi davvero, e si vide che erano invece, «per le loro sette divisi e in discordia, e però ciascuna parte s'abbracciò col popolo, per non perdere stato». La divisione dei partiti rimase in sostanza la stessa. Da una parte, cioè, Grandi in guerra fra loro, che cercavano nel popolo aiuto contro i propri nemici, e dall'altra il popolo, che dalla discordia dei Grandi cercava trarre vantaggio. Gravissime perdite di certo avevano nell'incendio subito anche i mercatanti; ma la loro ricchezza era di sua natura tale, che rapidamente si riproduceva, mentre che quella dei Grandi non si poteva rifare dei danni assai maggiori che aveva sostenuti. Tale infatti era allora la prodigiosa prosperità del popolo fiorentino, che, anche dopo tanta distruzione, noi non vediamo segno alcuno che faccia apparire diminuita la sua ricchezza. Troviamo invece assai decaduta la potenza dei Grandi, i quali nel primo cerchio, cioè nel centro della città, là dove erano le antiche famiglie, scomparvero quasi del tutto. E però non senza ragione il Capponi afferma nella sua Storia, che «d'ora in poi ogni signoria di nobili può dirsi interamente diradicata, e i nuovi ordini assodati». E cosí anche questa sventura riuscí, come era sempre seguito in Firenze, a vantaggio del popolo.
Per tutti questi dolorosi fatti, e per ciò che il Cardinale da Prato aveva riferito al Papa in Perugia, vennero colà chiamati alla sua presenza dodici dei Grandi piú autorevoli in Firenze; e fra di essi erano Mess. Corso Donati e Mess. Rosso della Tosa, una volta nemici, ora divenuti amici d'un giorno. Andarono con gran seguito, formando una compagnia in tutto di cinquecento uomini a cavallo. E questo parve agli esuli il momento piú opportuno per ripetere il tentativo di tornare in patria. Si disse, al solito, che il Cardinale li aveva incoraggiati, assicurando che avrebbero trovato favore; si aggiunse ancora che aveva istigato Pisa, Bologna, Arezzo, Pistoia, la Romagna tutta ad aiutarli. Ma se da un lato alcuni dei piú fieri avversari degli esuli s'erano per un momento dovuti allontanare da Firenze, è certo da un altro lato che la forza dei loro nemici doveva essere non poco cresciuta per la strage dei Cavalcanti e dei Gherardini. E se le Arti Maggiori si erano prima indotte a favorire il ritorno degli esuli, massime di quelli che erano popolani, non si poteva sperare che volessero continuare a favorirli ora che essi si avanzavano col favore dei Pisani, dei Ghibellini di Toscana e di Romagna. La loro alleanza coi nemici della Repubblica, la riuniva naturalmente contro di essi.
Pure gli esuli parevano ora pieni di speranza, perché coi nuovi aiuti erano riusciti a formare un esercito di 9000 fanti e 1600 cavalieri, coi quali s'avanzarono il 19 luglio sino alla Lastra, dove ne aspettavano altri, che dovevano venire da Pistoia, sotto il comando di Tolosato degli Uberti, valoroso capitano ghibellino, d'un'antica famiglia fiorentina sempre odiata dai Guelfi, ai quali ricordava la disfatta di Montaperti. Non vedendolo arrivare, gli esuli si decisero non ostante ad avanzare; ma l'indugio d'un giorno era bastato a far sí che non fosse piú possibile pigliar Firenze alla sprovvista. Si presentarono infatti solo 1200 cavalieri, in attitudine pacifica, con rami d'olivo in mano; e passato il cerchio non ancora finito delle nuove mura, si fermarono dinanzi alle antiche, nel podere detto di Cafaggio, tra San Marco e i Servi. Ivi, trafelati, senz'acqua, esposti al sole del 20 luglio, aspettarono invano che le porte s'aprissero. Alcuni altri di loro, riuscendo a sforzare la porta degli Spadai, entrarono in Città, e s'avanzarono sino a S. Giovanni, dove invece d'amici trovarono 200 cavalieri e 500 fanti, che li respinsero, facendo alcuni prigionieri, oltre parecchi morti e feriti. E questo fu il segnale d'una ritirata, che si mutò presto in fuga generale. Infatti quelli che erano in Cafaggio, già estenuati dal caldo e dalla sete, gettarono a terra le armi, e si ritirarono inseguiti da «masnadieri di volontà». Molti ne morirono di ferro o trafelati; altri furono derubati, presi e poi appiccati agli alberi. Prima dei fuggiaschi arrivò alla Lastra la notizia della rotta, e cosí anche quelli che s'erano colà fermati, si dettero alla fuga, né poté per via trattenerli Tolosato degli Uberti, il quale, avendoli incontrati, tentò invano di ricondurli all'assalto. Tutto questo è, fra gli altri, narrato dal Villani, il quale si trovò presente ai fatti seguiti in Città. Dante Alighieri non venne alla Lastra, perché s'era poco prima separato quasi con violenza dai suoi compagni d'esilio, disgustato probabilmente delle loro ibride alleanze con tutti i nemici di Firenze, dei segreti accordi iniziati con Corso Donati e i Cavalcanti, addolorato dalle stragi cittadine, che per la vana speranza di far tornare alcuni degli esuli, erano state cosí ciecamente provocate.
La vittoria della Lastra dové certo dar nuovo ardimento e nuovo potere ai Grandi. Cosí forse si spiega come è che appunto ora alcuni di essi chiedano d'essere cancellati dalle Arti, cosa affatto nuova in Firenze, dove era stato solito invece vederli spogliarsi dei loro titoli, mutar casato, chieder d'essere scritti alle Arti. E se ne ha conferma ancora in un altro fatto assai grave, che seguí il 5 di agosto 1304. Uno degli Adimari commise un maleficio, e fu menato nel palagio del Podestà, per essere condannato. Ma i suoi consorti, armata mano, assalirono quel magistrato, mentre che con i suoi famigli tornava dai Priori, e dopo averne ferito o ucciso parecchi, trassero dalle prigioni il colpevole. Laonde Mess. Gigliolo da Prato, Capitano del popolo, che allora faceva anche da Podestà, perché, a cagione dei continui tumulti, nessuno aveva voluto ancora accettare quest'ufficio in Firenze, se ne andò via sdegnato. E i Fiorentini, se vollero amministrar la giustizia, dovettero contentarsi d'eleggere dodici cittadini, due per Sesto, uno dei Grandi ed uno dei popolani, che facessero le veci del Podestà. Tuttavia la guerra di fuori, ben presto ricominciata, fece tornare una momentanea calma in Firenze.